Giustizia internazionale
Putin invitato in Sudafrica. I dubbi di Ramaphosa e l'insidia di Orbán
In agosto si terrà il vertice dei Brics a Johannesburg e in teoria si dovrebbe dare esecuzione all'ordine di arresto nei confronti del presidente russo. Ma il governo sudafricano si mostra ancora più incerto dell'Ungheria
Dal 22 al 24 agosto Putin dovrebbe recarsi al vertice dei Brics a Johannesburg, ma il Sudafrica è uno dei 123 paesi che, avendo sottoscritto lo Statuto di Roma, riconoscono la Cpi e le sue decisioni. Dunque, in teoria sarebbe tenuto a dare esecuzione all’ordine di arresto di Putin che la Cpi ha emanato. Un problema simile si era già presentato nel 2015, quando venne in Sudafrica l’allora presidente del Sudan Omar al Bashir, a sua volta colpito da ordine di arresto della Cpi. Presidente era allora Jacob Zuma, che però si rifiutò di agire contro l’ospite, basandosi sul principio dell’immunità per i capi di stato. Un tribunale sudafricano, in realtà, aveva vietato ad al Bashir di lasciare il paese mentre veniva presa in considerazione l’estradizione, ma il giorno dopo questa decisione il presidente sudanese tornò nel suo paese senza che le forze dell’ordine sudafricane gli impedissero di farlo. Un precedente?
In realtà no, perché nel 2017 i giudici della Corte penale internazionale hanno stabilito che il Sudafrica aveva commesso un errore nella decisione di non arrestare al Bashir, dopo che due tribunali sudafricani erano giunti alla stessa conclusione. Dissero però anche che avrebbero dovuto essere i giudici sudafricani stessi a denunciare il proprio paese presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Non avendo scelto questa linea di azione, significava che il Sudafrica non doveva affrontare alcuna sanzione per aver ostacolato il tribunale a cui si era iscritto. Ma significa anche che in Sudafrica ci sono giudici indipendenti capaci di contrapporsi al potere, e che adesso sanno come dovrebbero comportarsi.
Il tutto suona per Putin discretamente inquietante, e probabilmente ha colto di sorpresa l’attuale presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Ufficialmente, il governo di Pretoria si mantiene cauto. “Come governo siamo consapevoli del nostro obbligo legale”, ha subito detto il portavoce Vincent Magwenya. “Prendiamo atto del rapporto sul mandato di arresto emesso dalla Cpi”. Ha però aggiunto: “da qui al vertice rimarremo in contatto con le varie parti interessate”. E infatti la Tass ha ora riferito che sul punto ci sono stati contatti tra il governo russo e il ministro degli Esteri e della Cooperazione del Sudafrica Naledi Pandor, da cui è emersa l’intenzione di tenere consultazioni congiunte alla vigilia del vertice Brics. “Studieremo le disposizioni della nostra legislazione, probabilmente terremo una discussione nel Consiglio dei ministri, così come con i nostri colleghi in Russia al fine di determinare come procedere”, ha detto Pandor. L’addetto stampa del presidente della Federazione russa, Dmitri Peskov, il 22 marzo ha peraltro dichiarato che il Cremlino “non ha ancora preso decisioni” sul viaggio del presidente in Sudafrica.
Il governo di Ramaphosa non solo non ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, ma ha appena ospitato manovre navali congiunte tra Russia, Cina e Sudafrica. Ma è erede di un movimento antiapartheid che invocò il diritto internazionale a tutto spiano al tempo del “governo razzista”, e di fatto non può permettersi troppo di prendere le distanze da un tipo di tribunale la cui prima proposta era venuta nel 1973 proprio per giudicare l’apartheid. Va detto che in realtà dopo il caso Bashir al Sudafrica l’idea di lasciare la Corte era venuta. Il pretesto era l’accusa alla Cpi di “accanimento” contro leader africani: Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Uganda, Sudan, Kenya, Libia, Costa d’Avorio, Mali, Burundi. L’intenzione di recedere dallo Stato di Roma nel 2016 era stata manifestata da Burundi, Gambia e Sudafrica, ma solo il Burundi nell’ottobre 2017 vi ha dato seguito. Insomma, il Sudafrica si mostra più incerto di Orbán, secondo il cui capo di gabinetto Gergely Gulyás “l’Ungheria non arresterebbe Vladimir Putin se mettesse piede sul suo territorio”. Sebbene Budapest abbia aderito alla Corte penale internazionale, ha spiegato, il trattato “non è stato ancora promulgato” poiché “contrario alla Costituzione”. Il mandato di arresto, ha aggiunto Gulyàs, è “infelice” perché ostacola ulteriormente la fine della guerra. “L’Ungheria ha ratificato il trattato nel 2001 e ha l’obbligo di cooperare con la Corte nel quadro dello Statuto di Roma”, gli ha risposto un portavoce della Cpi.