l'opinione
Sarà un fighetta, ma Macron se ne frega della piazza e non vuole piegarsi all'immobilismo
La ghigliottina dell’accusa di disprezzare il popolo non ha mai smesso di funzionare, e ora si rivolta contro il presidente francese. Che però ha deciso di assumersi tutta la responsabilità di una riforma impopolare ma necessaria
In Francia la parola d’ordine, mot d’ordre, del momento è mépris, disprezzo. Il sentimento in tutta la sua portata di arroganza e superiorità sociale è attribuito al presidente, ribattezzato le Mépresident, non più presidente dei ricchi. La usa Marine Le Pen, questa formula che la distacca dal suo stesso tentativo di condurre un’opposizione istituzionale alla riforma delle pensioni, scuola Meloni. La usa Philippe Martinez, capo uscente della Cgt vecchia scuola massimalista la cui delfina è insidiata da Olivier Mateu, un formidabile e sprezzante supercafone che fa la voce grossissima in una sua lingua corrotta e speciale, calvinianamente il Cafone rampante.
La usa Jean-Luc Mélenchon, capoccia tribunizio della sinistra massimalista, già notorio per aver detto a un agente di polizia “la démocratie c’est moi”, “c’est moi la République”. La usano le facce invero paciose, graziose studentesse e arcigni lavoratori del braccio come ferrovieri portuali operatori ecologici, che si scatenano nelle strade e nelle piazze a nome del paese da basso e dei ceti medi spossessati da due anni di lavoro legale in più, con le dovute eccezioni per lavori usuranti e lunghe carriere, stabiliti da una legge approvata con il marchingegno annulla-Parlamento della Costituzione della V Repubblica (una clava brandita già cento volte).
Vero che Macron in televisione ha esibito un bel paio di gemelli, due fedi due, una per ciascuna delle sue mani affusolate, un completo bleu cobalto impeccabile, e il solito bel riportino, vero che l’ambiente dell’intervista era elegante e asettico, come la coppia di giornalisti che gli faceva domandine au nom du peuple, ma fino a un certo punto, vero che il presidente parla il francese di Racine e assomiglia a una metà appena della nazione e ha preso i voti veri, i suoi voti, da un quarto della medesima (il resto fu il rigetto di Mme Le Pen). Ma la cosa più vera ancora è che, dopo aver comprensibilmente detto che non scioglie l’Assemblea nazionale, che non fa un referendum, che non cambia per ora il primo ministro, Élisabeth Borne, ha aggiunto che assume senza patemi d’animo su di sé, tutta intera, l’impopolarità di una riforma necessaria. Il che sarebbe solo prova di coraggio e di responsabilità. Ma ha concluso affermando che non è il sistema pensionistico insostenibile la vera questione, la vera questione è che con il welfare generoso che si sa, ingentilito da una quantità di sussidi dovuti alla pandemia da Covid (e prima dalle concessioni ai gilet gialli, ndr), gli equilibri sono saltati e il rapporto con il lavoro e il reddito non è più così centrale per, e anche questo lo aggiungiamo noi, un popolo combattivo ma assai bene assistito.
Disprezzo, disprezzo, disprezzo. La collera sale. Non ascolta la piazza, la chiama folla, se ne impipa dei sondaggi che danno i francesi all’opposizione per l’83 per cento, ohibò, sottolinea la presenza di fazioni e faziosi, annuncia precettazioni a raffica. E’ chiaro il peso della storia e più ancora della retorica storica su cui si fonda la République della eguaglianza, della libertà e della fraternità, nata per opposizione giacobina all’Antico Regime aristocratico in nome dei valori popolari e borghesi d’antan. La ghigliottina dell’accusa di disprezzare il popolo in un certo senso non ha mai smesso di funzionare. E ci si mette anche un Carlo III d’Inghilterra, atteso per una visita di stato, la prima all’estero, e per un gala nella reggia di Versailles contestato a pieni polmoni dalla deputata Rousseau, Sandrine Rousseau, nomen omen, per conto della volontà generale.
Chi ama i francesi, quorum ego, ha il dovere di ricordare loro che Macron è un riformista liberale, di una specie unica o quasi in quel paese, che è riuscito a prendere il potere mediante fantasia e fortuna e cerca di esercitarlo nelle condizioni date, non un conservatore alla Boris Johnson. Il formidabile ex premier britannico potrebbe scrivere un manuale sul disprezzo, lui sì che sta chiudendo la sua carriera dopo aver recitato a memoria l’Iliade in tv, naturalmente nel greco antico imparato nel collegio di Eton, e dopo aver preso per il culo l’opinione puritaneggiante con i suoi party a Downing Street, fiumi di alcol e promiscuità durante il lockdown con le sue regole che prevedevano eccezioni per chi se le poteva permettere trattandosi di riunioni di lavoro. Chiamasi contempt, questo disprezzo intriso di senso della tradizione e dell’arcaico potere dei nobili e dei dotti, e si usa molto per il disprezzo della corte, quando si è in stato di accusa e si fa finta di niente, magari mentendo.
Chirac ritirò la riforma per le proteste di piazza nonostante il parere contrario del suo primo ministro, e finì nell’immobilismo più totale. Per un gollista era una strana forma di adulazione della nazione, il più straordinario dei metodi dissimulativi del disprezzo. Macron è un fighetta, forse, ma di tutt’altra pasta.