Tragici parallelismi
Bambini all'inferno. Il dramma dei più innocenti, da Hitler a Putin
Sulle spalle del presidente russo grava un mandato d'arresto internazionale con l'accusa di deportazione. Dittatori e autocrati cominciano sempre da chi non è in grado di difendersi: fu così anche per l'eugenetica nazista
Cominciano sempre da loro, dai bambini, dittatori e autocrati. Putin è stato appena raggiunto da un mandato d’arresto della corte penale internazionale dell’Aja per deportazione illegale di bambini dell’Ucraina alla Russia. Dici deportazione e il pensiero ti corre a precedenti inauditi, il cui ricordo è di continuo rinfocolato da ciò che non cessa di accadere in tante contrade del mondo, dove imperversano totalitarismi più o meno nascosti e tollerati. Così torni a vederla. Ha un cappottino rosso che spicca in un ambiente plumbeo prima ancora che grigio, plumbeo il cielo, i palazzi, il selciato delle strade, le persone che camminano sospinte verso una destinazione infausta, incolonnate in una fila di cui non si vede la fine, le teste basse, gli sguardi nascosti e impauriti. La bambina col cappottino rosso costeggia la fila senza farne parte, cammina al passo della fila, le mani pigiate nelle tasche del cappotto, un’aria tra sbarazzina e noncurante, ma poi devia, entra in un portone, senza che nessuno degli aguzzini che controllano la fila se ne accorga, sembra invisibile proprio grazie al cappottino rosso che la isola nel mare di grigio tutt’intorno, sempre da sola sale le scale, entra in una stanza, si nasconde sotto un letto. La sequenza di Schindler’s List si chiude sul volto della bambina che si appresta ad aspettare, calma viene da dire, consapevole di un destino. Si salva, siamo portati a sperare. E invece la ritroveremo alla fine del film, cadavere tra mucchi di cadaveri. Fa parte della storia, anche se ci illudevamo che se ne distaccasse, che seguisse una traiettoria speciale, estroversa e salvifica. Non è così, è una bambina ebrea, una delle tante, dei tanti bambini, nelle atroci vicende della distruzione del ghetto di Cracovia con l’uccisione immediata o la deportazione – eccola la parola, come tornata dal passato nella sentenza dell’Aja – nei campi di sterminio degli ebrei che vi erano stati stipati a forza dai nazisti. Il film di Spielberg è pieno zeppo di quei bambini, che fanno di tutto per scamparla, con un’inventiva, una determinazione, un coraggio che il grande regista americano di origini ebraiche mostra senza indulgere in patetismi, a volte strappando perfino un sorriso.
Non aveva problemi di sorta, il regime hitleriano, coi bambini ebrei, nemmeno utili allo sforzo bellico e dunque senza esitazioni eliminabili prima e più degli adulti e al pari dei vecchi e dei disabili. Ma un regime come il Terzo Reich, “sterminazionista” per vocazione, non si fermava all’omicidio dei bambini ebrei. In certi limiti fu tale anche verso i propri bambini. Anche se verso i propri bambini doveva procedere assai diversamente, frenare la sua vocazione, domarla imbrigliandola in un reticolato di categorie e definizioni costruito maglia dopo maglia grazie a una ossessione diagnostica come mai se ne erano e se ne sono più viste, capace di sfornare senza sosta diagnosi su diagnosi. Attraverso le quali incasellare centinaia di disturbi e sindromi e difetti e malformazioni e psicosi e alterazioni del comportamento e via seguitando. Il tutto per poter distribuire con una presunzione di scientificità la vita e la morte, la cura e il gas venefico. Ed è infatti qui, in questo reticolato a maglie strettissime che avrebbe dovuto trattenere tutti i bambini devianti per qualche aspetto, fisico o psicologico, morale o genetico, sociale o comportamentale che fosse, che si rivela in tutto il suo luciferino e psicotico splendore il senso di Hitler per i bambini.
Cominciare dall’eutanasia dei bambini, dei propri bambini, dei bambini tedeschi aveva un senso preciso, per Hitler e il nazismo. Impediva ab initio che il contagio delle malformazioni, dei difetti e delle impurità, annidate che fossero nella genetica come nell’ambiente familiare, si trasmettesse al corpo sociale, al volk, minacciandone la purezza, l’integrità, l’omogeneità – quell’omogeneità del corpo mistico del volk ch’era la grande aspirazione anche, se non soprattutto, biomedica del nazismo; non solo, ma liberava le famiglie da fardelli a volte insostenibili di cure e attenzioni, oltre a limitare una fonte ingente di spese da parte dello stato per mantenere i bambini “tarati” in strutture ospedaliere, pediatriche e psichiatriche, in cui, se pure di curativo c’era poco o niente, i lunghi soggiorni imponevano alte necessità di personale. Hitler sviluppò un senso preciso per l’eliminazione dei bambini. La vocazione sterminazionista del nazismo comincia dai bambini, non dagli adulti. Non scende dagli adulti ai bambini, seguendo una direzione, potremmo dire, di umana pietà; no, sale dai bambini agli adulti, si estende dai primi ai secondi infischiandosene della pietà. Anzi. Il programma di eutanasia dei bambini, che arriverà a dotarsi di unità apposite per l’eliminazione, di norma facenti parte di istituti pediatrici, se non proprio al loro interno, comincia già dai 3 mesi dei neonati, si estende poi a 3 e a 5 anni, e via via fino ai 14 anni e anche più, prima di venire soppresso sul finire dell’agosto del 1941 dopo avere eliminato oltre 200 mila persone tra cui decine di migliaia di bambini.
Il controllo da parte dello stato sulla morte degli individui la cui vita non è ritenuta degna di essere vissuta, che si esplicò attraverso l’uccisione medica, medicalizzata, di disabili, malformati, malati di mente e disadattati sociali anche di giovanissima età ma già etichettati come tali fa dell’eutanasia tedesca, e dei programmi attraverso i quali si manifestò in tutta la sua spietata ampiezza, una pratica del tutto diversa dall’eutanasia anglosassone, che pure trovava allora una forte legittimazione, dove si riconosce all’individuo e alle famiglie, non allo stato, il diritto alla decisione, compreso quello stesso di rivolgersi ai medici per consulti e consigli. Ma proprio l’uccisione medicalizzata da parte dello stato di quanti non sono ritenuti adatti a vivere mentre da un lato mostra la visione biomedica del regime hitleriano dall’altro aiuta a meglio definire quella che fu la politica eugenetica del nazismo, forse la sola, autentica, programmata e tenacemente perseguita, politica eugenetica nella storia delle moderne società.
Tutto comincia a metà del ’39 con la creazione di una struttura e con un ordine segreto. Il “Comitato del Reich per il Rilevamento scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi” è la struttura o organizzazione. L’ordine segreto è del 18 agosto 1939, viene dal ministero dell’Interno e recita in oggetto: “Dovere di riferire su neonati con malformazioni ecc.”. In esso si specifica che “per la chiarificazione di questioni scientifiche nel campo delle malformazioni congenite e del ritardo mentale si richiede una registrazione il più possibile tempestiva di tutti i bambini con meno di tre anni di età nei quali si sospetti la presenza di una delle seguenti malattie ereditarie gravi: idiozia e mongolismo; microcefalia; idrocefalia; malformazioni di ogni sorta, specialmente di arti, testa, colonna vertebrale; e paralisi, comprese condizioni spastiche”. L’ossessione diagnostica nazista è in piena maturazione, anche se le categorie sono ancora all’ingrosso; ma, del resto, la soppressione degli indesiderabili fu tutt’altro che ispirata a rigorosi criteri scientifici fondati sulla medicina. Anche se al nazismo piaceva far apparire che perfino il semplice rilevamento dei nati con malformazioni era strettamente scientifico e volto esclusivamente a “chiarire questioni scientifiche” in realtà non fece che classificare le persone, bambini e adulti, secondo una molteplicità di categorie (la razza, la religione, le preferenze sessuali, le opinioni politiche, l’ambiente sociale e quello familiare, l’eredità genetica, i difetti fisici e biologici e altro ancora) a fini di individuazione, persecuzione, eliminazione di tutti coloro che per un motivo o per l’altro rientravano – mano a mano che il nazismo occupava la società intera con il carisma di Hitler inscindibilmente intrecciato al terrore esercitato dalle SS – nella sempre più sterminata, onnicomprensiva categoria degli indesiderati.
Il nazismo cercò tuttavia sempre di nascondere la sua politica eliminazionista dei bambini, ferocemente eugenetica, dietro una parvenza di rispettabile se non proprio apprezzabile scientificità, di ricerca delle cause delle malattie e delle cure e degli interventi più efficaci per contrastarle. Così, nel mentre li selezionava ed eliminava anche coi metodi più crudeli, come quello di lasciarli morire letteralmente di fame per non sprecare risorse utili per la guerra, il senso di Hitler per i bambini si spinse fino a stimolare il clima intellettuale e professionale più adatto, con le cliniche e gli ospedali pediatrici, e le cattedre e le carriere universitarie associate alla medicina pediatrica in ogni sua sfaccettatura, per una fioritura diagnostica che interessò in modo particolarissimo la mente dei bambini. Non era forse in base alla mente, ovvero ai disturbi mentali, che si decideva con sempre maggiore frequenza chi di loro sarebbe stato eliminato e chi avrebbe proseguito nel suo cammino di vita con la concreta possibilità di diventare un buon nazista? Ed ecco allora i medici nazisti spingersi nella ricognizione della mente e dei disturbi mentali dell’infanzia fino a partorire almeno trenta diagnosi tra psichiatriche e neurologiche, alcune della quali hanno fatto letteralmente scuola e sono in grande spolvero a tutt’oggi.
Il nome che a proposito di mente balza alla mente è quello di Hans Asperger, certamente una figura di medico e psichiatra tra le più controverse dei tempi del nazismo e tuttavia mai iscritto al Partito nazista. Forse è proprio per questo, per non essere mai stato ufficialmente nazista, che Robert Jay Lifton non lo cita neppure una sola volta nel suo monumentale e ormai classico “I medici nazisti” del 1986 – dal 1988 continuamente ristampato in Italia. Edith Sheffer, sua biografa, nell’assai più recente, e convincente, “I bambini di Asperger” (2018) ne fornisce invece un’immagine tutta diversa. Cosicché mentre Asperger si spinse fino a dichiarare, nel dopoguerra, non soltanto di non aver mai aderito al Partito nazista ma di essere stato convintamente antinazista, oppositore del regime, Sheffer scrive: “I documenti d’archivio, tuttavia, suggeriscono una storia diversa. Dalle carte appare evidente che Asperger partecipò alle eliminazioni di bambini a Vienna con ruoli diversi. Era uno stretto collaboratore di personaggi di primo piano nel programma di eutanasia e, occupando varie posizioni importanti nello stato nazista, fece trasferire decine di bambini alla Clinica pediatrica dello Spiegelgrund, dove venivano uccisi”.
In effetti è piuttosto difficile credere che un oppositore del nazismo potesse fare carriera nella Germania hitleriana, e Asperger la fece. Resta il fatto che Asperger uscì dalla guerra con una reputazione intatta, se non perfino più alta di quando c’era entrato. Asperger è in certo senso l’inventore tanto della pedagogia clinica, specialità che non ha retto al tempo, come, cosa per la quale il suo nome resta negli annali della psichiatria, della psicopatia autistica. La sua biografa si interroga a questo proposito, senza riuscire a rispondersi, su come sia stato possibile che l’idea di autismo di Asperger, “nata dagli ideali nazisti di conformità e spirito sociale”, abbia “incontrato il favore della società individualista della fine del Ventesimo secolo”. Asperger cambia l’idea e i criteri di valutazione dell’autismo fino a comprendere nella sua psicopatia autistica dai bambini gravemente disabili a quelli con spiccate doti matematiche e bizzarri comportamenti sociali ma capaci di frequentare scuole normali. Allargando la definizione di autismo come disturbo consistente fondamentalmente in “una restrizione delle relazioni con il mondo circostante” Asperger include, questo è sicuro, nell’autismo, ma al tempo stesso lo stempera. Ma proprio questo “spettro” dell’autismo, che viene a ricavarsi dai suoi studi e dalla sua esperienza – fino all’“autismo ad alto funzionamento” che caratterizza i più intelligenti tra i bambini autistici, i piccoli geni che abbiamo visto in tanti film – definisce, e definendo aiuta la vocazione eliminazionista del nazismo a individuare le punte ritenute intollerabili “della negatività della comunicazione sociale e dell’interazione sociale” in bambini che sarebbero finiti sacrificati sull’altare della pretesa scientificità medico-psichiatrica del nazismo.
Certo, niente a che vedere con medici nazisti alla Heinrich Gross – e ce ne furono molti, la maggioranza – che chiuse la sua carriera di medico pediatra eliminazionista con una collezione di oltre 400 cervelli di bambini messi a morte nei programmi eutanasici che gli servirà, dopo la guerra, per scrivere decine di articoli, guadagnargli la Medaglia per le scienze e le arti, renderlo famosissimo, sfuggire anche alla più lieve condanna nei processi istruiti contro di lui, morire novantenne. Ma anche se non soprattutto in medici come Heinrich Gross – per non dire di Mengele, ma lui ad Auschwitz sperimentava raggiungendo vette inarrivabili di crudeltà sadica sui bambini ebrei e in modo particolarissimo sui gemelli di quella per lui intollerabile genia – si rivela il senso di Hitler e del nazismo per i bambini: eliminazionista senz’altro, sterminazionista quando le circostanze lo richiedevano, come nella distruzione del ghetto di Cracovia, ma sempre accompagnato e giustificato dalla medicina, sempre intriso di sbandierata scientificità, e volto a uno scopo rispettabile, se non addirittura nobile per l’ideologia nazista: l’eugenetica per la purezza intangibile del volk, per la sua religiosamente perseguita omogeneità.