il viaggio
La presidente taiwanese vola in America e Pechino minaccia
Tsai Ing-wen “si ferma”a New York prima della sua visita di stato in America latina. Ma il ricatto della Cina ormai si vede
Al suo arrivo a New York, ieri, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen è stata accolta da una piccola folla festosa e molto controllata. Nessuno sa nulla dei dettagli del suo itinerario americano, perché la sicurezza di Tsai, soprattutto in questo periodo, è pari quasi a quella di Zelensky. Eppure a pochi metri dall’ingresso del Lotte New York Palace, l’hotel della nota catena coreana a Manhattan, ieri c’era pure un gruppo di manifestanti pro-Repubblica popolare cinese, mobilitato da diverse associazioni locali di immigrati cinesi in America. Succede spesso, che le associazioni di expat cinesi, coordinate magari direttamente dai rappresentanti diplomatici, si organizzino in manifestazioni con un obiettivo: mostrare opposizione, fare rumore. Ieri Tsai Ming-yen, direttore del National Security Bureau di Taipei, cioè l’agenzia di spionaggio di Taiwan, al Parlamento ha detto che Pechino paga i partecipanti per unirsi alle proteste circa 200 dollari al giorno, e il pericolo che qualche estremista possa infiltrarsi c’è sempre, per questo Taipei ha coordinato la sicurezza della presidente, durante il suo passaggio statunitense, con la polizia locale.
Tsai, accompagnata dal ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu, è stata accolta nella cabina dell’aereo da Laura Rosenberger, da poche settimane presidente dell’American Institute di Taiwan, considerata l’ambasciata americana de facto a Taipei, e dalla rappresentante diplomatica taiwanese in America, Hsiao Bi-khim. Hsiao è famosa per definirsi una “cat warrior”, una gatta combattente, in contrapposizione ai “wolf warrior” cinesi, i diplomatici aggressivi che promuovono la propaganda di Pechino, ed è diventata negli ultimi mesi una delle ambasciatrici più influenti in America – pur non essendo formalmente un’ambasciatrice.
Tsai ha trascorso due notti a New York, ieri ha pronunciato un blindatissimo discorso al think tank conservatore Hudson Institute, e oggi partirà per le visite di stato in Guatemala e Belize. Nel viaggio di ritorno, si fermerà in California, dove dovrebbe parlare alla Reagan Presidential Library. Ufficialmente le visite della presidente taiwanese Tsai in America sono una specie di scalo tecnico, e non una visita. Perché qualsiasi formalità con il capo del governo di un paese che solo 13 paesi al mondo riconoscono viene accolta dalla Cina come una provocazione. Ieri Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, ha detto che “la Cina si oppone fermamente a qualsiasi forma di interazione ufficiale tra gli Stati Uniti e la regione di Taiwan” e che un “transito” in America è comunque una provocazione, e manda un messaggio “sbagliato agli indipendentisti di Taiwan”. L’isola, che non è mai stata sotto il dominio del Partito comunista cinese, la scorsa settimana ha perso anche il riconoscimento dell’Honduras, che ha deciso di aprire le relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese.
“Riteniamo improbabile che i comunisti cinesi intraprendano azioni imponenti simili a quando Pelosi ha visitato Taiwan lo scorso agosto”, ha detto sempre il capo delle spie Tsai Ming-yen. Perché Pechino ha minacciato ritorsioni bellicose quando è iniziata a circolare l’ipotesi che durante lo stop in California, Tsai possa incontrare il nuovo Speaker del Congresso, Kevin McCarthy. Quest’ultimo, repubblicano tra i principali sostenitori della linea durissima contro la Cina, inizialmente aveva promesso una visita a Taipei ma poi, secondo quanto circolato in ambienti diplomatici, sarebbe stato proprio il governo taiwanese a suggerire un incontro meno rumoroso in territorio quasi-neutro. Ma le esercitazioni aggressive dell’agosto scorso forse non ci saranno, perché al ricatto della Cina non cedono più in molti.