il foglio del weekend
Nonostante attentati e proteste, Israele cresce in popolazione e non è mai stato più in salute
Ogni anno lo stato ebraico aggiunge 140 mila nuovi cittadini, il due per cento della popolazione totale. L’aliyah, l’immigrazione ebraica, è da record. È inoltre ai vertici della libertà economica mondiale e tra i primi per “unicorni” e brevetti. L’innovazione è il motore del paese
Lo Stato islamico aveva annunciato che “nel 2022 avranno fine i quarant’anni di pace di Israele”. “Entro il 2022, Israele sarà distrutto”, declamava Hassan Azghadi del Consiglio supremo iraniano per la rivoluzione, il braccio destro di Ali Khamenei. Il ministro dell’Interno di Hamas, Fathi Hamad, aveva detto che i palestinesi avrebbero liberato tutta la Palestina “entro il 2022”. Siamo nel 2023 e Israele non è mai stato più in salute. Questo fazzoletto di terra poco più grande della Lombardia è l’unico stato la cui esistenza è messa apertamente in discussione, al sud ha Hamas, a nord Hezbollah e nel mezzo i palestinesi, sempre più impazienti di accoltellare e sparare ai sionisti. A sinistra l’unico confine tranquillo: il Mediterraneo, dove in tanti dal 1948 vorrebbero far rotolare tutti gli ebrei. Eppure, Israele, all’indomani di una nuova ondata terroristica e proteste mai viste nella sua storia, appare come beato.
Parlando con il giornale Maariv, uno degli ultimi capi del Mossad, Tamir Pardo, ha detto che “Israele non ha più nemici esistenziali”. Tsahal, per dirla con il generale Amos Yadlin, è l’esercito più potente in un arco che va “da Marrakesh al Bangladesh”. La società israeliana è soddisfatta, con percentuali quasi bulgare, anche quando riempie le strade per protestare contro la riforma della giustizia. Un sondaggio del Pew Center ha rivelato che il 59 per cento degli israeliani è contento del proprio paese, contro, ad esempio, il 33 per cento degli americani (per non parlare dei depressi europei).
Se si confrontano i tassi di fertilità e di suicidi di Israele con quelli di tutti gli altri paesi industrializzati, lo stato ebraico sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Il tasso di fertilità ebraica di Israele è superiore a quello di tutti i paesi musulmani tranne l’Iraq e i paesi subsahariani. Il numero di nascite di ebrei israeliani nel 2022 (137.566) è stato superiore del 71 per cento rispetto al 1995 (80.400). Ogni anno Israele aggiunge 140 mila nuovi cittadini, il due per cento della popolazione totale. L’aliyah, l’immigrazione ebraica nel paese, sta vivendo numeri record. Un tempo isolato e assediato nella regione, oggi Israele ha rapporti diplomatici anche con Emirati arabi, Bahrain e Marocco, tutti ex membri del “fronte del rifiuto”, e tiene relazioni non ufficiali ma sempre più solide anche con l’Arabia Saudita, che potrebbe essere la prossima a entrare negli “accordi di Abramo”. Senza dimenticare l’accordo sul confine marittimo raggiunto tra Israele e Libano, due paesi che non si riconoscono. E nel 2023 potrebbe arrivare la firma definitiva sull’accordo con il Sudan.
Il paese ha abbandonato lo slogan “land for peace” che ha arrecato tanti danni alla deterrenza, dagli attentati suicidi post-Oslo (1.500 morti israeliani) alla presa di Gaza da parte di Hamas dopo il ritiro dei coloni e la cacciata dell’Autorità palestinese. Con l’Autorità palestinese della Cisgiordania è stata trovata una sorta di “pace fredda”: Israele ne ha bisogno per non tornare a dover gestire un milione e mezzo di arabi, come avveniva prima del 1995, e i palestinesi hanno bisogno di Israele per essere protetti da Hamas e dalla Jihad islamica, o finirebbero come a Gaza, dove un golpe islamico li trascinò dalle finestre e per le strade non appena Israele si ritirò. Gaza continua a essere una spina nel fianco con il lancio ciclico di missili (le guerre del 2009, 2012, 2014 e così via), ma fra lo scudo Iron Dome e la resilienza israeliana (nessun kibbutz o moshav al confine ha mai chiesto di fare le valigie), Hamas non è in grado di costituire una minaccia esistenziale. I due storici capi dell’organizzazione – Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh – si godono la vita nelle dune di Doha, in Qatar, mentre il leader a Gaza, Yahya Sinwar, deve nascondersi sottoterra. L’Iran è alle prese con una ribellione interna senza precedenti, una spaventosa crisi demografica, civile e sociale. L’allora primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, il 26 gennaio 1993 annunciò alla Knesset: “L’Iran è un pericolo strategico per lo stato d’Israele”. Israele ha lavorato perché gli ayatollah non arrivassero mai alla “bomba di Allah”, come il Pakistan. Hezbollah ha un arsenale di 120 mila missili, ma appare in crisi fra l’autodistruzione economica e sociale del Libano e il fiato corto dei suoi capi a Teheran. In futuro Israele si vedrà forse costretto a tornare a Bint Jbeil, il villaggio teatro di una delle più dure battaglie fra Israele e Hezbollah nel 2006. Superato il pericolo di una rivoluzione islamica dei Fratelli musulmani, l’Egitto è oggi un solido alleato d’Israele. La Giordania di tanto in tanto fa la voce grossa sullo status quo e il Monte del Tempio a Gerusalemme, ma è una specie di protettorato occidentale e Israele lo ha armato. La Siria, un paese che provò a distruggere Israele nel 1967 e nel 1973, non esiste più come stato funzionante.
Israele ha sempre avuto la sfortuna di essere uno dei pochi paesi del medio oriente senza pozzi di petrolio e gas. Ora la produzione di gas naturale di Israele è aumentata del 22 per cento nella prima metà dell’anno, poiché il governo prevede di aumentare le esportazioni che raggiungeranno l’Europa, dove è in corso la peggiore crisi energetica degli ultimi decenni. La produzione è salita a 10,85 miliardi di metri cubi su base annua fino a giugno, con le esportazioni verso i vicini di Israele in aumento del 35 per cento a 4,59 miliardi di metri cubi. Gran parte di questo aumento è dovuto alla produzione dai bacini di Tamar e Leviathan nel Mediterraneo orientale. Quando venne scoperto nel 2009 il giacimento che si trova a 130 chilometri a ovest di Haifa, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu disse: “Questo è il giorno dell’indipendenza energetica d’Israele. Un vero evento storico: Israele ha conseguito la libertà energetica”. Il paese, che è per più della metà deserto, da sempre colpito dalla siccità e afflitto da carenze idriche, è diventato una nazione che ora produce il venti per cento di acqua in più del necessario. Organizzazioni israeliane come Mashav e Arava diffondono l’esperienza, le tecnologie e le strategie politiche di Israele con le comunità vicine e lontane che soffrono di crisi idriche endemiche. Basti pensare che dal 1964 al 2013, la popolazione israeliana è quadruplicata, ma il consumo di acqua è rimasto invariato. Oggi Israele è leader mondiale nel trattamento dei problemi idrici ed esportatore di sofisticati sistemi per la gestione delle risorse idriche. E’ riuscito a trattare e riciclare l’86 per cento delle sue acque reflue per operazioni agricole, leader mondiale nel recupero. Seconda a Israele è la Spagna, che ha riciclato solo il 17 per cento delle sue acque reflue.
La democrazia israeliana è sana (è appena arrivato anche un giudice islamico alla Corte suprema), le piazze sono piene (alle manifestazioni contro Netanyahu si alzavano slogan contro il “Sesto Reich” e bandiere dell’Olp), la stampa critica e gli scrittori i soliti eresiarchi.
Il movimento di boicottaggio e disinvestimento causa ancora qualche danno alla reputazione israeliana, specie nei campus americani, in qualche consiglio comunale irlandese o norvegese e nelle redazioni dei giornali occidentali, ma è sostanzialmente poca cosa. Ci sono alcuni casi di azione aziendale e governativa, come la decisione della fondazione che gestisce il gelato Ben & Jerry di non vendere più i suoi prodotti negli insediamenti della Cisgiordania. Alcuni anni fa c’è stata una polemica su SodaStream, che aveva una fabbrica nei territori palestinesi. E l’Unione europea richiede che i prodotti realizzati negli insediamenti israeliani siano etichettati come prodotti della Cisgiordania, non di Israele. Ma a parte questo, la normalizzazione di Israele nel mondo è completa. Dei duecento paesi del mondo, oltre 160 hanno piene relazioni con Israele, inclusi sei membri della Lega araba. Delle due dozzine che non li hanno, la metà sono paesi arabi, ma anche tra quelli ci sono zone grigie. Nel 2021, Qatar e Israele hanno firmato un accordo che consente ai commercianti di diamanti israeliani di operare a Doha e i diplomatici del Qatar sono i principali interlocutori con gli israeliani a Gaza. L’Arabia Saudita è una parte virtuale degli Accordi di Abramo. Se così non fosse, sarebbe impossibile volare con la compagnia aerea israeliana El Al da Dubai a Tel Aviv in tre ore e un rappresentante delle forze di difesa israeliane non sarebbe inviato nella capitale del Bahrain, Manama. E nel 2018, l’allora primo ministro israeliano Netanyahu non avrebbe visitato l’Oman in un viaggio poi non così segreto. Quei paesi che non hanno fatto i conti con Israele includono Iran, Indonesia, Bangladesh, Malesia, Pakistan, Corea del Nord, Cuba e Venezuela. Israele sopravvivrà anche senza di loro.
Certo, Israele subisce infinite critiche alle Nazioni Unite, ma da quando l’Assemblea generale, il Consiglio per i Diritti umani o l’Unesco hanno un impatto sulla condotta degli affari globali? Mai.
Il 33 per cento di tutti gli “unicorni” della sicurezza informatica – aziende private del valore di oltre un miliardo di dollari – sono israeliani, più di 70, e il 40 per cento degli investimenti globali nella sicurezza informatica è nel paese. Il suo reddito pro capite è ora superiore a quello della Gran Bretagna. Israele è il leader mondiale nel settore. Gli israeliani sopravviveranno anche senza poter vedere Roger Waters esibirsi a Tel Aviv.
Israele si colloca al ventiseiesimo posto nell’Indice di libertà economica, appena sotto Giappone, Corea del Sud e Austria, e appena sopra Repubblica Ceca, Norvegia e Germania. In confronto, i suoi vicini si classificano molto più in basso: Giordania 69, Egitto 130, Libano 154; e Siria, non classificata. Il paese si è classificato al quarto posto come economia con le migliori prestazioni Ocse nel 2022. Le esportazioni cresceranno al massimo record di 160 miliardi quest’anno. Si prevede che l’economia israeliana crescerà a un tasso del 6,3 per cento, dopo la sua espansione ancora più rapida dell’8,1 per cento nel 2021, l’anno della ripresa dalla pandemia, il momento in cui Israele ha avuto la sua più forte crescita in vent’anni. A causa del declino del debito, è l’unico paese occidentale il cui rating è sempre aumentato dal 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime. Quando fu sottoscritto il trattato di Maastricht, i debiti di Israele erano il cento per cento del pil. Un rapporto di Deloitte&Touche ha dimostrato che in sei campi chiave – telecomunicazioni, microchip, software, biofarmaceutica, dispositivi medici ed energia pulita – Israele è secondo solo agli Stati Uniti per innovazione.
Ma la compiacenza è un lusso che il paese non può permettersi. Quest’anno sono i cinquant’anni dalla guerra dello Yom Kippur. Durante il giorno ebraico più sacro, mentre le famiglie israeliane si trovano al tempio o in casa, digiune e in preghiera, lo stato ebraico venne attaccato da nord e da sud e a malapena riuscì a svincolarsi dalla tenaglia. Un trauma profondo. Per ore, nel caos più totale, le riserve non vennero mobilitate, il fronte islamico si spostava in avanti senza ostacoli, Abba Eban evocava una “nuova Pearl Harbor”. Tremila i morti israeliani. La guerra e l’espiazione. Nessuno prese sul serio i movimenti di truppe sul canale e sul Golan. Dopo la vittoria per disperazione, la gente apparve più matura, come dopo una malattia. Da allora, la possibilità di sparire, di fare le valigie, è sempre in un angolo della coscienza di ogni israeliano. Intanto si vive come se si fosse in un paese normale. E come scrisse Saul Bellow, “nella loro preoccupazione per la decadenza della civiltà e nel loro orgoglio, gli israeliani hanno qualcosa da insegnare al mondo”.
Nei giorni scorsi la notizia che Israele è salito al quarto posto della lista dei paesi più felici del mondo. Lo stato ebraico ha insegnato al mondo che si vive benissimo anche ai piedi di un vulcano.