attacco mediatico
La disinformazione cinese contro Taiwan e il libro di cui tutti parlano a Taipei
Pechino continua a fare pressione sull'opinione pubblica attraverso fake news diffuse dai media locali non ostili alla Cina. L'ultimo episodio riguarda un meme, pubblicato simultaneamente da diverse pagine Facebook. La guerra contro la democrazia taiwanese è già cominciata
Taipei. All’inizio di gennaio i cittadini taiwanesi si sono svegliati con due buone notizie. La prima era che l’economia dell’isola nel 2022 era andata meglio del previsto, generando un surplus di introito fiscale di 450 milioni di dollari di Taiwan, circa 13 milioni e mezzo di euro. La seconda era che il governo a guida Dpp – il Partito democratico progressista, centrosinistra – aveva deciso di destinarne una parte in forma di un piccolo cashback. Seimila dollari di Taiwan per ciascun cittadino sono soltanto duecento euro, ma sono meglio di niente. Il rimborsino, annunciato dall’ex premier Su Tseng-chang, era anche frutto delle pressioni dell’opposizione nazionalista del Kuomintang (Kmt) che chiedeva che si “restituisse il denaro alla gente”, e probabilmente anche in vista delle presidenziali del 2024 in ambienti governativi si è pensato non facesse male strizzare un occhio ai cittadini meno abbienti.
Una questione banale, derubricabile alle prebende pre elettorali, se non fosse che la settimana scorsa, con l’avvicinarsi della data prefissata per l’accredito della somma sui conti correnti dei taiwanesi, è successo qualcosa di un po’ strano.
Diverse pagine Facebook di media di Taiwan hanno pubblicato simultaneamente una serie di post molto critici verso l’iniziativa, tutti pressoché identici. Tutti dicevano la stessa cosa nello stesso modo, con parole quasi uguali, in caratteri cubitali e in formato meme, perfino con il medesimo stile grafico. Il testo: “Come li spendiamo i seimila dollari del governo? I proprietari di automobili piangono, perché ad aprile avranno da pagare il bollo! Che è di settemiladuecento. Non ci resterà un dollaro in tasca, anzi dovremo pure aggiungerne di altri”. I post sono diventati subito virali.
“Che senso ha scrivere una cosa del genere?”, si è chiesto Gray Tan, editor e fondatore di un’agenzia letteraria, quando sull’iPhone l’algoritmo gli ha mostrato il meme. Gray, come milioni di altri taiwanesi, la sua macchina la usa in giro per Taipei, o per le gite fuori porta al mare o sulle montagne dello Yangminshan. “Il bollo non è una novità, l’avremmo dovuto pagare comunque, no? Cioè, cosa c’entra il cashback?”.
La storia è più interessante se si guarda chi erano gli estensori dei meme. Una minigalassia di media taiwanesi, giornali e tv, usi ai titoli strillati e alle notizie click-baiting su gattini salvati, incidenti di automobile, previsioni meteo e feste del papà, che vanno da UDN, acronimo di United Daily News, terzo giornale taiwanese per diffusione, molto vicino al Kuomintang, a ET Today, sito di notizie collegato al gruppo televisivo taiwanese EBC, con oltre cinque milioni di follower su Facebook, a pagine più oscure ma molto seguite dal pubblico, come una certa Life Taiwan. Su su fino a CTV, canale di China Television, un tempo diretta emanazione del Kmt (fino agli anni Novanta il logo era addirittura scritto con la grafia di Sun Yat-sen), ora controllata dal gruppone Want Want China, megaholding taiwanese con vari addentellati.
Qual è la caratteristica comune di tutti questi media, alcuni dei quali dotati di nomi un tempo relativamente prestigiosi, altri riconducibili semplicemente alla categoria dei giornali spazzatura? Intanto che sono tutti siti e pagine che si possono eufemisticamente definire non ostili a Pechino. A volte apertamente pro-unificazione, tutti sono critici non solo della presidente Tsai Ing-wen e delle posizioni variabilmente “indipendentiste” taiwanesi, ma anche dell’Amministrazione americana e di Joe Biden. Più che attraverso editoriali e commenti strutturati, utilizzano meme e post sui social. Ma fosse solo questo. Tsai Eng-meng, proprietario del gruppo Want Want, nel 2017 l’uomo più ricco di Taiwan, è un ben noto sostenitore dell’unificazione tra Taiwan e la Cina (nel 2012 dichiarò che “l’unificazione avverrà di sicuro, la questione è solo quando”). Il suo China Times è stato accusato di ricevere gli ordini di servizio direttamente dall’ufficio del governo cinese a Taiwan, cioè da quella che si può considerare l’ambasciata di Pechino a Taipei: lo ha scritto chiaro, nel 2019, il Financial Times.
Se aggiungiamo il dato acclarato che la stessa Want Want ha percepito in questi anni (come molte altre compagnie taiwanesi, una su tutte la holding Foxconn) milioni di dollari dal governo cinese in sussidi, pratica legale secondo la legge di Taiwan ma che nel 2019 aveva suscitato scalpore e scandalo nell’opinione pubblica per la portata dei finanziamenti, si comprende la preoccupazione di molti a Taipei, dove manca meno di un anno a delle presidenziali unanimemente considerate decisive.
La asimmetria è talmente ovvia che rischia quasi di passare inosservata: da una parte c’è uno stato autoritario, dall’altra una porosa, multiforme, aggredibile società democratica. Separate da uno stretto braccio di mare. “Approvare al più presto una legge per arginare le fake news”, chiedeva ieri il Taipei Times, principale quotidiano in inglese dell’isola. “Il Partito comunista cinese minaccia Taiwan non solo con i caccia in sorvolo, ma con la disinformazione, attraverso un continuo bombardamento di fake news”. Il governo ha già vietato l’uso di app come TikTok sui dispositivi dei dipendenti pubblici, tuttavia, “date le ovvie circostanze di sicurezza nazionale, questo non basta. Bisogna regolamentare Facebook e Sina Weibo. Taiwan è oggetto di un attacco di disinformazione straniera molto più pericoloso che in Europa e negli Stati Uniti”. E se il legislatore è chiamato a darsi una sbrigata (a Singapore è della settimana scorsa la notizia di leggi draconiane contro la diffusione di notizie non verificate), ricostruire la filiera degli Yuan pechinesi ai media di Taiwan non è affatto semplice, esattamente come con le bufale russe sui social (e sugli organi di stampa) italiani.
“E’ sempre complicatissimo trovare prove certe di finanziamenti diretti dalla Cina ai nostri giornali”, dice Lee Yian, giornalista di Taipei, “anche quando è piuttosto evidente a tutti che dietro c’è la longa manus di Pechino”. Qualche mese fa quella leonessa antitotalitaria di Anne Applebaum di ritorno da Kyiv è volata a Taipei per raccontare sull’Atlantic una storia clamorosa riguardo la “cognitive warfare”, espressione che i taiwanesi usano di continuo, parente stretta della cara vecchia disinformacjia sovietica ora riverniciata da Vladimir Putin, e che traduciamo in: disinformazione (cinese, ovviamente). Nel 2018 un tifone si abbatte sull’aeroporto giapponese di Osaka. L’aeroporto viene evacuato. Tra i viaggiatori ci sono dei cittadini taiwanesi.
Di lì a poco, un oscuro sito di notizie diffonde la storia che i taiwanesi sarebbero stati tratti in salvo dagli autobus messi a disposizione dalla Repubblica popolare cinese, perché la diplomazia del loro paese non sarebbe stata in grado di aiutarli. Alcuni avrebbero perfino finto di essere cinesi pur di essere aiutati. Scandalo, blogger che riprendono la storia, tam tam sui social, vergogna collettiva, e infine ci scappa perfino un suicidio abbastanza archetipico in oriente: quello di un incolpevole diplomatico taiwanese incapace di sopportare la pressione del giudizio collettivo. Peccato che tutta la storia fosse falsa. E che a metterla in giro fosse un sito emanazione dei comunisti cinesi. Il messaggio che si vuole comunicare è chiaro: la democrazia taiwanese è debole, l’autocrazia cinese è forte. In condizioni di emergenza, i taiwanesi preferiscono essere cinesi. “Storie così ne sentiamo in continuazione. Dopo la visita di Nancy Pelosi l’estate scorsa sono diventate un caso di studio, ma qui è routine”, dice Brian Hioe, giornalista, fondatore di New Bloom Magazine. Uno dei libri che vengono letti e discussi a Taipei (dove le librerie sono ancora tante, vivacissime, sontuose, frequentate dai giovani) è “Making Truth” di Liu Chih Hsin. Il sottotitolo recita: “Viaggio nell’industria globale della disinformazione”. In attesa che trovi una traduzione italiana, del libro si può dire che si limita a connettere i puntini, dall’Asia all’Europa. La guerra della Cina contro la democrazia taiwanese è già cominciata.