Come si ferma il bullismo cinese

Giulia Pompili

I ricatti economici di Pechino sono il motivo della sua forza. I mezzi politici per contrastarli

Otto anni dopo l’inizio della scalata del colosso statale cinese ChemChina nella società italiana di pneumatici Pirelli, i soci di Pechino iniziano a essere un problema anche per il governo di Giorgia Meloni. L’altro ieri Bloomberg ha rivelato che l’esecutivo italiano sta studiando una opzione per ridurre l’influenza su Pirelli della Sinochem – la società statale cinese che nel maggio del 2021, dopo la fusione con ChemChina, si è trasformata nella gigantesca Sinochem Holdings. Le mosse del governo Meloni su Pirelli dimostrano che il dilemma sul business con la Cina di Xi Jinping è sempre più complicato: c’è un problema che riguarda l’acquisizione cinese di know-how, ma soprattutto l’influenza diretta di Pechino in aziende strategiche straniere. Che cosa succederebbe se il governo italiano decidesse, entro la fine di quest’anno, di uscire dalla Via della Seta cinese? La conseguenza più prevedibile – quella che a quanto pare ha finora frenato Meloni dal prendere una decisione – è la rappresaglia economica da parte della Cina. 

 


Come la Russia di Putin usava il rifornimento energetico verso l’Europa, così la Cina di Xi Jinping  negli ultimi dieci anni ha lavorato per rendersi indispensabile in diversi settori delle economie industrializzate, soprattutto dentro all’Ue. La coercizione economica è stata per la prima volta affrontata ieri durante la riunione dei ministri del Commercio del G7: nel comunicato finale non è mai menzionata direttamente, ma è la Cina a usare le restrizioni sull’import-export, l’introduzione di dazi e addirittura la cancellazione delle dogane come una clava per piegare gli altri paesi ai suoi interessi. “Svilupperemo nuovi strumenti,  regole e norme internazionali più forti” per affrontare congiuntamente la coercizione economica, si legge nel comunicato. Gli strumenti, appunto: la scorsa settimana il Consiglio europeo e il Parlamento hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sugli strumenti anti coercizione (Aci). Secondo il documento, la Commissione Ue potrà adottare ritorsioni se un paese non membro usa le restrizioni commerciali come arma politica, per esempio aumentando i dazi o limitando l’export. All’alba del suo viaggio a Pechino con Macron, anche la presidente Ursula von der Leyen ha parlato della coercizione economica cinese.  

 


La sfida che pone l’autoritarismo di Pechino e l’imposizione delle sue regole al mondo colpisce direttamente i governi democratici. Come dimostra il dilemma Meloni con la Via della Seta, per un esecutivo in carica è difficile affrontare la coercizione economica di Pechino da solo, perché gli effetti delle ritorsioni arrivano direttamente sui cittadini, cioè sugli elettori, e su quelle aziende che fanno la differenza, anche elettorale. I danni delle rappresaglie economiche cinesi le hanno subite la Corea del sud, l’Australia, il Giappone – quando nel 2010 la rivendicazione della Cina sulle isole Senkaku si trasformò in uno stop all’esportazione di terre rare – e in Europa perfino la Lituania, quando l’anno scorso ha aperto un ufficio di rappresentanza di Taiwan ed è stata cancellata dalle dogane cinesi. All’epoca, diversi leader di paesi europei minimizzavano parlando di una disputa bilaterale, che avrebbe dovuto riguardare soltanto Vilnius e Pechino, poi qualcosa è cambiato quando la Cina ha cominciato a boicottare anche le produzioni europee che avevano componentistica lituana: solo a quel punto il caso è diventato un caso europeo. 


 Il potere d’influenza cinese si tiene in piedi, anche in occidente e nei paesi industrializzati, soprattutto grazie a un ricatto. Come durante la riunione dei ministri del Commercio del G7 di ieri, ci sono sempre più piattaforme sovranazionali che cercano di creare un argine politico all’uso della coercizione economica cinese. Oltre alla soluzione dell’ex segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, di istituire un “articolo 5 economico” per sostenere il peso dei boicottaggi cinesi, c’è chi avanza proposte più concrete, per esempio un meccanismo automatico di compensazione tra paesi partner sul modello degli ananas taiwanesi: due anni fa, quando Pechino smise di importarle, per solidarietà Giappone, America, Canada e altri paesi aumentarono le loro importazioni di ananas da Taiwan, rendendo nulla la coercizione cinese. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.