"Tunisia First": Saied dice "no ai diktat" del Fmi e mette nei guai l'Italia
Secondo il presidente tunisino la crisi è indotta da "forze straniere". La retorica post coloniale di un dittatore che non vuole fare la stessa fine di Ben Ali
Forse non è un caso che giovedì Kais Saied abbia annunciato la sua intenzione di non “piegarsi ai diktat” del Fmi con un discorso pronunciato davanti al mausoleo di Monastir dedicato al padre dell’indipendenza tunisina, Habib Bourghiba. Nel 2017 Saied disse che “chi pronuncia discorsi lì non lo fa per amore di Bourghiba, ma per cercare legittimità fra i resti dei morti”. Oggi, fra quei “resti”, il novello dittatore Saied ha detto che, piuttosto che obbedire alle richieste dettate da “forze straniere che causano solamente ulteriore impoverimento”, “l’alternativa è contare su noi stessi”. Potrebbe essere la pietra tombale delle trattative con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per ottenere i 2 miliardi di dollari che – nei piani dell’occidente e dell’Italia in particolare – dovrebbero risollevare il paese da una crisi economica, alimentare e idrica di enorme portata e i cui effetti si stanno ripercuotendo sulle coste dell’Europa, con un flusso di migranti pari a circa 14 mila arrivi dall’inizio dell’anno.
Gerasimos Tsourapas, professore di Relazioni internazionali all’Università di Glasgow, l’ha definita al New York Times “diplomazia dell’immigrazione”, ovvero quando un paese fa leva sui migranti che passano sul suo territorio per ottenere benefici dagli altri paesi e risollevare la sua economia. E’ un ricatto: se non mi dai quello che chiedo, lascio che i migranti arrivino a casa tua. Nulla di inedito – viene da pensare – se si guarda alle relazioni fra Europa e Nord Africa.
Sebbene la Tunisia sia prossima alla bancarotta, l’idea che un nuovo prestito del Fmi possa realmente risolverne la crisi strutturale è dibattuta. Certo, nell’immediato permetterebbe di dare respiro alle casse del paese, immettendo liquidità e inducendo altri attori internazionali a dare più fiducia a Saied – dall’Ue al Golfo, per esempio, hanno già promesso denaro a Tunisi, ma condizionato al prestito del Fmi. Il presidente-dittatore vuole sfruttare la frustrazione dei tunisini, che dopo avere sperimentato la transizione democratica delle primavere arabe, sono finiti in una nuova deriva autoritaria e in una grave crisi economica. Lo scorso gennaio, questa disillusione si è tradotta nel boicottaggio delle urne elettorali, con un’affluenza di appena l’11 per cento degli aventi diritto.
Nella retorica di Saied, la crisi economica sarebbe indotta dalla comunità internazionale che, se davvero volesse aiutare il paese, ne cancellerebbe il debito. Il riferimento all’ingerenza delle potenze straniere che “cercano di impoverire” la Tunisia ha una sua origine precisa e rimanda agli scarsi risultati ottenuti con i prestiti elargiti da Fmi e Banca mondiale fra gli anni 80 e il 2020. Soldi e riforme che permisero ingresso della Tunisia nell’economia di mercato e l’introduzione di liberalizzazioni, accompagnate però da una forte svalutazione del dinaro, elevata inflazione, blocco dei salari, alto indebitamento privato, disoccupazione ed estrema dipendenza dalle importazioni dall’estero, soprattutto nel settore delle materie prime per l’alimentazione.
La retorica nazionalista di Saied, secondo cui il prestito del Fmi non sarebbe la soluzione ma la concausa di molti dei mali del paese, trova spazio anche in diversi ambienti democratici e liberali. Secondo il ricercatore e giornalista Fadil Aliriza, c’è un nesso diretto fra la dipendenza dai prestiti di Fmi e Banca mondiale e le crisi economiche che ciclicamente hanno afflitto il paese. In un rapporto pubblicato nel 2020 dalla fondazione tedesca Friedrich Ebert, Aliriza ripercorreva la storia tunisina analizzando l’efficacia dei prestiti della comunità internazionale. Il risultato è un perpetuo giorno della marmotta originato dall’effetto negativo delle politiche di austerity richieste dai creditori internazionali.
Saied fa ricorso a richiami nazionalisti e post colonialisti per preservare la sua posizione di leader autoritario. Per esempio, ricordando che le proteste del pane del 1983, quando al potere c’era ancora Bourghiba, furono innescate da un brusco aumento dei prezzi del pane incentivato dalle pressioni del Fmi e di alcuni suoi ex membri diventati nel frattempo ministri del governo di allora. L’ascesa politica di Ben Ali è riconducibile proprio a quel periodo, quando da segretario di stato per la sicurezza nazionale si intestò la durissima repressione delle proteste che portò a un centinaio di morti. Uno scenario simile a quello che si è replicato quasi trent’anni dopo, quando la primavera araba destituì a sua volta Ben Ali. Anche allora, la prima richiesta delle piazze – oltre a “libertà” e “dignità” – era quella del “pane”, ovvero di ottenere un vero sollievo per l’economia tunisina.