conti russi
Russia in rosso. A marzo sono dimezzate le entrate da petrolio e gas
La spesa per la guerra cresce (+48%), i ricavi da oil & gas crollano (-45%) e il deficit è alto: 2,4 trilioni di rubli in tre mesi, pari all'82% dell'obiettivo per l'intero anno. Per far quadrare il bilancio Putin è costretto ad aumentare le tasse
Circa un mese fa, dopo i preoccupanti dati fiscali dei primi due mesi dell’anno, il ministero delle Finanze russo rassicurava sulla tenuta del bilancio: “Siamo perfettamente in grado di raggiungere il livello di deficit fissato dalla legge sul bilancio federale. Pertanto, non abbiamo intenzione di cambiarlo verso l’alto o verso il basso”, dichiarava la viceministro Irina Okladnikova. Le parole cozzavano con i numeri, che mostravano un aumento annualizzato delle uscite del 51,5% e un crollo delle entrate da oil & gas del 46,5% rispetto al 2022: un rosso pari all’88% del deficit annuale fissato nel budget. Ma il governo russo, pur ammettendo la contrazione dell’export di idrocarburi, spiegava che il disavanzo era dovuto all’anticipo nei primi mesi dell’anno di grosse spese prima spalmate nell’anno, e che quindi il deficit sarebbe rientrato.
Il quadro a marzo è migliorato, ma di poco. Secondo i dati pubblicati dal ministero delle Finanze russo il deficit trimestrale è sceso leggermente, a 2,4 trilioni di rubli, che rappresentano comunque l’82% dell’obiettivo per l’intero anno (2,9 trilioni, pari al 2% del pil). I dati mostrano comunque nel primo trimestre del 2023 una contrazione delle entrate del 21% rispetto allo stesso periodo del 2022. Il crollo del gettito è legato essenzialmente alla contrazione delle entrate dal petrolio e dal gas, che generalmente rappresentano quasi la metà del gettito federale, e che nel primo trimestre del 2023 si sono ridotte del 45% su base annua. La causa principale è il calo della quotazione del greggio degli Urali, soprattutto per effetto delle sanzioni occidentali, e per la forte contrazione delle esportazioni di gas che Putin si è inflitto autonomamente come controsanzione nei confronti dell’Europa (i ricavi dall’export di gas sono collassate ai livelli di marzo 2020, quando c’era il lockdown).
Le entrate non derivanti dal settore oil & gas, invece, hanno registrato un calo più contenuto (-4%), soprattutto per effetto della politica fiscale espansiva dovuta al finanziamento della guerra e al sostegno della domanda interna. Per quanto riguarda le uscite, le stime del governo russo indicano un aumento della spesa del 34% su base annua. Sebbene il dato sia in calo rispetto al +50% dei primi due mesi, a causa del fatto che molti appalti e contratti sarebbero stati pagati in anticipo rispetto allo scorso anno, il dato indica una tendenza all’espansione della spesa. La ragione è semplice e intuitiva: la guerra costa.
Secondo i dati raccolti dal sito russo indipendente e specializzato The Bell, alla fine di marzo Mosca ha speso per la difesa, la sicurezza nazionale e le forze dell’ordine (guerra in Ucraina e repressione in Russia) 928 miliardi di rubli, che sono il 48% in più rispetto al 2022 (628 miliardi di rubli) e il 61% in più rispetto al 2021 (576 miliardi). Il divario è costante e crescente, anche perché si tratta di spese incomprimibili come l’acquisto di armi, gli stipendi delle truppe e l’addestramento dei mobilitati. A queste uscite si aggiungono quelle per il controllo e la soppressione del dissenso interno, che vanno sotto il capitolo della sicurezza nazionale, ed entro cui ricadono anche quelle per il mantenimento delle forze di sicurezza nei territori ucraini “annessi” (dove la distinzione tra sicurezza e di difesa e di polizia sfuma completamente).
In generale, nel 2023 le spese della Russia messe a bilancio per la difesa supereranno quelle per l’istruzione, l’assistenza sanitaria e l’economia nazionale messe insieme. Non potendo ridurre le uscite per finanziare la guerra e le spese sociali per mantenere il consenso della popolazione in tempo di sanzioni, il Cremlino sta lavorando per incrementare le entrate fiscali. Soprattutto quelle da gas e petrolio, che stanno risentendo dell’impatto del price cap occidentale che ha abbattuto le quotazioni del greggio degli Urali. A partire da aprile, Mosca ha deciso di cambiare i parametri su cui applica le imposte petrolifere: non più la quotazione dell’Ural, ma il prezzo ben più elevato del Brent a cui viene applicato uno sconto fissato dal governo che per il primo mese è di 34 dollari (più o meno l’attuale divario tra Ural e Brent), ma che poi viene progressivamente ridotto di 3 dollari al mese fino all’obiettivo di 25 dollari a luglio. In questo modo, il Cremlino vuol costringere le società petrolifere russe a ridurre gli sconti elevati applicati a India e Cina e a impedire comportamenti elusivi dovuti alla manipolazione delle quotazioni dell’Ural.
È evidente che le sanzioni occidentali sull’export, molto differenti da quelle sull’import del 2022, stiano funzionando. Con un deficit ampio, per continuare a pagare la guerra Putin è costretto ad aumentare le tasse, ma questo ha un costo politico sul fronte interno. Il ministro delle Finanza Anton Siluanov si ritiene sicuro che, nonostante “la leggera diminuzione delle entrate da petrolio e gas”, saranno rispettati “tutti gli obblighi” di bilancio. In ogni caso, mercoledì il suo ministero ha comunicato che per il mese di aprile si attende 113 miliardi di rubli in meno di entrare da petrolio e gas rispetto alle previsioni del budget.