un paese in crisi
Tre nomi per la presidenza in Libano, ma nessuno è quello giusto
Mancano un presidente e un vero governo. Non è il momento per lo scontro, ci dice l’analista politico libanese Saad Kiwan
La risposta di Israele ai trentaquattro razzi lanciati dal sud del Libano giovedì pomeriggio è arrivata poco dopo la mezzanotte ora locale di venerdì, quando le forze di difesa israeliane hanno fatto sapere di aver attaccato infrastrutture legate a Hamas nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale. Queste operazioni sono state le più intense dal 2006, quando la rivalità tra le fazioni sciite di Hezbollah e Israele è sconfinata in un più ampio conflitto, risolto con una tregua e con il monitoraggio della cessazione delle ostilità tra le parti affidata a una potenziata missione Unifil delle Nazioni Unite lungo la cosiddetta Blue Line – la linea di demarcazione che separa dal 2000 i due stati ancora formalmente in guerra.
“Questo non è il momento di andare a uno scontro aperto per nessuno. Ufficialmente nessuna fazione ha rivendicato il lancio dei razzi né sono stati colpiti obiettivi militari, è come se indirettamente Libano e Israele si fossero detti: non andiamo oltre. Del resto, a nessuno giova alterare un equilibrio regionale già fortemente precario”, ha spiegato al Foglio l’analista politico libanese Saad Kiwan. Se il governo di Benjamin Netanyahu ha dovuto fare un passo indietro dopo le proteste contro la riforma della giustizia e le tensioni interne tra israeliani e palestinesi sono molto intense, nel vicino Libano la situazione politica presenta un quadro inedito e preoccupante: è la prima volta nella storia del paese che alla mancanza di un presidente democraticamente eletto si sovrappone l’assenza di un esecutivo nel pieno esercizio delle sue funzioni.
Il governo in carica guidato da Najib Mikati è lo stesso che ha portato il Libano alle elezioni parlamentari di maggio che hanno tolto la maggioranza al blocco sciita guidato da Hezbollah e che ora, dimissionario, svolge solo atti di ordinaria amministrazione: per dettato costituzionale, seppure una nuova legge dovesse essere necessaria – come le doverose riforme per ottenere i finanziamenti dal Fondo monetario internazionale e tentare di portare il paese fuori da una crisi nera – servirebbe l’avallo del presidente della Repubblica per promulgarla.
Anche se le forze politiche dovessero trovare un accordo su un nuovo esecutivo, servirebbe il capo dello stato a nominarlo. Nella scala delle priorità, dunque, sciogliere il nodo della nomina del presidente ha la precedenza, ma il tempo non è dalla parte dei libanesi: l’ultima volta che si è dovuto eleggere un presidente – ossia Michel Aoun, il cui incarico è terminato alla fine dello scorso ottobre – il Parlamento aveva impiegato oltre due anni.
Questa volta le cose non vanno meglio: le sessioni settimanali presiedute dallo speaker del Parlamento Nabih Berri non hanno mai raggiunto la maggioranza necessaria con la maggior parte dei legislatori che invece votavano scheda bianca, scrivevano i nomi delle vittime delle esplosioni, inventavano finti candidati, lasciavano le sedute in anticipo per compromettere il quorum. Da qualche settimana Berri ha deciso di sospendere del tutto le sedute, dicendo: “Tanto è inutile provarci”. Secondo la Costituzione e per il principio degli equilibri politici e religiosi, in Libano il primo ministro deve essere sunnita, il presidente del Parlamento sciita e il presidente un cristiano maronita.
I nomi che nei mesi si sono susseguiti più spesso sono stati quello di Gebran Bassil, genero dell’ex presidente Aoun, che a lungo ha proposto se stesso come successore diretto. È improbabile che possa venire scelto sia perché impopolare in patria sia perché soggetto a sanzioni internazionali da parte degli Stati Uniti. Un altro profilo è quello di Suleiman Frangieh, uomo di Hezbollah, divisivo e che si vanta apertamente di essere amico del presidente dittatore siriano Bashar el Assad.
Su questo nome c’è una forte opposizione interna, ma soprattutto dei sauditi che hanno fatto sapere in un recente incontro diplomatico a Baghdad che se ci sarà un presidente in mano a Hezbollah nessun investimento da parte del regno sarà indirizzato al Libano. Un altro nome – quello che forse potrebbe mettere d’accordo tutti gli schieramenti – è quello del generale Joseph Aoun, attuale capo delle Forze armate libanesi: perché venga eletto, però, occorre un emendamento costituzionale dal momento che un alto funzionario dello stato per diventare presidente deve aver lasciato il suo precedente incarico due anni prima della nuova elezione.
In Libano però la crisi vera continua a essere quella dell’economia, della politica, della giustizia, delle banche, dell’elettricità, delle famiglie che hanno perso i risparmi, dei profughi siriani: la classe politica in trent’anni ha lasciato marcire tutto.
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