Vladimir Putin e Xi Jinping nel 2017 prima dell’apertura del Forum sulla Via della Seta a Pechino (Olycom) 

La guerra delle èlite

Giorgio Arfaras

America, Russia, Cina e medio oriente. Così il confronto tra potenze oggi è diverso da quello di due secoli fa

Pubblichiamo un estratto da “Le regole del caos. Riflessioni sul disordine economico mondiale” di Giorgio Arfaras, pubblicato da ‎ Paesi Edizioni (128 pp., 14 euro)


  

Il confronto fra le potenze può seguire la tripartizione dell’Antico Regime fra aristocrazia, clero, terzo, e quarto stato. Per aristocrazia qui si intende quella della ricchezza. L’aristocrazia storica che si occupava della guerra è stata, infatti, sostituita dallo stato. Per clero qui si intende chi si occupa professionalmente delle credenze e del consenso. Per terzo stato si intende chi si occupa di imprenditoria di medio calibro ed è un colletto blu qualificato. Per quarto stato si intendono gli esclusi dai tre ordini precedenti.

 
Negli Stati Uniti abbiamo un’aristocrazia molto potente e dinamica, come si evince dalle innovazioni a getto continuo. Un’aristocrazia che finanzia attraverso le rette dei figli le università, e attraverso i conferimenti diretti i centri di ricerca. L’aristocrazia finanzia così gli intellettuali, ossia il clero. L’aristocrazia statunitense ha anche un gran peso nel campo della politica, perché ne è il maggiore finanziatore. 

 
Il terzo stato è molto meno importante di quanto non fosse in passato per effetto dei mutamenti legati all’economia post industriale, quella della conoscenza, dove è premiato soprattutto chi ha formazione elevata. Il terzo stato statunitense è così attratto dal Populismo. Il quarto stato non vota in misura sufficiente per avere un qualche peso nelle decisioni politiche. 

 
In Russia non abbiamo un’aristocrazia potente e dinamica, sia perché gli oligarchi sono stati repressi dal Cremlino quando hanno tentato di influenzare la vita politica, sia perché, in una economia ricca di risorse naturali si hanno pochi incentivi a cercare la ricchezza attraverso le innovazioni. Per la stessa ragione, abbiamo un terzo stato con poche attività industriali. In Russia abbiamo soprattutto un’aristocrazia formata dai ceti che vivono delle attività dello stato: l’ordine pubblico, lo spionaggio, l’esercito, l’amministrazione. Gli esponenti di questa aristocrazia sono individualmente molto meno ricchi degli oligarchi, ma messi insieme, grazie alla numerosità, controllano una grande ricchezza. La ricchezza dell’aristocrazia russa è stipata per una parte cospicua all’estero. Non solo, all’estero vanno i figli a studiare e le mogli a soggiornare. Mancando un vero interesse di questa aristocrazia per lo sviluppo interno, e quindi per le credenze e il consenso, il clero, ossia le università e i centri di ricerca, non sono finanziati e quindi non sono a un livello comparabile con quello statunitense. Il quarto stato vive nelle zone povere e remote, e ultimamente è agli onori delle cronache perché è stato mandato a fare la guerra in Ucraina. 


In Cina, a differenza della Russia, abbiamo un’aristocrazia dell’alta tecnologia, ultimamente tarpata, come in Russia vent’anni fa, per impedirne l’influenza in campo politico. Abbiamo un terzo stato ricco di imprenditori, e, non essendo la Cina un paese post industriale, di tute blu. Il terzo stato non ha voce autonoma in politica. In Cina lo stato si è ritirato in parte dall’industria e del tutto dal settore immobiliare. Quindi lo stato pesa molto dove le cose sono importanti. Abbiamo così un partito unico che controlla lo stato, insieme alla burocrazia, un partito che può essere immaginato come un clero molto potente. Influenza le anime, che non votano, e controlla la ricchezza. Non solo controlla come proprietario una parte dell’industria, ma ha le cellule attive nel controllo sia nelle grandi imprese sia in quelle minori. Il quarto stato è composto da quelli che sono nelle zone povere lontane dalla costa del Pacifico. 


I paesi europei sono troppo diversi fra loro per trarne dei caratteri comuni seguendo la tripartizione dell’Antico Regime. Per questa ragione ci concentriamo solo sull’Italia, che non è propriamente una potenza, ma che, a intervalli, è stata uno dei protagonisti delle vicende storiche. L’aristocrazia dei proprietari ricchissimi non c’è, perché le maggiori imprese, quelle di pubblica utilità e le banche, sono a controllo statale. C’è la ricchezza di chi è azionista delle imprese medie e grandi di successo, ma quest’ultima non può essere dello stesso ammontare né può avere l’influenza di quella dei magnati statunitensi. Non si ha così un’influenza privata di peso sulle università, sulla ricerca, sul finanziamento della politica. Le imprese medie grandi sono il terzo stato insieme alle tute blu che vi lavorano, e sono soprattutto nel Nord. 


In Italia chi si occupa di credenze e consenso, quindi il clero, è il Partito Democratico. Un partito che ha vinto le elezioni nel 1996 e nel 2006, ma non le ha vinte nel 1994, 2001, 2008, 2013, 2018. Un partito che ha partecipato dopo il 2013 e dopo il 2018 ai governi di coalizione. La sua presenza continua si spiega con la funzione che svolge: l’adesione all’Europa dell’euro, alla Nato, alla globalizzazione. Lo svolgimento della funzione impedisce le avventure in campo finanziario e politico. Insomma, offrendo credenze e consenso, è il partito del “clero ricco”. 


Il quarto stato alberga nelle aree a minor sviluppo, quindi nel Meridione, e vota per un reddito aggiuntivo proveniente dallo stato. Quali politici guidano queste richieste? Solitamente gli intellettuali che vengono dal “clero povero”, quello delle università minori, o che sono stati sotto occupati per dei periodi lunghi. 

 

Nella competizione classica di potenza, le rivalità tra Stati si manifestavano in forme quasi esclusivamente militari

 

In passato, la competizione tra grandi potenze aveva creato una struttura turbolenta e multipolare della politica mondiale tale per cui le potenze maggiori si affrontavano come un gruppo di potenziali nemici, mescolando le alleanze. Il caso classico è l’Europa: fino al secolo scorso Francia, Gran Bretagna, gli imperi asburgico e poi austro-ungarico, la Prussia (più tardi la Germania) e la Russia, erano tutti quanti preoccupati, armati e allineati l’uno con o contro l’altro alternativamente. Nella competizione classica di potenza, le rivalità tra Stati si manifestavano in forme quasi esclusivamente militari. Anche le tensioni economiche, sociali e culturali davano forma alla lotta, ma i tradizionali scontri di potenza sono sempre stati definiti dalla guerra. 


Ognuno degli elementi del passato – un sistema multipolare, una debolezza dei vincoli basati sulle regole sul comportamento, e le forme di rivalità politico-militari – è presente ancora oggi. Eppure nessuno di questi descrive la politica mondiale attuale. Gli Stati Uniti sono, infatti, sotto ogni profilo una “ultra potenza” e non invece “una delle potenze”, come accadeva in passato fra quelle europee. La ragione per cui una guerra globale oggi è improbabile, non risiede nell’idea che il mondo si sia definitivamente rappacificato, ma si basa sui rapporti di forza fra la potenza di gran lunga maggiore e tutte le altre. Possiamo così ragionevolmente immaginare che lo scontro tra gli Stati Uniti e la Cina non sarà bellico, ma si giocherà su più piani economici, tra i quali quello energetico. 


Quanto alla Russia, grazie alle materie prime essa aveva maturato una notevole forza negoziale soprattutto verso l’Europa, ma la sua forza si dovrebbe capovolgere nei prossimi anni, riducendone significativamente la portata. In conseguenza della crisi russa, anche l’Unione europea nel breve termine avrà dei problemi, ma dovrebbe superarli nel lungo periodo, se riuscirà a diversificare le proprie fonti energetiche. Gli Stati Uniti, invece, manterranno una posizione di forza nel lungo termine, in quanto paese indipendente dal punto di vista energetico e ora anche esportatore di energia in sostituzione della Russia. 


Prima dell’aggressione all’Ucraina, Mosca aveva davanti qualche decennio di lucrose esportazioni di materie prime verso l’Europa da considerare nel suo portafogli. Ora, invece, le esportazioni russe verso l’Europa dovrebbero, se non annullarsi, ridursi in maniera molto significativa in capo a pochi anni. La Russia potrà certo trovare dei mercati alternativi, come quello indiano e cinese per il petrolio, ma i suoi gasdotti maggiori per ora si dirigono verso l’Europa e costruirne di nuovi verso altre rotte richiederà tempo e denaro; inoltre, le richieste di approvvigionamento dovranno arrivare a compensare quelle dell’energivora Europa, e non è detto che ciò accada in tempi ragionevoli. 


Quanto agli Stati Uniti, la loro strategia punta a isolare non solo la Russia, ma anche Iran e Venezuela, rafforzando la posizione dell’Arabia Saudita. La cui posizione è minacciata non tanto dalla politica internazionale odierna, ma da quella ambientale di domani. Con la preminenza dell’energia verde, infatti, il mondo dipenderebbe molto meno dal petrolio saudita. Le ragioni dello scontro fra gli Stati Uniti e l’Iran, in tal senso, non sono volte a proteggere Riad da Teheran, ma essenzialmente a impedire l’ascesa di una potenza egemone regionale. 


Gli Usa difendono i giacimenti di petrolio saudita non già perché ne siano dipendenti (da Riad arriva, infatti, solo il 10 per cento delle loro importazioni petrolifere), ma perché l’instabilità del maggior forziere d’oro nero al mondo produrrebbe scosse telluriche in tutto il pianeta. Ecco perché vale la pena garantire la sicurezza agli alleati sauditi e israeliani: la loro precarietà li ha resi dipendenti dall’ombrello statunitense. E questo giova alla supremazia americana, il cui perno è e resta nel governo delle rotte marittime. 

  

Mantenere il potere sui mari significa avere il controllo degli stretti da cui transita l’80 per cento delle merci 

   
Mantenere il potere sui mari – la celebre talassocrazia degli anglosassoni, ieri dei britannici oggi degli statunitensi – significa avere il controllo degli stretti da cui transita l’80 per cento delle merci scambiate nel mondo. Con l’apertura della Via della Seta cinese, questa quota forse si ridurrà un giorno. Ma, per adesso, gli stretti-chiave per mantenere l’egemonia marittima americana sono: Suez (Egitto), Bab al-Mandab (Yemen), e Hormuz (condiviso da Iran, Oman ed Emirati Arabi Uniti). 


Individuare questi tre luoghi di transito serve per chiarire la politica degli Stati Uniti nel vicino Oriente. In tal senso, gli Stati Uniti rivaleggerebbero con l’Iran anche se la Repubblica Islamica non esistesse: la grammatica imperiale impone, infatti, alla superpotenza di impedire l’ascesa di un egemone regionale che detti la propria agenda in un consistente spicchio di globo. 


La Via della Seta cinese – ossia, l’idea che si può aggirare il dominio marittimo statunitense passando attraverso le terre e gli stati che congiungono la Cina con l’Europa – ha una spiegazione di lungo periodo che è strategica, ossia volta a rendere libero il commercio cinese dalla pressione statunitense. 
Quella più immediatamente economica sostiene che in questo modo la Cina trova il modo di continuare a far funzionare il suo settore delle infrastrutture, che, in patria, sta frenando tempo.


Pubblichiamo in questa pagina un estratto da “Le regole del caos. Riflessioni sul disordine economico mondiale” di Giorgio Arfaras, pubblicato da ‎ Paesi Edizioni (128 pp., 14 euro)

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