(foto EPA)

dopo le intimidazioni cinesi

Il piano C di Taiwan, tra calma e tempesta: la guerra urbana

Francesco Chiamulera

Le analisi sulle munizioni, i piani d’invasione di Pechino per il 2027 e la resistenza di 14 giorni di Taipei

Mentre la Cina fa le prove generali dell’accerchiamento di Taiwan, sulle isole Matsu, territorio taiwanese, a quindici chilometri in linea d’aria dalla costa cinese, campeggia cubitale un vecchio proverbio: “Dormi sulla tua arma, e sii pronto per l’alba”. Intanto sulla Dunhua Road, una delle arterie ortogonali alberate che tagliano da nord a sud la capitale Taipei, un nuovo microfornaio giapponese ha appena aperto i battenti, accanto all’Ikea e a Uniqlo. Due isolati più in su, i giovani borghesi del distretto di Songshan riempiono il ristorante fusion taiwanese-americano Meowvelous, ritrovo hip del quartiere. Alcuni di loro arrivano in scooter direttamente dal Songshan Creative Park, l’atelier di designer e creativi che ha preso posto qualche anno fa in una ex fabbrica di tabacco messa su nel 1937 dai giapponesi nel centro città e ora riconvertita dall’amministrazione della capitale a grande hub dell’innovazione. Lo stile di vita taiwanese è tutto qui. La calma e la tempesta, il benessere e le armi, la vita democratica e la guerra di nervi. Contemporaneamente. Quei velivoli militari pitturati in camouflage parcheggiati nella pista accanto che il personale dell’aeroporto ti chiede gentilmente se per favore puoi non fotografare con lo smartphone mentre sali sul tuo aereo di linea

 

“Da un certo punto di vista è sempre stato così. Da un altro le cose stanno cambiando molto velocemente”, dice Chieh Chung, professore associato alla National Policy Foundation, think tank affiliato al partito nazionalista Kuomintang (Kmt). “Solo dieci anni fa l’obiettivo di Taiwan era cercare di impedire a Pechino di comprare navi e aerei. Ora è già inutile provarci. Siamo allo step successivo: prevenire un eventuale assalto anfibio. Ma potrebbe essere tardi anche per quello. Dunque il grosso dei nostri scenari strategici è già al piano C: la guerra urbana”. Siamo al settimo piano di un palazzone del centro e viene automatico portare lo sguardo alla finestra, guardare ai palazzi pieni di uffici e di negozi di lusso, immaginare che queste vie… “Le città taiwanesi sono tutte a un tiro di schioppo dalla costa, quindi questa è la premessa logica”, procede imperturbabile Chung, mentre parla da sotto una mascherina su cui è impressa una bandierina taiwanese e la scritta “Roc Forever”, acronimo di Repubblica di Cina. “Abbiamo già innalzato la leva militare, che era di quattro mesi e che sarà allungata a un anno di servizio obbligatorio dal 2024”. Allo stato attuale le forze di difesa di Taiwan possono contare su 210 mila soldati permanenti, tra professionisti e volontari, non contando ovviamente i riservisti: con l’innalzamento della leva dovrebbero portarsi a 260 mila entro il 2027. “E’ ugualmente chiaro che guerra urbana non significa non prepararsi ad altri scenari. Per esempio un attacco immediato da parte nostra, nel momento in cui i cinesi dovessero cominciare l’invasione, alle forze comuniste di stanza sulla costa sudorientale della Cina. Perché è là che si raggrupperanno. Quindi ci stiamo parallelamente occupando di acquistare missili dagli Stati Uniti, e di svilupparne di nostri”. 

 

Qui a Taiwan tutti i frenetici discorsi e le analisi di questi giorni hanno un punto di caduta comune: munizioni. Quali scegliere. Come ottenerle. Dove accumularle. Secondo Chung, un simpatico signore la cui compostezza fa il paio con l’allegra schiettezza antiburocratica dei ragionamenti, il budget dello stato per l’anno in corso è già tutto rivolto all’aumento delle munizioni, perché si sa che se e quando la guerra dovesse scoppiare sarebbe già troppo tardi. Il 2027 è la data che più insistentemente ha evocato l’intelligence americana per una possibile invasione di Taiwan (e prima che si alzi scetticamente il sopracciglio, si ricordi quanto le previsioni di Washington ci abbiano azzeccato nel 2022 con l’Ucraina, e cosa dicevano in proposito molti italiani). Perché il 2027? “Perché il ricambio della flotta aerea e navale statunitense, cominciato quest’anno, dovrebbe culminare nel 2027, che è l’anno in cui la loro capacità dovrebbe toccare il punto più basso. Il 2027 è anche l’anno del prossimo Congresso del Partito comunista cinese. Ma non credo comunque che, salvo incidenti clamorosi, l’invasione avverrà allora”, dice Chung. “Primo, perché qualsiasi scenario di guerra da parte di Pechino è nella forma del blitzkrieg, del colpo di mano; ma per averlo, l’esercito cinese ha calcolato che servirebbero almeno 70 mila soldati nella prima ondata, tuttavia al momento la loro capacità si ferma a 30 mila, ed è improbabile che riescano a colmare il gap in così poco tempo”. Seconda ragione, “la capacità di mobilitazione e di logistica cinese non è ancora abbastanza sviluppata per un’invasione su vasta scala, che richiederebbe almeno 400 mila soldati, e 30 milioni di tonnellate in rifornimenti di vario genere: le linee di rifornimento cinesi al momento non reggono una simile pressione”. Terza: ogni piano militare filtrato fin qui da Pechino mostra che l’Esercito popolare di liberazione ragiona su scadenze più allungate, come il 2030 e il 2035. “Infine, c’è Taiwan”, sorride Chung. “Non dimenticate che le presidenziali qui sono in calendario per l’anno prossimo. E anche se il candidato del Dpp, il Partito democratico progressista attualmente più assertivo verso la Cina, dovesse vincere, non mi aspetto che faccia nulla di deliberatamente provocatorio. Cioè la guerra non comincerà certo da Taipei. E questo perché l’opinione pubblica è notoriamente molto poco incline alla guerra, non vuole sentirne parlare. A Taiwan il presidente può servire due mandati consecutivi, e se vuole essere rieletto è meglio che si tenga lontano da ogni retorica bellicista”. Concorda su questo quadro alla Roosevelt (nel senso di FDR e delle presidenziali “pacifiste” del 1940) Wu Tzu-li, esperto di difesa appartenente al think tank rivale, l’Indsr, espressione del Partito democratico progressista attualmente al potere: “L’attuale generazione di Taiwan finora non ha messo in conto che un giorno si debba combattere per difendere la propria indipendenza, perché è cresciuta fin qui in una mentalità di pace. Ma se un’invasione arrivasse, tireremo fuori risorse che non necessariamente sono evidenti. I sondaggi mostrano anche che i taiwanesi sono molto affezionati al proprio stile di vita libero. Soprattutto gli anni del Covid sono stati abbastanza decisivi nel demolire gli ultimi dubbi, se ce n’erano, nel confronto tra la democrazia taiwanese e l’oppressione cinese. Abbiamo già alzato la quota del pil dedicato alla difesa dall’1,7 per cento del 2018 al 2,4 per cento del 2022: come scriveva Sun Tzu, non contare sulla riluttanza del tuo nemico ad attaccarti, conta sulla tua prontezza ad accoglierlo”. 

 

A questo punto gli scenari squadernati dagli esperti militari sono abbastanza da brividi. Chung, per esempio, crede più all’invasione vera e propria che al solo blocco navale e aereo, “non solo perché il blocco non è nei piani che conosciamo, ma soprattutto perché immobilizzare Taiwan senza invaderla richiederebbe un tempo che va da settimane a mesi, tempo prezioso per gli americani per intervenire. Mentre quello che la Cina vuole, se e quando decidesse di attaccare, è prendersi tutto e subito”. Per un’invasione vera e propria il ministero della Difesa taiwanese si prepara a uno scenario di resistenza di quattordici giorni. Perché proprio quattordici? Perché è il tempo massimo calcolato entro il quale i cinesi pensano di prendere l’isola con una prima sola ondata di attacco anfibio. “Se non riuscissero entro allora, dovrebbero ritirarsi e prepararne una seconda”. Ma se tutti concordano che l’inattesa resistenza ucraina ha già mostrato i limiti dei blitzkrieg sognati dai dittatori sulla pelle dei popoli, scoraggiando piani troppo ottimistici, tutti sono ugualmente concordi che i paralleli tra Kyiv e Taipei si fermano qui. Perché quella, l’Ucraina, è una vasta distesa di terra dalla quale i civili possono fuggire e disperdersi, come purtroppo hanno fatto negli ultimi tredici mesi.

 

Questa è un’isola. Dove andiamo, se ci attaccano? Ho sentito parlare fin troppo di strategia del porcospino, cioè di difese asimmetriche, fatte per proteggere questo o quel pezzo di territorio. Temo che sia roba vecchia, superata”, commenta Annabelle Chih, fotoreporter di Taipei che lavora per Reuters e Getty e che recentemente ha documentato le esercitazioni di autodifesa civile. “Pechino ha una nuova forza, ora. Javelin e Stinger potrebbero non bastare. Vorrei sentire parlare più spesso di risposta simmetrica”. Cioè di deterrenza strategica. Caccia e navi. Per i quali a Taipei, ancora una volta, si guarda agli Stati Uniti. Gli unici che possono fornire armamenti a sufficienza da provare a far desistere i cinesi. Ma non sarebbe varcare una linea rossa molto pericolosa? “Be’, non è detto che tali scorte si debbano accumulare a Taiwan”, dice Chieh Chung. “Pensiamo a un posto dove già gli Stati Uniti hanno molte basi militari. Ma che sia sufficientemente vicino a fare da deterrente. Mi viene in mente, per esempio, Okinawa, Giappone. Che è qui dietro”.

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