10 aprile 1998
La Brexit ha causato una paralisi politica a Belfast, che oggi non sa più nemmeno celebrare la pace
I disordini e le molotov del lunedì di Pasqua a Derry riempiono le conversazioni dei nordirlandesi. Lo stallo del governo, i cavilli su un confine impossibile e l’attesa di Biden
Belfast. Era il 10 aprile del 1998, quando il premier inglese Tony Blair e il Taoiseach irlandese Bertie Ahern si incontrarono per firmare gli accordi del Venerdì Santo. Con loro c’erano anche i mediatori John Hume e David Trimble, leader dei più grandi partiti politici cattolici e protestanti dell’Irlanda del nord, che proprio per il certosino lavoro per arrivare a quell’accordo furono premiati con il Nobel per la Pace di quell’anno. Al momento di quella firma il mondo si fermò per un attimo, perché in realtà pochi credevano davvero all’efficacia e alla possibilità di durare di quella pace.
All’epoca, quegli accordi avevano l’aspetto di una scommessa ardita che sfidava le leggi della fisica diplomatica, non soltanto perché ambivano a portare la pace in una regione del mondo che non ne aveva avuta mai, ma anche perché aspiravano a realizzare una cosa del tutto inedita: siglare un accordo di pace in cui nessuno fosse davvero sconfitto. Il testo prevedeva varie cose, ma partiva dal riconoscimento di un dato di fatto elementare e complesso, cioè che entrambe le posizioni che si erano combattute per decenni avevano pari dignità, indipendentemente dal fatto che una (quella protestante, almeno all’epoca) fosse numericamente prevalente sull’altra.
Oltre a questo (o forse proprio per questo) gli accordi stabilivano che l’Irlanda del nord avrebbe continuato a far parte del Regno Unito, come sancito nel 1921 ai tempi della nascita della Repubblica d’Irlanda, ma che avrebbe avuto un suo governo autonomo e “devoluto”, cui sarebbero spettati ampi poteri anche in termini di economia, sanità giustizia e polizia. Attenzione però: questo governo autonomo e devoluto non sarebbe stato formato, come tutti gli altri, solo da chi vinceva le elezioni. Al contrario avrebbe dovuto essere un governo unitario nel quale trovassero voce le posizioni filo repubblicane e quelle filo monarchiche, che avrebbero dovuto governare insieme dando voce ed espressione a tutte le parti.
Infine, gli accordi stabilivano altre due cose: la prima era che nessun confine, per nessuna ragione, sarebbe dovuto o potuto sorgere tra le due Irlande e che chiunque avesse libertà di movimento e di libera scelta di cittadinanza tra Eire e Regno Unito; la seconda era che, qualora ci fosse motivo di credere che la maggioranza della popolazione dell’Irlanda del nord desiderasse lasciare il Regno Unito, il governo locale avrebbe avuto il potere di convocare in ogni momento un referendum che dirimesse la questione.
Da quella firma sono passati 25 anni e tra Belfast e Dublino ci si alterna tra la voglia di festeggiare una pace durata un quarto di secolo, e la paranoia per le misure di sicurezza legate al viaggio di Joe Biden, arrivato qui a celebrare uno dei maggiori successi diplomatici americani (Bill Clinton, il cui arrivo è previsto settimana prossima a Belfast, fu grande e fondamentale mediatore di quella pace) e a lavorare di fino, sia per gli accordi commerciali con il Regno Unito, sia per convincere la Repubblica d’Irlanda a uscire dalla sua neutralità sulla faccenda ucraina. Eppure, nella Belfast grigia e superblindata che aspetta Joe Biden, e che in teoria dovrebbe festeggiare, di pace non parla nessuno. Al contrario, nei bar e nelle chiacchiere, a tenere banco sono i disordini e le molotov del lunedì di Pasqua a Derry, e di come la pace vacilli e si sia fatta fragile.
L’ipotesi reale che una guerra possa ricominciare è assai remota. Nessuno vuole davvero ricominciare a combattere, nessuno vuole chiudere di nuovo i cancelli dei “muri della pace”, nessuno vuole più avere paura di bombe e proiettili di gomma. Un recente sondaggio dice che soltanto il 27 per cento della popolazione (che da un paio di anni è in maggioranza cattolica) considera positivamente l’idea di lasciare il Regno Unito. Però in molti, specie tra gli unionisti (inclusi quelli della destra del Democratic Unionist Party, che per anni è stato il primo partito), pensano che questa pace non somigli a come se l’erano immaginata e che, in questi 25 anni, ha sì retto ma, con l’eccezione di una manciata di anni fortunati, non è mai veramente partita.
“Joe Biden è arrivato in Irlanda del nord per festeggiare un accordo che non funziona più – scrive in un articolo molto duro Politico – La condivisione del potere tra unionisti britannici e nazionalisti irlandesi, la visione centrale dell’Accordo del Venerdì Santo del 1998, sta fallendo”. Di toni simili (ma un po’ più allarmati) è il Guardian, che più che sulle pecche politiche dell’applicazione degli accordi si concentra sui pericoli reali di una recrudescenza della violenza e delle attività dei gruppi paramilitari clandestini: “Un quarto di secolo dopo la fine dei Troubles, i gruppi paramilitari repubblicani e lealisti reclutano ancora, marciano ancora, intimidiscono ancora e, a volte, uccidono ancora. Il mese scorso, l'MI5 ha ripristinato il livello di minaccia del terrorismo da sostanziale a grave, il che significa che un attacco è altamente probabile”.
Sul New York Times, la scrittrice e giornalista Clare Dwyer Hogg ha scritto: “Faccio parte di una generazione che da bambini pensava che la paura delle bombe e le pattuglie militari fossero normali. Per 25 anni c’è stata in gran parte un’assenza di guerra, e non l’abbiamo mai data per scontata. Ma penso che qui abbiamo l’errata impressione che quell'assenza sia pace. Se solo fosse pace, staremmo tutti bene. Ma non lo è. La pace in Irlanda del nord è una torre di fiammiferi, e di recente c’è stato uno spostamento del terreno sottostante”. A spostare il terreno e a far vacillare quella torre, fragile e infiammabile, è stato il fenomeno tellurico per eccellenza della politica inglese ed europea: la Brexit.
Il ruolo della Brexit nell’inquietudine (e anche nel palpabile senso di sconfitta che si avverte sia dal lato dei repubblicani sia degli unionisti più accesi) ha a che fare con la sconfitta del “remain” per il quale i nordirlandesi avevano votato compatti e con il peccato originale della Brexit: il fatto di essere una risposta binaria e molto semplice a problemi estremamente complessi, fatti di clausole, cavilli e certosine scritture diplomatiche. Nel caso specifico, gli accordi del Venerdì Santo prevedevano che non ci potesse né dovesse essere un confine visibile e terrestre tra le due Irlande: erano due paesi distinti sì, ma dovevano essere indistinguibili e nessun confine doveva separarli. Quando il Regno Unito è uscito dall’Ue, però, un confine è diventato necessario per separare il transfuga Regno Unito dal resto dell’Europa – e l’unico confine di terra di un Regno che, per il resto, è un’isola, sorge sugli unici duecento chilometri nei quali non è possibile fissare alcun confine.
La necessità eppure l’impossibilità di costruire questa frontiera ha tenuto in scacco Londra per anni, poi ha trovato una soluzione provvisoria con la pecetta del backstop (che prevedeva l’esistenza di un confine in mezzo al mare, con l’Irlanda del nord di fatto separata dal resto del Regno Unito, in una formula inaccettabile dal Dup unionista) e, solo poche settimane fa, con l’arzigogolata soluzione dei Windsor Frameworks, che prevedono che le merci e le persone viaggino su due corsie: una verde per le persone e le merci che viaggiano tra Regno Unito e Irlanda del nord e una rossa per le merci e le persone che viaggiano tra Regno Unito e Ue.
La Brexit ha sconquassato anche la politica nordirlandese, rendendo impraticabile il dialogo che con tanta fatica si era costruito. Dal 2017 in poi, la regione “devoluta” non è più stata in grado di darsi un governo stabile perché il Dup si rifiuta di collaborare con lo Sinn Fein, che ha vinto le elezioni del 2022. Sempre il Dup si rifiuta di avallare qualunque forma di accordo che preveda per l’Irlanda del nord un trattamento anche solo parzialmente diverso da quello che l’Ue riserva al resto del Regno Unito.
Così, in attesa di capire come gestire la Brexit, questo angolo di Regno Unito è senza un governo, senza guida, senza budget, incapace persino di decidere se è davvero contento di questo quarto di secolo di pace.