Il racconto
Bombe sul Sagaing. L'attacco più brutale dall'inizio del colpo di stato in Birmania
Nel villaggio del Myanmar che è stato colpito i morti sono più di cento. Dopo i bombardamenti della giunta militare, a Mae Sot, dentro il confine con la Thailandia, sembra che si aggirino agenti birmani in cerca degli uomini della resistenza
L’attacco più brutale dall’inizio del colpo militare in Birmania ha provocato oltre cento morti. La fuga dei civili a Mae Sot, in Thailandia, mentre la resistenza affronta la repressione della giunta nell’enclave cinese Shwe Kokko/Mae Sot. Mae Sot è una metafora delle azioni che vi accadono. La più occidentale città thailandese, dove il fiume Moei segna il confine con la Birmania, è stata ed è rifugio e santuario di trafficanti e rifugiati birmani. Ma anche territorio battuto da giornalisti, operatori umanitari, tutti coloro che sono alla ricerca di una storia, di una causa. Martedì 11 aprile la giunta militare birmana ha bombardato un villaggio nel nord-ovest del paese.
I morti sono oltre 110, molte donne e bambini. Ieri notte ancora si stavano raccogliendo feriti e “pezzi” di cadaveri. Secondo un portavoce della giunta l’attacco era destinato a colpire membri della People’s defence forces (Pdf) il braccio armato del National unity government (Nug), il governo ombra birmano costituito dopo il golpe del febbraio 2020. In realtà i bombardamenti aerei fanno parte della strategia del terrore della giunta. Bombardamenti, come in questo caso, seguiti dal passaggio di elicotteri che mitragliano il territorio.
Per infliggere ulteriori perdite e impedire i soccorsi. Secondo molti osservatori questo ennesimo crimine contro l’umanità è una feroce risposta alle azioni militari compiute dal Pdf nella zona di confine di Mae Sot tra il cinque e il nove aprile, pochi giorni prima delle feste di Songkran, il Capodanno buddhista thai, e di Thingyan, quello birmano. Erano i giorni della Settimana santa per i numerosi cristiani Karen, l’etnia che rivendica quest’area, la propria indipendenza e da oltre mezzo secolo combatte contro il governo centrale birmano.
In quei giorni, sulla riva birmana del Moei si sono riaccesi violentissimi scontri e il fiume è stato attraversato da migliaia di uomini, donne e bambini, diecimila secondo molte fonti, che hanno cercato rifugio in Thailandia. Gli scontri hanno contrapposto le milizie della People’s defence forces e i rinnegati della Border guard forces (Bgf). La Bgf, infatti, è formata da ex gruppi delle milizie etniche che hanno scelto di far parte di Tatmadaw, l’apparato militare birmano, in cambio di una sorta di controllo sulle terre di cui chiedevano l’indipendenza. Il Pdf, d’altro canto, in questa zona opera con gruppi che formalmente ne fanno parte ma in effetti sono milizie autonome. È il caso della Cobra Column, un gruppo integrato in un battaglione del Karen national liberation army (Knla) l’esercito della Karen national union (Knu), l’organizzazione politica che dichiara di rappresentare il popolo birmano. In realtà per molti l’acronimo Knu significa “Karen never united”, a definire il frazionamento in tante fazioni quanti sono i battaglioni in uno scenario medievale da signori della guerra.
In questa giungla di sigle che si annidano nelle foreste a occidente del fiume Moei, ogni azione non sembra parte di una strategia militare e politica ma diventa una faida di stampo mafioso. E così l’uccisione di tre soldati della Cobra da parte della Bgf ha innescato una serie di ritorsioni, che molti definiscono “vendetta”, che hanno fatto detonare gli scontri della Settimana santa. Ma se gli scontri sono diventati così violenti da provocare il più grande esodo dalla Birmania da quando i militari hanno nuovamente trasformato il paese in un mattatoio, non è solo per una vendetta ma perché si sono combattuti per il controllo di un luogo di enorme valore. Economico più che strategico. Si trova 13 chilometri a nord di Mae Sot, chiuso in un’ansa del Moei. È Shwe Kokko, una città descritta in un bel reportage di Priscilla Ruggiero sul Foglio del settembre scorso.
È uno di quei luoghi che Jason Tower, direttore del programma Birmania dello United States Institute for Peace, chiama “Special criminal zones” controllate dalle triadi della mafia cinese, che spesso si sovrappongono topograficamente alle “Special economic zones” progettate dagli strateghi della Belt and road initiative (Bri), caselle nel Monopoli delle nuove Vie della Seta. Proprio tra Shwe Kokko e Mae Sot passa il corridoio che collega la Birmania al centro della Thailandia e da là si dirama verso Laos, Vietnam, Yunnan.
Lungo il corso del Moei, per una quarantina di chilometri a nord e sud di Mae Sot, si trovano altre 14 zone criminali speciali. Sono città di concentramento dove lavorano come schiavi decine di migliaia di persone. Sono informatici, manager, esperti di marketing e pubbliche relazioni. Come racconta Tower sono reclutati tramite social media da società che garantiscono ottime retribuzioni e molti benefit. Dopo un primo periodo in luoghi come gli Emirati o Bangkok, si ritrovano senza rendersene conto in posti come Shwe Kokko, rinchiusi in palazzi dove vivono e lavorano per oltre 12 ore il giorno impegnati in ogni genere di cybercrimine: giochi d’azzardo, truffe, criptovalute, adescamenti, ricatti.
È un sistema criminale che fa apparire lo schema Ponzi un gioco per bambini. Chi si ribella viene torturato. Scappare da luoghi del genere è quasi impossibile, chi cerca di farlo viene ucciso. “Prima asportano i reni. Il traffico d’organi è un’attività collaterale”, dice una fonte del Foglio a Bangkok avvertendo che la stessa sorte è riservata ai curiosi. Nei suoi racconti il Moei appare come il Congo di “Cuore di Tenebra”, il Mekong di “Apocalypse Now”: l’orrore oltre le rive, i cadaveri mutilati nella corrente. “La comunità internazionale non ha il quadro preciso di quanto accade”, commenta un italiano vicino ai movimenti della resistenza birmana e molto ben informato. “Il traffico di esseri umani da impiegare nelle attività di cybercrime è una delle fonti di guadagno della giunta e riguarda molti paesi occidentali i cui cittadini ne sono vittime”. Per quanto le fonti fossero attendibili, tuttavia, lo scenario che delineavano appariva talmente estremo da creare molti dubbi. Per chi aveva seguito la metafora di Mae Sot negli ultimi anni restavano parecchi punti oscuri.
Anni fa, quando cominciarono a costruire i casinò, Shwe Kokko sembrava una delle tante Sin City sorte nel bacino del Mekong: sale da gioco, bordelli, alberghi di lusso. La destinazione perfetta per i “Crazy Rich Asian” thailandesi, cinesi, malesi. A rovinare la festa era stata Aung San Suu Kyi, quando la sua National League era andata al governo: un’enclave del genere non si accordava con l’immagine che voleva dare al paese. Il Covid, poi, sembrava aver definitivamente restituito Shwe Kokko alla foresta. Due anni fa, osservandola dalla riva thai del Moei, appariva come le macerie descritte da Marc Augè: accumulate nella storia recente, “nel tempo storico della distruzione che rivela la follia della storia”. In realtà, però, Shwe Kokko stava già trasformandosi.
In questi giorni, a osservarla dagli stessi punti, non appare una città fantasma. I nuovi grandi edifici, la faraonica scalinata che dal fiume sale al Kokko resort, il grande portale rosso cinese con la scritta in mandarino birmano e inglese che proclama “Bentornati”, tutto questo non può essere spiegato con la presenza delle centrali delle truffe informatiche e gli alloggi per migliaia di cyber schiavi. “Non è solo una prigione, è anche un santuario. Ci sono gli schiavi e ci sono i padroni. I primi non possono scappare, gli altri si sentono protetti”, spiega la fonte del Foglio. “Shwe Kokko presenta le condizioni ideali: l’ambiente, il contesto, la popolazione”.
Ecco perché la battaglia per Shwe Kokko era così importante: la conquista della città da parte delle forze della resistenza poteva innescare una reazione a catena che avrebbe messo in crisi un sistema criminale gestito in joint venture da triadi cinesi e militari birmani. E per qualche ora, nella sera e nella notte della vigilia di Pasqua, sembrava davvero che potesse accadere. I messaggi che si susseguivano su Signal parlavano di un’avanzata della Cobra Column. “La Cobra ha iniziato ad attaccare e vincere e quindi si sono aggregati gli altri gruppi e gruppetti”, scriveva il contatto del Foglio. Ma poi, a quanto pare, hanno prevalso altri interessi, in particolare quelli di una brigata del Knu che fa capo a Roger Khin, un comandante che è stato accusato di avere interessi personali in un casinò. La Karen national union ha negato con forza ogni accusa, ma i sospetti rimangono e alcuni osservatori sul campo dicono di aver visto dei miliziani Karen rivolgere le armi contro i soldati del Pdf.
Più probabilmente, oltre ogni teoria del complotto, che comunque rivela le divisioni e gli antagonismi della resistenza, l’obiettivo si è rivelato troppo ambizioso. Le collusioni economiche, secondo alcuni ramificate anche in Thailandia, hanno frenato l’attacco e hanno rafforzato la difesa che in questo caso ha trovato nuovi compagni di strada. Alle forze del Pdf non è restato altro da fare che cambiare strategia e spostare gli attacchi più a sud e ad est, in territori dell’etnia Mon.
Per l’ennesima volta Mae Sot si è rivelata una metafora. Quella che doveva essere un’indagine sul mondo del cyber crime è divenuta la cronaca di una battaglia perduta, ma quella stessa battaglia sullo sfondo di Shwe Kokko è divenuta l’anticipazione una nuova storia. Quella di un mondo post apocalittico, di un distonico secolo asiatico.
Le scene che appaiono a Mae Sot ripropongono una storia che sembra ripetersi ciclicamente come i monsoni: campi profughi che si riempiono improvvisamente, in un’esondazione umana da un fiume che in questa stagione si attraversa a piedi. La maggior parte dei profughi è destinata a riattraversare il fiume per disperdersi nei sentieri della boscaglia. Almeno per ora, tuttavia, la risposta thai è stata “sorprendentemente buona”, e sono stati allestiti dieci campi provvisori. Il rischio è che col tempo i rifugiati vadano ad alimentare la popolazione degli immensi villaggi di capanne dove da decenni i profughi Karen attendono di tornare nei loro territori.
Anche Su Su, una ragazzina di quindici anni che sogna di fare la cantante, vuole tornare a casa. Ma per farlo attende la “Rivoluzione”. È arrivata a Mae Sot da Yangon assieme al fratello e una sorella. È scappata perché il padre faceva parte della resistenza e tutta la famiglia rischiava di finire in prigione. Adesso vive in una specie di ospedale da campo semiclandestino dove sono curati un centinaio di soldati del Pdf. Alcuni sono già rassegnati a una vita da invalidi. Altri hanno perduto ogni speranza e altri ancora sopravvivono in un mondo parallelo come il ragazzo che ha perso un pezzo di cervello. Poi ci sono quelli, come il ragazzo che ha tatuato “Rock & Roll” sopra la cicatrice vicino al cuore, che sembrano destinati a diventare membri delle “Apocalyptic Tribes”, le tribù dell’apocalisse di un medioevo asiatico prossimo venturo. Su Su, invece, sorride e sembra allegra. Lei insegna un po’ d’inglese a chi vuole impararlo, canta per i feriti, fa compagnia a quelli che non si muovono più. Quando può va nel grande magazzino di Mae Sot perché c’è l’aria condizionata. Si lamenta solo di non riuscire a dormire.
A Pasqua sembra che la calma regni a Shwe Kokko. A Mae Sot, però, sembra che si aggirino agenti birmani a caccia degli uomini della resistenza che si sono rifugiati qua. Sembra di vederli, a bordo di un mastodontico pick up nero dai vetri oscurati. Forse è suggestione o forse il ricordo di tanti anni fa, quando a Mae Sot si sparava per strada agli oppositori della giunta militare allora al potere. Alla fine, questo posto più che una metafora è un destino.