Per un soldato in più

In Russia la mobilitazione diventa “digitale” e non consente fughe

Micol Flammini

Mosca pensa a rafforzare il suo esercito e agli uomini sul campo di battaglia distribuisce opuscoli di propaganda per colpevolizzare la ritirata, a cominciare da quella di Kherson

Roma. Sono molti gli aggettivi dati finora alla mobilitazione in Russia. Quella annunciata da Vladimir Putin nel settembre del 2022 era stata definita “parziale”, per indorare  la promessa che il presidente russo aveva infranto dopo aver ripetuto per mesi che “l’operazione militare speciale” non avrebbe coinvolto i civili. Poi alcuni giornalisti indipendenti avevano parlato dell’inizio di una mobilitazione “silenziosa”, che andava avanti nonostante le autorità russe avessero dichiarato la fine della chiamata alle armi “parziale”. Da questa settimana, la mobilitazione è diventata “digitale”, vuol dire che per inviare la convocazione non sarà più necessario spedire una lettera, chiamata “cartolina”, ma basterà mandare una mail. Non appena la convocazione elettronica sarà stata inviata, verrà classificata come ricevuta. 

 

Da quel momento i confini del paese risulteranno immediatamente chiusi per il destinatario. Non appena Putin aveva annunciato l’inizio della mobilitazione “parziale”, migliaia di russi avevano scelto di fuggire all’estero. I prezzi dei biglietti aerei per i paesi ancora collegati direttamente con Mosca erano diventati carissimi, e chi aveva potuto aveva preferito rifugiarsi nei paesi confinanti come Kazakistan o Georgia. Non era stato possibile impedire a tante persone di lasciare il paese, non c’era il tempo, secondo la legge russa le restrizioni per chi è stato convocato scattano dopo qualche giorno. Con la nuova legge saranno invece immediate. 

 

La decisione di approvare in tutta fretta una legge che modifica i metodi della coscrizione sembra essere la premessa a una nuova ondata di mobilitazione, ma il Cremlino continua a smentire questa possibilità. Secondo Mosca la legge segue il tentativo di digitalizzazione degli uffici di reclutamento militare, ma sarebbe superficiale non considerarla assieme a un altro dato: Putin a dicembre aveva acconsentito alla proposta del ministro della Difesa Sergei Shoigu di aumentare il personale militare russo da 1,15 milioni a 1,5 milioni.

 

La mobilitazione non è ufficiale, ma il Cremlino – che ripete di voler portare avanti questa guerra e sa che Kyiv fa i piani per una controffensiva primaverile o estiva – non vuole ripetere  l’errore fatto lo scorso anno. Il ministero della Difesa aveva avvisato Putin in anticipo delle perdite ingenti che l’esercito aveva subìto e della necessità di rimpiazzarle, ma il presidente russo non aveva osato mobilitare i cittadini. Si convinse soltanto dopo la rapida controffensiva che i soldati ucraini portarono a termine con successo  nel nord-est del paese. La ritirata caotica degli uomini di Mosca spinse Putin ad accontentare il ministro Shoigu. Quella fu la peggiore delle ritirate dell’esercito russo, che già in precedenza, a fine marzo, aveva lasciato la  zona di Kyiv, dicendo di volersi concentrare sulla “liberazione del Donbas”. Successivamente, a novembre, si è ritirato dalla città di Kherson, in cui i migliori uomini di Mosca stavano rischiando di rimanere tagliati fuori dai rifornimenti. 

 

Sta crescendo fra le truppe di Putin un processo di colpevolizzazione della ritirata. Nei mesi scorsi è stato distribuito all’esercito  un opuscolo in cui non soltanto vengono ribadite ai soldati le motivazioni ideologiche della guerra attraverso una citazione attribuita a Galileo  Galilei – “La vera conoscenza è la conoscenza delle cause” – ma viene anche condannata la “vergognosa resa” di Kherson, ordinata dall’allora capo delle Forze armate in Ucraina, Aleksandr Dvornikov, abile, spietato e successivamente  demansionato. Quella ritirata fu un’operazione sensata per risparmiare molti uomini, ma dal Cremlino è stata letta come un’ammissione di debolezza imperdonabile. L’opuscolo distribuito è finito nelle mani della testata online Meduza, in copertina c’è una mappa dell’Ucraina senza la Crimea, la prima sezione è dedicata alla pratica dello schiavismo occidentale che ha soggiogato l’Africa, l’India e distrutto i cinesi con l’oppio, e che ora vorrebbe togliere la libertà anche ai russi. L’opuscolo va avanti facendo riferimento all’ordine 227 di Stalin. Nell’estate del 1942, il dittatore sovietico vedendo la disfatta del suo esercito contro i nazisti, ordinò all’Armata Rossa ormai arrivata a Stalingrado: “Non un passo indietro”. L’opuscolo promuove il ritorno ai metodi staliniani e alla pratica di annientare “allarmisti e codardi”. 

 

La vittoria contro i nazisti e la fine dell’assedio di Stalingrado furono un punto di svolta nella Seconda  guerra mondiale. Mosca non era pronta all’incursione dei tedeschi, reagì in ritardo, si organizzò con lentezza, ma riuscì a resistere per varie ragioni: complice la terra russa, complice l’inverno, complice soprattutto  la consapevolezza dei soldati di combattere per liberare il proprio paese e salvarlo dai nazisti. Oggi i russi sono gli occupanti e neppure gli opuscoli al fronte possono catechizzarli sull’esistenza di motivazioni giuste per questo conflitto. Due soldati con cui ha parlato Meduza hanno definito il documento “roba da Goebbels”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)