L'editoriale dell'elefantino
Ora basta con il mito del grande balzo (europeo) in avanti
Da Mao all’Ue. Non è chiudendo dirigisticamente la società e il mercato dentro canoni e condizioni e scadenze e tappe prefissate, ma aprendo i canali di scorrimento degli spiriti animali che le società moderne si trasformano. Meglio allora il grande Bonus in avanti
Ora che per forza di cose ne stiamo uscendo fuori con le solite procedure di normalizzazione, ricontrattazione, negoziato europeo eccetera, possiamo forse confessarcelo apertamente: con il piano di resilienza detto New Generation Europe, e già i termini abusati e retorici dovevano metterci in guardia, siamo entrati nello spazio mitico del “grande balzo in avanti”, come successe nella Cina rivoluzionaria della fine degli anni Cinquanta. Mao Tse Tung fallì nell’industrializzazione forzata, che costò a quanto dicono gli storici decine di milioni di morti per carestia. Il riformista precalendiano Liu Shao-Chi voleva procedere per gradi e integrare agricoltura e industria, idea benevolente e sensata che poi pagò cara durante la Rivoluzione culturale, il grande timoniere si voleva invece spicciare, intendeva dare un segnale di trasformazione radicale del modello di sviluppo del paese conquistato dalle sue truppe contro quelle del Kuomintang nel 1948, e il risultato economico e sociale fu un vero disastro.
Ora sono chiare le differenze tra i membri dell’ufficio politico del Pcc nel 1959 e oggi le Von der Leyen, i Rutte, Scholz, Macron, Draghi, ma sull’idea che decisioni fiscali e investimenti di stato, piani di investimento quinquennali e altri ammennicoli del genere possano cambiare una società, bè, su questo l’analogia regge, e in negativo. Per una volta con la collettivizzazione e industrializzazione forzata e con il gosplan dell’Unione europea il neoliberismo non c’entra, ma sarebbe intellettualmente giusto e forse elegante riconoscere che le trasformazioni che funzionano, finché funzionano, le fanno i mercati, le innovazioni tecnologiche, le decisioni di apertura e deregolamentazione che globalizzano e trascinano su una china riformatrice e sviluppista le forze vive dell’economia e della società.
Ovvio che si debba fare di tutto per spendere bene quei quattrini dei contribuenti europei, e massimamente in Italia che era ed è destinataria di un progetto di riequilibrio postpandemico e area chiave di tutto il progetto, ma il primo passo è finirla con la mitizzazione del grande balzo. Meloni ha il vantaggio di potersi ispirare se non a Liu almeno a Deng e alla sua sapiente finale capacità di applicare l’antico pragmatismo al capitalismo nel socialismo del partito unico. Quando arrivarono i ristori famosi, e i bonus oggi tanto dannati alla memoria, tutti pensammo che sarebbe stato inevitabile un effetto di attacco alla diligenza, parallelo all’istinto di sopravvivenza che aveva spinto accortamente a rivedere le regolette stupide sui deficit e gli aiuti e aiutini di stato. Inevitabile anche l’illusione della radicalità trasformativa del piano detto con brutta sigla Pnrr. Ma se una lezione non dico liberista o thatcheriana ma semplicemente di senso comune è da trarre, sia chiaro in che direzione deve andare: riconoscere che non è chiudendo dirigisticamente la società e il mercato dentro canoni e condizioni e scadenze e tappe prefissate, ma aprendo i canali di scorrimento degli spiriti animali e introducendo libertà e spirito di iniziativa, è così che le società moderne si trasformano.
La logica del tanto bistrattato (ora) Superbonus, al di là dei suoi evidenti difetti, era sensata in questo, che non pretendeva di organizzare e centralizzare la ripresa di un settore chiave dell’economia come l’edilizia, ne affidava lo sviluppo alla naturale predisposizione al vantaggio individuale e di gruppo di un pezzo di società liberalizzata nell’arraffo a spese della finanza pubblica, d’accordo, ma con evidente profitto sociale e privato. Ci sono altre vie? Non se ne conosce l’esito: meglio il grande Bonus in avanti (Conte, Liu, Deng) del grande balzo in avanti (Mao e successori di Bruxelles).