Intrappolati in casa
Il terrore del Sudan e i calcoli di chi dovrebbe mediare
Un asse di regimi – guardare Riad e Abu Dhabi – fa esperimenti pericolosi di mediazione a Khartoum. Almeno cento morti, il popolo è fuori dall’equazione e il punto è: chi è in grado di fermare Burhan e Hemedti? La prima risposta è: non il mondo occidentale
Milano. L’11 aprile del 2019, Omar al Bashir, dittatore del Sudan per trent’anni e ricercato per crimini di guerra, fu deposto dai suoi stessi militari, dopo proteste coraggiose che la repressione violenta non era riuscita a fermare. Nel 2021, un golpe dei militari ha definitivamente escluso la società civile dalla guida del paese, rinviando la promessa di condivisione del potere al momento in cui le tante forze militari del paese si fossero unite e amalgamate. L’11 aprile di quest’anno avrebbe dovuto essere il momento – il giorno è simbolico per il nuovo Sudan – della firma dei militari che guidano il paese sull’accordo per far confluire il più grande gruppo paramilitare del paese, le Rapid support forces (Rsf) nell’esercito regolare. Ma a quel punto il negoziato era già saltato, la richiesta dell’Rsf di licenziare ottocento persone dell’esercito regolare ha schiacciato ogni possibilità di compromesso e gli osservatori che non tolgono gli occhi dal Sudan hanno detto: ora riscoppia la guerra.
La diplomazia internazionale si è attivata, ha chiesto calma, ha indicato mediatori, ma gli equilibri di questa regione si sono stravolti a una velocità inimmaginabile da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e tutto il mondo è stato costretto a rivedere le proprie alleanze, a sopravvivere di compensazioni e riallineamenti. I militari sudanesi ascoltavano già poco l’occidente se non in funzione dei fondi da sbloccare, e hanno ascoltato poco anche i loro partner locali (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto e i loro relativi sostenitori, soprattutto la Russia) e così il 15 aprile sono cominciati gli scontri. Ci sono già almeno cento morti, ma la sicurezza dei civili è, ancora una volta, fuori dall’equazione di chi pretende questo regolamento di conti. I due contendenti sono Abdel Fattah al Burhan, capo dell’esercito regolare e di fatto del Sudan, e Mohammad “Hemedti” Dagalo, capo delle Rsf e numero due del regime.
Entrambi erano protetti da Bashir, entrambi hanno contribuito allo sterminio del Darfur (Hemedti guidava i bestiali janjaweed, che sono confluiti nelle Rsf), entrambi hanno abbandonato Bashir quando l’hanno considerato insalvabile (ma prima hanno partecipato alla repressione contro le manifestazioni civili), entrambi hanno cacciato i rappresentanti non militari dal Consiglio di transizione nel 2021, entrambi hanno cercato e trovato sostegno esterno (in diverse misure) a Riad, al Cairo, ad Abu Dhabi, entrambi si sono equipaggiati e organizzati (l’esercito regolare conta circa 200 mila uomini, le Rsf circa la metà, ma sono brutali e i sudanesi le temono perché non hanno la legittimità di un esercito). Quando c’è stato da sancire il motivo per cui si erano ritrovati appaiati, i due militari si sono dichiarati guerra e nessuno, fuori dal Sudan, è riuscito a impedire che se la facessero per davvero.
L’esercito regolare ha gli aerei, così le Rsf hanno iniziato a occupare gli aeroporti; Burhan ha accusato le milizie di tradimento, e Hemedti ha detto che chi si metterà tra lui e il potere sarà catturato “o morirà come un cane”. Il fratello di Hemedti, Abdul Rahim, numero due delle Rsf e a capo della al Junaid, una società che si occupa dell’estrazione dell’oro, ha detto all’esercito regolare di deporre le armi, di non provare nemmeno a sfidare le Rsf, e nella migliore tradizione di questi militari assassini ha aggiunto che sono le Rsf le uniche in grado di dare protezione e prosperità al popolo sudanese. Ancora una volta: il popolo è fuori dall’equazione, è intrappolato nelle case e nelle scuole in cui era la mattina del 15 aprile, s’affaccia alle finestre e si ritrae. Sono iniziati i saccheggi e i rastrellamenti a opera dei janjaweed, che non conoscono alcuna regola.
Ora il punto è: chi è in grado di fermare Burhan e Hemedti? La prima risposta è: non il mondo occidentale. Non perché non ne abbia l’intenzione o l’interesse, e nemmeno perché abbia ignorato il paese, tutt’altro: lo scorso anno, il Sudan è entrato a fare parte degli Accordi di Abramo che hanno portato a una normalizzazione dei rapporti tra il mondo arabo e Israele, e in quell’occasione erano stati sbloccati alcuni fondi ed erano state tolte alcune sanzioni (e Israele ha fatto investimenti in Sudan). L’occidente non è molto influente perché uno dei due attori principali di questa sfida, l’Arabia Saudita, nel grande riallineamento in corso, è sempre più ostile all’America e tende a non darle più alcuno ascolto. Anzi, preferisce parlare con l’Iran, il grande nemico, la causa dello sfacelo umanitario in cui sono molti paesi africani e mediorientali: ieri il regime iraniano ha invitato il re saudita Mohammed bin Salman a Teheran, mentre la tregua in Yemen, che era il terreno di scontro più diretto tra sauditi e iraniani (le Rsf avevano mandato dei loro uomini a combattere con le forze sostenute dai sauditi e ogni presenza sciita in Sudan era stata smantellata), regge e si rafforza.
La riapertura dei rapporti tra Riad e Teheran è stata negoziata a Pechino e se continua – come sembra – il messaggio è chiaro: c’è un nuovo mondo che non vuole ascoltare l’occidente, e che tocca naturalmente anche Vladimir Putin che in questa storia c’entra perché fornisce armi e formazione militare e prende in cambio l’oro sudanese spesso per via illegale, lo rivende e usa gli introiti per sterminare gli ucraini. Questa via illegale passa molto spesso per gli Emirati Arabi Uniti, che sono gli altri interlocutori fondamentali della crisi in Sudan e della crisi più ampia: i loro interessi di dominio della regione passano anche per i sei miliardi di dollari investiti per creare un nuovo porto sulla costa sudanese che si affaccia sul mar Rosso (a cui dare grande accesso anche ai russi). Sauditi ed emiratini sono allineati in alcune crisi ma non in altre: le alleanze tra regimi sono pericolosissime ma anche fragili. In Sudan vogliono la stabilità, che in questo momento sembra l’ultimo degli obiettivi dei due militari, il che significa che finché non si possono dare garanzie si combatte e il prezzo della stabilità lo pagheranno i sudanesi, esclusi da ogni gioco se non da quello della violenza.