Settantacinque anni tra Bibbia e startup
Quel cocktail perfetto chiamato Israele
Laici e religiosi, aschenaziti e sefarditi, élite e popolo. Laboratorio della ricerca all’avanguardia e scenario di una vicenda spirituale millenaria. Il racconto di un paese che dal 1948 vive sull’equilibrio delle sue contraddizioni
Sono qui, da ore, a fissare lo schermo del Pc, pigiando quasi a caso le lettere sulla tastiera in cerca di un’immagine, una sola – eloquente, chiara, sintetica – per attaccare il pezzo che il Foglio mi ha chiesto di scrivere sul settantacinquesimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele. La proclamazione ufficiale è del 14 maggio 1948, secondo il calendario laico, ma quest’anno, seguendo il calendario lunare delle feste ebraiche, il giorno dell’Indipendenza cadrebbe esattamente il 25 aprile, la nostra Liberazione.
E Israele si prepara a compiere 75 anni proprio quando il paese è attraversato da una protesta di massa senza precedenti nella sua storia – aeroporti e università chiuse, imprenditori, sindacati e studenti insieme in piazza – e si mobilita contro la riforma della giustizia proposta (e ora congelata) dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu, in carica da appena quattro mesi. Ci vorrebbe, quindi, un’immagine – mi ripeto – in grado di tenere tutto insieme: passato e presente, storia e attualità, utopie e frustrazioni dell’intera vicenda israeliana.
Ecco che – dopo molti tentativi andati a vuoto, scartando slogan precotti e formule roboanti – un po’ per sfinimento e un po’ per convinzione, mi sembra di trovarla, quell’immagine, di afferrarla. Non so se a suggerirmela è la sete, la voglia di leggerezza o il ricordo di alcune piacevoli notti trascorse sul lungomare di Tel Aviv, la Miami Beach del medio oriente.
Ma, insomma, penso a un cocktail.
Sì: un cocktail colorato, composito, vario e, soprattutto, ben equilibrato.
La riuscita di un cocktail, come è noto, risiede nell’esatto dosaggio degli ingredienti: se uno prevale sull’altro, l’alchimia del gusto salta e l’equilibrio frana, esplode. E, al netto delle facili, e quanto mai pregnanti, battute che possono scaturire dall’accostamento dei due termini, il cocktail in questione rischia di essere – da sempre, verrebbe da dire – esplosivo. Già, perché Israele accoglie, sin da subito – quali indiscutibili premesse – l’intreccio e la compresenza di elementi in contraddizione, se non in naturale opposizione, tra loro.
Nella sua ormai classica Storia di Israele del 1988, il politologo Eli Barnavi collega con dei puntini di sospensione due paragrafi distinti del capitolo dedicato al Problema dello stato, così da formare un’unica frase di senso compiuto: “Una democrazia parlamentare moderna… su un substrato biblico”. Il nucleo del problema non potrebbe essere più chiaro: si tratta della dialettica continua tra laicismo e religiosità, entrambi costitutivi per Israele.
E – parlando di uno stato che si sviluppa fisicamente e politicamente nella culla del monoteismo, nella location elettiva del Popolo di Mosè e di Abramo – non potrebbe essere altrimenti.
Il confronto tra una visione laica e una religiosa – che è alla base dello Stato ebraico, lo chiamo più chiaramente così – ha, infatti, radici profonde e sta già tutta nella convivenza, all’interno di un unico territorio, tra aschenaziti e sefarditi. La componente aschenazita si incarna nella grande borghesia europea animata dall’ideale del sionismo, con i suoi studi d’eccellenza nelle università più prestigiose, la sua formazione laica e razionalista, la sua attenzione alle forme mature della rappresentanza politica. La componente sefardita è, invece, rappresentata degli ebrei cacciati dalla Spagna nel Quindicesimo secoli e radicatisi nei paesi arabi.
Schematizzando un po’ le cose – ma nemmeno troppo – si potrebbe anche affermare che, dal punto di vista socio-culturale, siamo di fronte al famigerato contrasto tra élite e popolo: l’élite aschenazita di ispirazione laica, il popolo sefardita più connesso alla dimensione religiosa. Ma sia chiaro: entrambe le identità – lungi dall’essere rigidamente separate – si sono fatalmente incrociate e toccate nel corso di tutta l’evoluzione dello Stato di Israele.
Solo che adesso – con la partecipazione al governo del paese, insieme al Likud, di partiti e formazioni di matrice ultra-ortodossa – alcune differenze sembrano risaltare con maggiore evidenza, rivelando, una volta per tutte, un contrasto ancora più ampio e generale (pure questo molto israeliano): quello tra innovazione e tradizione.
Israele è la Start-up Nation per antonomasia, il laboratorio della ricerca all’avanguardia (dai format televisivi alla medicina sperimentale, dalla cyber security all’intelligenza artificiale), l’incubatrice in perenne trasformazione di una conoscenza iper-duttile, onnicomprensiva e proiettata nel futuro. Questo grazie al fatto che le tecnologie sviluppate in ambito militare hanno avuto sempre un impiego e una ricaduta civili. Tanto per citarne una, il drone super tecnologico che sorvola Gaza per ragioni di sicurezza è stato poi impiegato per delle riprese mozzafiato nelle mitiche serie tv, Fauda tra tutte. E, al tempo stesso, il medesimo stato è lo scenario (per certi versi immutato) di una vicenda spirituale unica e millenaria: la “casa”, concreta e ideale, scelta da un popolo transnazionale per difendere, oltre che sé stesso, le sue tradizioni, non ultime quelle religiose.
Si prenda il “caso” Tel Aviv: la città pop per eccellenza, la capitale delle mille tendenze, della cucina fusion, dei locali notturni (e, a proposito di cocktail, è là che si trova – pare – il miglior cocktail bar del medio oriente), la sede consolidata di un affollatissimo e rutilante Gay Pride che ospita ogni anno migliaia rappresentanti della comunità Lbgtq+ da tutto il mondo.
Ebbene, quasi attaccata a Tel Aviv, c’è l’area urbana di Bnei Brak, abitata principalmente da Heredim (letteralmente: “coloro che tremano davanti a Dio”), ebrei religiosi ortodossi.
C’è anche da aggiungere, poi, che i modi in cui si declinano le due facce, le due metà complementari e separate di Israele, può assumere, nella gestione della vita quotidiana, forme curiose, a tratti persino comiche.
Valgano pochi esempi: dalla lanciatissima e tecnologicamente up-to date compagnia di bandiera El Al che non effettua voli il venerdì sera per la festa dello Shabbat (il giorno del riposo settimanale previsto dalla Torà), agli alberghi con l’ascensore “intelligente” che permette, durante la festa, di non infrangere le regole di inattività forzata. Funziona così: l’ascensore si ferma a tutti i piani, autonomamente, senza costringere chi lo prende a schiacciare i pulsanti. Con questo espediente la tradizione è rispettata e l’economia non si blocca! Anzi. Chiamatelo pure compromesso, ma è uno dei segreti del cocktail.
Essenziale, però, per capire la natura del compromesso, è rendersi conto – nel preciso tornante storico in cui si trova oggi lo Stato israeliano – della consistenza dei poli opposti da cui è animato. Per farlo, uno degli interlocutori a cui rivolgersi può essere Jonathan Pacifici, venture capitalist cresciuto a Roma ma stabilitosi in Israele, specializzato nello sviluppo internazionale delle aziende tech e presidente del Jewish Economic Forum, che sta per dare alle stampe un libro dal programmatico titolo: La Superpotenza Israele.
Tra i molti numeri snocciolati da Pacifici con cognizione di causa nella sua analisi, a impressionare più di tutti è il dato di partenza. Ovvero che uno stato con una superficie territoriale di circa quattordici volte più piccola rispetto a quella dell’Italia (22.145 chilometri quadrati contro 302.073) faccia parte della lista – compilata da Us News & World Report in collaborazione con l’Università della Pennysilvania – dei dieci paesi più potenti al mondo (piccola integrazione: Israele è al quarto posto per forza militare, dopo i colossi Stati Uniti, Cina e Russia). E la prestigiosa rivista Forbes, nel 2022 (quindi, in piena era post coronavirus, nel momento in cui aleggiava in Occidente lo spettro della recessione) ha inserito per la prima volta Israele nella Top 20 mondiale per pil pro-capite (nel 2021, tra l’altro, le società tecnologiche israeliane sono cresciute del 136 per cento rispetto all’anno prima).
Chiedo direttamente a Pacifici, al di là dei rating e delle classifiche, i motivi – se ci sono – della vocazione “performativa” di Israele in campo economico, della sua tensione innovativa nella ricerca e nello sviluppo. Mi risponde ricorrendo a un concetto della tradizione ebraica, il Tiqqun ‘olam. Sarebbe a dire? “Si potrebbe tradurre come: riparare il mondo… L’idea è che Dio abbia fatto un ottimo lavoro, creando il mondo, ma che lo abbia volutamente lasciato incompleto, regalando all’uomo la missione di ultimarlo, di provare ad aggiustarlo, a perfezionarlo nelle sue mancanze… Da qui, l’impulso di cercare nuove strade, agganciandosi alla conoscenza. Del resto, se ci pensi, è stato proprio il potere della conoscenza a tenere vivi e, in qualche modo, uniti, simili, gli ebrei quando non avevano uno stato…”. E torna, allora, alla mente anche un saggio scritto qualche anno fa da Jonathan Rosen, Il Talmud e Internet, dove nella costruzione talmudica (in cui testo principale, glosse, note e commenti dei rabbini dialogano tra loro nella stessa pagina, creando un vertiginoso sistema di incastri e di rimandi) l’autore ritrova l’origine delle stesse nozioni di “Rete” e di “Link”, come se la spinta verso la complessità e l’innovazione, sia, per il Popolo del Libro, una sorta di patrimonio secolarmente sedimentato e condiviso.
Approfitto, così, per domandare a Pacifici, partendo dalla sua esperienza e dal suo osservatorio particolare, una valutazione dell’attuale momento politico israeliano, buttandogli là, tra una curiosità e l’altra, anche la suggestione del cocktail: “… Sì, mi piace come metafora… E credo che il cocktail israeliano fino ad ora sia potuto stare insieme grazie a un sistema di controlli e bilanciamenti incrociati, non istituzionali, ma radicati nella dimensione pubblica, nella cittadinanza, legati ai corpi intermedi, ai pezzi diversi della società… Tutto questo si è riflesso spesso in governi di coalizione molto ampi che esprimevano, appunto, una necessità di controllo reciproco, all’interno di una democrazia che, come saprai, non ha una Costituzione”.
E cosa è successo, invece, alle ultime elezioni? “Beh, all’ultimo giro elettorale – prosegue Pacifici – dopo uno stallo che durava un po’, si è formata una coalizione che, anche se composta da formazioni diverse, presenta un segno univoco, cioè, per capirci: è decisamente spostata a destra. E quando il nuovo governo ha messo in cantiere una riforma della Giustizia che andava a colpire la Corte suprema – l’organo del potere giudiziario – svuotandola della sua forza effettiva e delle sue possibilità decisionali, l’anima laica del paese, il motore della rivoluzione economica e tecnologica raccontata nel mio libro, si è risvegliata dopo un periodo in cui era sembrata piuttosto sonnecchiante…. Tanto che ora il centro, rappresentato dall’alleanza Blue and White che ha a capo Binyamin Gantz, sta crescendo progressivamente nei sondaggi, perché è come se ci fosse una nuova richiesta di equilibrio, dei pesi e dei contrappesi necessari al funzionamento del cocktail. Si ridimensionerebbero, così, le ali più connotate, se non estreme, sia a destra che a sinistra, visto che anche il Labour Party non è messo troppo bene…”.
Un altro interlocutore interessante per entrare nella ricca e difficile – ma spesso ancora feconda – complessità dell’Israele del 2023 è senza dubbio Roy Chen, drammaturgo, letterato (è uscito da poco il suo primo romanzo giunto, in poche settimane, alla seconda edizione: Anime, edito in Italia da Giuntina di Shulim Vogelmann), traduttore dal russo all’ebraico di Puskin, Gogol’ e Dostoevskij, autore in pianta stabile del Teatro Gesher, uno dei presidi artistici più importanti del paese. Nato a Tel Aviv nel 1980 – il ramo paterno della famiglia, espulso dalla Spagna, si stabilisce in Palestina nel 1492, quello materno ci arriva dal Marocco agli inizi del Ventesimo secolo – Chen è cresciuto tra suggestioni e modelli molto diversi tra loro: un nonno gioielliere e uno pescatore, una nonna hostess poliglotta e una analfabeta.
Lo raggiungo al telefono mentre si trova in vacanza in Toscana, il giorno dopo l’attentato di Tel Aviv, in cui – durante le festività di Pesah – ha perso la vita, a 35 anni, travolto da un’auto lanciata sui passanti che camminavano sul lungomare, il nostro connazionale Alessandro Parini.
Non posso non partire da questa tragedia e chiedo a Chen un’impressione a caldo. Mi risponde così: “C’è uno strano rispecchiamento che rende una notizia di questo tipo, per me, ancora più triste e assurda del solito… Io, ora, sono un turista nel vostro paese, proprio come Alessandro fino a ieri lo era nel mio: la sua vicenda non può non toccarmi nel profondo, anche se, va detto, sono cresciuto con gli attentati, con la possibilità che si verificassero. Una consapevolezza che, purtroppo, ha segnato la mia infanzia e la mia adolescenza, e anche la mia età adulta… E l’attentato in cui è morto Alessandro si è abbattuto sul paese in una fase di estrema fragilità politica e sociale, di forti divisioni interne, aggiungendo tensione a tensione…”. Inevitabile, quindi, una domanda sulle manifestazioni e le piazze piene da mesi contro il governo: “Sono sceso in piazza anch’io, insieme a migliaia di persone, perché abbiamo percepito – anche con sensibilità differenti, a seconda dei vari orientamenti politici – che la democrazia israeliana fosse in pericolo, sia per la riforma giudiziaria (con cui sarebbe stata messa in discussione l’indipendenza della Corte suprema), sia per l’estremismo e le idee razziste, omofobe e nazionaliste che caratterizzano alcuni elementi presenti nel governo in carica. Ed è stato esaltante assistere alla marcia indietro dell’esecutivo. Un risultato ottenuto con il contributo di tutti: laici e religiosi, conservatori e progressisti, perché la democrazia è un valore non di parte, ma appartiene a chiunque…”.
Chen è un intellettuale di rilievo, e l’ultima cosa che gli chiedo riguarda il suo ruolo in questo frangente, in Israele: è cambiato? Come lo sta vivendo? “Senza dubbio c’è stato un sussulto di consapevolezza, ma non solo in me, nella maggioranza del popolo israeliano. Insieme abbiamo capito nella pratica, quello che a volte ci si dimentica e cioè che, oltre all’aspetto di pura testimonianza, la partecipazione attiva può anche cambiare davvero le cose. Per il resto, gli intellettuali sono ovviamente cittadini come gli altri e utilizzano gli strumenti che hanno disposizione, i loro ‘ferri del mestiere’: la scrittura, la parola, il teatro, la comunicazione. E’ attraverso questi mezzi che posso far sentire la mia voce. Ma, prima di tutto, continuerò a scendere in piazza, che è altrettanto importante”.
Le parole di Chen, sfuggendo alle trappole della retorica, riportano nel cuore del discorso una visione non dogmatica della democrazia che, come diceva Churchill è sempre “imperfetta” e “perfettibile”.
Il titolo di una raccolta di saggi di Isaiah Berlin, Il legno storto dell’umanità, cita direttamente l’aforisma di Kant che recita: “Del legno storto di cui è fatto l’uomo, non si può fabbricare nulla che sia veramente dritto”. E se anche la democrazia non può essere né dritta, né perfetta – sostiene Berlin – i suoi valori (uguaglianza, giustizia, libertà) restano comunque irrinunciabili.
L’eventualità che tali valori possano essere inquinati o attraversati da aspetti migliorabili, quando non addirittura nefasti, non deve metterne in crisi il senso e l’esistenza.
C’è una frase emblematica di David Ben Gurion, padre fondatore di Israele, pronunciata proprio alla vigilia della proclamazione dell’Indipendenza, che suona più o meno così: “Dateci uno stato, così finalmente potremmo avere anche noi i nostri ladri, le nostre puttane, i nostri malfattori”. Una boutade geniale e, contemporaneamente, una grande celebrazione dello statuto democratico, nefandezze (spesso inevitabili, trattandosi di materia umana) incluse.
Imperfetto, controverso, complicato, contraddittorio, Israele, sta lì, con i suoi 75 anni – portati, in linea di massima, piuttosto bene – a dimostrarci, che ogni democrazia, anche la più evoluta, deve sempre continuare a “compiersi”.
In quest’ottica, il suo percorso costellato da assestamenti progressivi, e relativi smottamenti, è davvero paradigmatico. E il fermento che sta scuotendo lo Stato israeliano negli ultimi mesi, muovendo i corpi e le opinioni dei suoi cittadini, ne può, paradossalmente, rafforzare l’assetto democratico. Che ciò succeda quasi in contemporanea con l’anniversario della sua fondazione è – se non un buon auspicio – una coincidenza da mettere in rilievo con la dovuta importanza. L’avvenimento, insomma, merita un brindisi.
Spengo il pc e, quasi in automatico, mi ritrovo a far rotolare due cubetti di ghiaccio in un bicchiere. Fuor di metafora, decido finalmente di prepararmi un cocktail. Date le circostanze – chiedendo perdono a James Bond per l’indebita appropriazione – farò in modo che sia agitato e non mescolato.
David Parenzo è in tour nei teatri italiani in questo periodo con lo spettacolo “Ebreo”, “un monologo che accompagna lo spettatore in un viaggio immersivo nelle tradizioni, festività e nei precetti dell’ebraismo per comprendere cosa significhi essere ebrei”.
I conservatori inglesi