I problemi economici del Cremlino
L'embargo e il price cap fanno crollare le entrate petrolifere russe
Le entrate di Mosca da esportazioni petrolifere sono crollate di quasi un terzo, passando da 54.5 miliardi di dollari del quarto trimestre del 2022 a 38,8 miliardi del primo trimestre del 2023. E pure Putin ha iniziato timidamente ad ammettere l’efficacia delle sanzioni
Dall’introduzione del primo round di sanzioni occidentali alla Russia si è accesso un dibattito infuocato sull’efficacia di queste misure. Secondo molti critici l’economia russa non è implosa, la guerra continua e non c’è stato nessun cambio di regime al Cremlino. L’obiettivo primario delle sanzioni però è un altro: limitare la capacità della Russia di finanziare lo sforzo bellico, e di fronte al fallimento dell’offensiva per la conquista completa del Donbas (ferma da mesi a Bakhmut) appare evidente che l’economia russa forse può anche sostenere una guerra lunga, ma non una nuova offensiva su vasta scala.
La misura che sta facendo la differenza è l’embargo dell’Unione europea al petrolio russo combinato al price cap del G7, che da dicembre 2022 colpisce direttamente la principale fonte di finanziamento del bilancio della Federazione Russa. Secondo uno studio della Kyiv School of Economics (Kse) le entrate di Mosca da esportazioni petrolifere sono crollate di quasi un terzo, passando da 54.5 miliardi di dollari del quarto trimestre del 2022 a 38,8 miliardi del primo trimestre del 2023. I ricercatori della Kse attribuiscono circa il 75 per cento del calo delle entrate russe alla riduzione del volume delle vendite e ai maggiori sconti sui prezzi del greggio degli Urali, due fattori direttamente correlati alle sanzioni (il restante 25 per cento è legato i prezzi globali più bassi). Il presidente della Kse ed ex ministro dell’Economia ucraino Tymofiy Mylovanov sottolinea che le sanzioni sul petrolio stanno limitando pesantemente la capacità di Mosca di finanziare la guerra e chiede un price cap più basso per renderle ancora più efficaci.
Ad ammettere timidamente l’efficacia delle sanzioni è lo stesso Vladimir Putin, che di recente ha detto che “nel medio periodo le restrizioni illegittime imposte all’economia russa potrebbero effettivamente avere un impatto negativo su di essa”. Fino a un mese fa Putin aveva sempre negato o minimizzato il peso delle sanzioni, nonostante le dichiarazioni assai meno rassicuranti della Banca centrale russa. La domanda quindi non è quanto a lungo la Russia possa sopportare le sanzioni, ma quanto (e se) può sostenere l’intensificarsi del conflitto di cui avrebbe bisogno per trasformare le prospettive sul campo di battaglia e ricominciare ad avanzare all’interno dell’Ucraina.
Secondo un’analisi dell’Economist sembra quasi impossibile. Attraverso le importazioni parallele di hardware e la riduzione dell’export la Russia sta continuando a produrre armamenti, ma i volumi non sono lontanamente sufficienti a ripristinare le scorte, mentre la mancanza di componenti obbliga le fabbriche militari a cannibalizzare l’industria civile. A essere “cannibalizzato” dalla crociata del Cremlino è anche il capitale umano: più russi vengono mandati in prima linea per cercare di ottenere con la quantità ciò che non si riesce a ottenere con la qualità, minore sarà la popolazione attiva nell’economia, anche per quel che riguarda la produzione di armi. Un circolo vizioso che sta portando la Russia e la sua economia indietro di decenni, spazzando via i risultati e le promesse del ventennio putiniano.
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