(foto EPA)

Little Syria

Al voto turco tutti i candidati vogliono i rimpatri, Erdogan meno. Voci dal quartiere siriano di Istanbul

Claudia Cavaliere

A dieci dalla prima ondata di accoglienza, il sentimento in Turchia nei confronti dei rifugiati siriani è cambiato. E adesso anche il presidente uscente si sente pressato verso una riconciliazione con Assad

Istanbul. Nel distretto di Fatih, situato sulla sponda europea del Bosforo alle spalle della moschea che gli dà il nome, s’è sviluppato un quartiere nel quartiere, da quando nel 2011 è scoppiata la guerra civile in Siria. Si chiama Little Syria, era ed è ancora l’area in cui si trova la maggioranza dei gruppi religiosi di Istanbul e, per vicinanza e spirito di accoglienza, ha ospitato i primi gruppi di siriani ai quali la Turchia aveva cominciato ad aprire le porte. In più di dieci anni nel paese sono arrivati almeno quattro milioni di persone, soprattutto siriani, ma anche afghani, iracheni, iraniani, libici. A oltre 220 mila di loro è stata riconosciuta la naturalizzazione turca – non godono dello status di rifugiato, ma di una protezione speciale – e quindi potranno partecipare alle elezioni del 14 maggio: non determineranno l’esito del voto, ma l’immigrazione è al centro del dibattito elettorale

 

Nella Little Syria di Istanbul sono stati aperti mercati, negozi e botteghe, ma ora è un ghetto ben delimitato dal perimetro della moschea: da una parte i turchi, dall’altra i profughi. Mohammad ha cinque figli, è venuto da Aleppo dieci anni fa e in Turchia ha aperto un tradizionale locale siriano. Mentre prepara un caffè aromatizzato al cardamomo tipico della sua regione, racconta che lui non potrà votare ma che ha paura di cosa possa essere di lui e degli altri se dovessero essere costretti a tornare a casa, perché lui ha fatto le proteste, è sceso in piazza e si è opposto al regime di Bashar el Assad. Ognuno dei quattro candidati alla presidenza ha promesso di rimandare in Siria milioni di rifugiati e la maggioranza degli elettori turchi sembra favorevole, nonostante abbiano contribuito a quell’economia che altri li accusano di aver rovinato. Con una differenza: il presidente, Recep Tayyip Erdogan, spinge per i ritorni volontari, mentre gli altri per i rimpatri obbligatori. 

 

La Turchia è diventata il paese che ospita più rifugiati al mondo:  provengono da medio oriente, Asia e Africa – ora anche da Ucraina e Russia – e i figli che stanno avendo studiano nelle scuole turche: sta cambiando il paese e il suo tessuto sociale. Quando nel 2021 un ragazzo siriano aveva ucciso un cittadino turco in un sobborgo di Ankara, il sentimento di accoglienza e apertura di cui si era avuta esperienza dieci anni prima si era già deteriorato e la popolazione aveva protestato  contro le politiche sui rifugiati di Erdogan. Da allora il ministero dell’Interno ha decretato che la quota di stranieri in alcuni quartieri sarebbe stata limitata al 20 per cento della popolazione; i siriani furono spostati e le case demolite per impedire loro di tornare.

 

Adesso, pressato dalla sua stessa base elettorale che chiede la riconciliazione con Assad e il ritorno a casa di almeno 3,6 milioni di siriani, anche Erdogan è costretto a considerare le due opzioni che a lungo aveva rifiutato: nessuno più di lui ha spinto per un cambio di regime a Damasco. Ma l’attuale presidente già anni fa aveva preso a spostare i siriani nelle aree che erano controllate dalle Unità di protezione popolare curde nel nord della Siria e che ora sono nelle mani della Turchia e dell’Esercito siriano libero: avrebbe dovuto essere una fascia di territorio nella parte siriana del confine turco abitata da siriani che interrompesse la continuità curda e che era stata denunciata dai gruppi per i diritti umani come “ingegneria demografica”. Dall’altra parte, solo un mese fa, il suo avversario Kemal Kiliçdaroglu, candidato presidente del Partito popolare repubblicano e della coalizione nota come “Tavola dei sei”, ha promesso, dopo aver ripetuto di voler ripristinare le relazioni con il regime di Damasco, di rimandare indietro i rifugiati entro due anni dalle elezioni, con l’obiettivo di ribaltare l’ingresso incontrollato (secondo lui) dei siriani come risultato della politica della porta aperta attuata dall’Akp erdoganiano ai confini turchi. 

 

Gli episodi di violenza, il fatto che si accettano lavori per compensi più bassi, la crisi economica forse hanno esasperato la gente, ma adesso veniamo guardati male, siamo isolati, quasi nessuno vuole che restiamo”, racconta Gazvan da Ankara, raggiunto al telefono, un professore di arabo che è scappato da Damasco nel 2011 dopo essere stato arrestato durante le proteste. E’ naturalizzato da sei anni e voterà: “E’ che anche qui la vita si sta facendo difficile per noi, il governo è meno aperto ad averci intorno e la polizia è ancora più aggressiva. Con Erdogan o senza di lui, non stiamo vivendo i nostri giorni migliori: lo sosterremo, ma non siamo felici. Non è più l’uomo che ci ha salvati, stiamo solo scegliendo quel che adesso ci sembra il male minore per il nostro futuro”.