Pechino chiama Kyiv
Le critiche zelanti al viaggio cinese di Macron erano scemenze
Trascinare la Cina nel negoziato di pace ucraino. Ora è chiaro cosa faceva il presidente francese con Xi
Sopra tutto niente zelo, vecchia regola che si tende a trascurare troppo spesso. La missione cinese di Emmanuel Macron, che si inseriva per la verità in una serie politica di cui anche il cancelliere Scholz e il capo del governo spagnolo Sánchez erano stati o sarebbero stati protagonisti prima e dopo di lui, sollevò polemiche, appunto, zelanti. Le tribune pacifiste e putiniane salutarono con fervore la svolta anti Usa, molti atlantisti pro Ucraina deprecarono il voltafaccia con questi argomenti: Taiwan abbandonata al suo destino, l’autonomia strategica europea figlia dell’antiamericanismo, pretese fuori luogo e senza senso di antica grandeur da parte di un paese marginalizzato dagli accordi strategici militari e di business fra atlantisti e australiani nell’Indo-Pacifico. Erano scemenze o preoccupazioni ampiamente esagerate. Macron si era inserito in una filiera diplomatica, di cui gli Stati Uniti e la stessa Russia e la stessa Ucraina erano a diverso titolo e in modo diverso edotti in anticipo, il cui scopo è tirare sul serio la Cina di Xi dentro una possibile, embrionale, benvenuta apertura al negoziato per l’Ucraina e con l’Ucraina di Zelensky. Ecco che ora una telefonata e altro salvano la faccia, per così dire, all’Eliseo.
L’occidente euroatlantico non è e non può procedere come una falange. La Nato fa il suo, la Commissione e l’Unione europea fanno il loro, tutti alimentano con le proprie forze militari e economiche la locomotiva della difesa e della possibile controffensiva ucraina sotto il coordinamento strategico degli americani e del Patto atlantico, tecnologie tank e sanzioni; gli stati nazionali, che ancora esistono al di là della zelante rappresentazione del fronte unito occidentale, mobilitano eserciti e diplomazie per ottenere risultati sui quali poi tutti possano convergere. E in questo grande gioco si inseriscono interessi distinti e non sempre linearmente convergenti, com’è naturale. Non era così complicato da capire.
Malgrado ciò, tutto nei fatti è molto complicato. Sul terreno, per via del fango, della stagione umida, dell’approntamento, contro i nuovi armamenti forniti a difesa di sovranità e libertà in Europa, di una linea Maginot russa fatta di mobilitazione degli effettivi molto estesa, di guerra wagneriana “per altri”, trinceramento difensivo a più strati, retoriche roboanti sulla estensione del conflitto, fino ai deliri nucleari affidati a un vicecapo della sicurezza nazionale, Medvedev, che usa un megafono appena meno gracchiante, ma non sempre, di quelli degli opinionisti apocalittici della tv di stato di Mosca. Qui si inserisce una telefonata tra Xi e Zelensky e, come concretizzazione del fatto nuovo, l’invio di un rappresentante cinese per l’area del conflitto, ex ambasciatore a Mosca, a partire da Kiyv. E’ la dimensione politica e diplomatica della guerra, tra conquiste territoriali, piani di liberazione dei territori occupati, confini labili di una prospettiva di logoramento a lungo termine.
A questa dimensione, che accompagna crudeltà dell’invasore e eroismo di chi si difende e contrattacca, gli elementi che fuor di retorica caratterizzano una guerra in corso, non si sfugge. La maturazione di un quadro negoziale serio ha i suoi tempi, è scandita da passi di cui si sa e altri di cui non si sa alcunché, si muove in un quadro geopolitico allargato le cui varianti sono molte più di quanto appaia in superficie e ovviamente non riguardano la sola Europa ma la coinvolgono in pieno. Le ansie pacifiste sono il retroterra in sé rispettabile di iniziative bolse e demagogiche e di idee genericamente disfattiste da parte di chi non sa letteralmente che pesci pigliare, e firma e marcia e mette avanti i Lula e altri pasticcioni del globo in mancanza di meglio.
L'editoriale dell'elefantino