Orrore Siria
Sauditi e russi assemblano i pezzi della grande riabilitazione di Assad
Il regime del dittatore siriano esporta rifugiati e anfetamine. I paesi vicini cercano una soluzione
Quando la settimana scorsa il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, è atterrato a Damasco, il mondo rovesciato in cui abitiamo ha preso ancora un’altra inclinazione. Era dal 2011, cioè da quando il rais di Damasco, Bashar el Assad, ha iniziato a bombardare il suo popolo ponendo fine con la violenza alla primavera del popolo siriano, che un funzionario saudita non metteva piede nella capitale. Nel 2012, durante il vertice degli Amici della Siria a Tunisi, i sauditi fecero pressioni sull’allora segretario di stato americano, Hillary Clinton, perché armasse l’opposizione siriana. Kim Ghattas, una giornalista libano-olandese che ha raccontato in articoli, servizi e libri il medio oriente, ha scritto sul Financial Times che era presente a quel vertice e che un delegato saudita le aveva detto che Assad era un occupante e che andava rimosso. “Allora i morti siriani erano diecimila – scrive la Ghattas – Da allora sono stati uccisi 500 mila siriani, soprattutto dal regime e dai suoi alleati, Iran e Russia. Altri 135 mila sono scomparsi negli scantinati assadisti, gli sfollati sono milioni. Assad rimane uguale a com’era e non mostra rimorsi”.
Perché allora i sauditi sono andati fino a Damasco a incontrare un Assad mostruosamente contento di questa visita di legittimazione? La Ghattas risponde secca: realpolitik, che è il flagello che si è abbattuto in dodici anni sul popolo siriano, sempre messo in secondo piano rispetto alla conservazione dello status quo – il grande obiettivo della dottrina realista – anche se lo status quo non garantiva la sicurezza di nessun paese della regione e altrove, ma soltanto la sopravvivenza di Assad. E infatti il dittatore siriano è sopravvissuto, ha trasformato il suo paese in un narco-stato, ha continuato con le torture, con le bombe, con le menzogne, aiutato dai suoi alleati, quell’Iran e quella Russia che pur in mezzo ai loro guai e alle loro guerre non gli hanno mai negato alcun appoggio. Di più: la repressione di Assad ha causato problemi che ora i paesi della regione non riescono a risolvere da soli ed è anche per questo che tornano a rivolgersi al dittatore di Damasco, che ha stretto il cerchio di lealtà attorno a sé – al centro del quale sta Asma, la first lady di Siria, che è la ceo del paese – e che ha reso ricchi tutti i suoi fedelissimi. Uno di questi problemi sono i rifugiati, che i paesi limitrofi vorrebbero far tornare in Siria, soprattutto i giordani, i libanesi e i turchi, ma hanno bisogno della cooperazione di Assad per farlo: ancora una volta, il fatto che il regime non dia alcuna garanzia di sicurezza ai siriani che dovrebbero rientrare (semmai l’esatto contrario) non è un elemento che pesa nel calcolo della straordinaria e sciagurata riabilitazione del dittatore siriano.
Un altro problema è il traffico di Captagon, l’anfetamina sintetica che è il prodotto di punta del regime di Damasco e che sta invadendo i paesi vicini, soprattutto Libano, Giordania e Arabia Saudita. Charles Lister, che lavora al Middle East Institute e che è un instancabile narratore dell’orrore del regime di Assad, appunta sul suo account Twitter i carichi di Captagon che vengono intercettati dalle autorità della regione: soltanto questa settimana a Gedda è arrivato un carico di pillole di anfetamina dentro a sacchetti di melograni per un valore (di rivendita) di circa 190-250 milioni di dollari; poche ore prima, le autorità emiratine avevano sequestrato un carico di circa tre milioni di pillole per un valore di 45-60 milioni di dollari. Sono anfetamine di produzione siriana e Lister sottolinea che, per la prima volta, i sauditi hanno cercato di nascondere il logo “Lexus” dal video del sequestro, cioè il marchio di fabbrica siriano. In sintesi: Assad esporta rifugiati e Captagon, i paesi della regione non riescono a gestirne il flusso e l’unico modo che hanno trovato per farlo è riaprire il dialogo con Assad.
Non è naturalmente secondaria, in questa storia di riabilitazione, la regia russa. Mosca è stata nell’ultimo decennio la meta privilegiata (nonché quasi l’unica al di fuori della Siria) di Assad e Vladimir Putin ha organizzato assieme all’Iran la sopravvivenza del regime siriano. Da ultimo ha coinvolto un interlocutore imprescindibile, cioè la Turchia – sì, quella Turchia che a ondate consideriamo una mediatrice credibile per il conflitto in Ucraina, quella Turchia che tiene in ostaggio anche la Nato, avendo allungato i tempi dell’ingresso della Finlandia e opponendosi ancora oggi a quello della Svezia – che si è ritrovata due giorni fa allo stesso tavolo con la delegazione proveniente dalla Siria, in un quadrilaterale a Mosca assieme all’Iran. In agenda c’era la fantomatica lotta al terrorismo – il presidente turco Erdogan ha più volte accusato Assad di essere alleato dello Stato islamico – e naturalmente il ritorno dei rifugiati, che è uno dei temi più dibattuti nella campagna elettorale turca (si vota il 14 maggio). Dai resoconti di questo vertice sembra che non sia stato deciso nulla, ma l’obiettivo non era certo quello di portare risultati concreti, bensì di mostrare il nuovo mondo che si sta assemblando: la Turchia si avvicina alla Siria, l’Arabia Saudita si avvicina all’Iran (grazie alla mediazione cinese) e anche alla Siria.
Il Wall Street Journal ha ribadito all’inizio della settimana che i jet militari russi volano pericolosamente vicini ai jet americani in Siria. Questo mostra “un crollo della professionalità dell’Aeronautica russa che non avevo mai visto prima”, ha detto il capo delle operazioni aeree americane nella regione. L’Amministrazione Biden dice di essere contraria alla legittimazione di Assad e l’Unione europea ha aggiunto nuove sanzioni agli esponenti siriani legati al traffico di Captagon, ma azioni diplomatiche decise per sottrarre pezzi al puzzle che stanno costruendo sauditi e russi in Siria non ci sono ancora state.