Storia e pregiudizi
Grand Hotel Taipei. L'anima di Taiwan vista dal suo albergo più lussuoso
Il racconto “dell’altra Cina” nei tetti scarlatti, negli ambienti da transatlantico e nei tunnel sotterranei per proteggere il presidente dai comunisti. Fra gigantismo e mitomania, lo spirito di un paese racchiuso fra le mura di un edificio
La leggenda vuole che un cliente un po’ pigro un giorno sia andato dal concierge e abbia chiamato un taxi, ma non alla volta del centro città, di uno dei night market che stanno là sotto, a Taipei, o del museo del Palazzo nazionale. No. Un taxi per la piscina. Dello stesso albergo. Dall’ingresso al padiglione accanto sono quasi cinquecento metri, vuoi mettere farsela a piedi? Per dire del Grand Hotel di Taipei si comincia, visivamente e mitologicamente, dal gigantismo. E dal lusso ostentato. In inglese si direbbe “lavish”, in mandarino non sappiamo, comunque da fuori il Grand Hotel di Taipei è un immenso casermone scarlatto, bruttino ma impressionante (più bello la notte, quando le luci ne fanno dardeggiare i mille angoli), kitsch e fastoso, splendidamente arroccato sulle prime pendici dello Yuanshan, a dominare in modo assurdamente remoto la capitale. Dal tetto spiovente a tegole gialle, prerogativa imperiale nei colori cinesi, stanno i dragoni (un’altra leggenda vuole che ce ne siano oltre 200 mila) appollaiati ovunque a mo’ di tanti gargoyle. Con i corridoi larghi abbastanza perché ci passi un’utilitaria, e soprattutto con le quasi cinquecento camere e la strabiliante altezza di 87 metri, per un decennio il Grand Hotel fu l’edificio più alto di Taipei, prima che la generazione dei grattacieli svettanti riempisse le cartoline dalla capitale taiwanese, nei Roaring Eighties.
E infatti appena metti piede in questo albergo, dove ci si ripara in un pomeriggio monsonico a cercare conforto e asciugatura dalle piogge, capisci che devi andare indietro, e rivedere uno dei tanti stereotipi taiwanesi. Perché tutto quello che trovi qui si colloca in un passato che è esteticamente strano, straniero, risalente a due decenni prima che sorgesse il racconto modernista e tecnologico delle “tigri asiatiche”, ben prima che Margaret Thatcher inserisse puntualmente le libertà economiche e le privatizzazioni del frenetico capitalismo di Hong Kong-Singapore-Taiwan nei suoi discorsi da premier – soprattutto molto, molto prima che si consolidasse in noi l’ennesimo orientalismo di comodo, quello contemporaneo: l’estremo oriente come luogo di velocità isterica e densità urbana e giovanissimi iperconnessi e incomprensioni culturali alla Lost in Translation, e tempi strettissimi e pasti consumati in piedi, per strada, in orari strani, e gente che dorme negli slum ma ha tre lauree e fa quattro lavori contemporaneamente. No. Al Grand Hotel il buffet di metà giornata è opulento e pacioso, al pianoforte è come se suonasse perpetuamente As Time Goes By e finalmente, mentre ammiri il rosso stupendo delle colonne (giganti anche loro) e di quel lampadario anch’esso a forma di drago – colore rosso che pervade ogni angolo e che corrisponde a un pantone specifico pensato per l’hotel – finalmente guadagni l’impressione di cominciare a intuire qualcosa dello spirito del tempo di Chiang Kai-shek.
Fu il generalissimo, leader di Taiwan dal 1949 al ’75 e del partito unico Kuomintang, a volere questo albergo nel 1952, e fu la moglie, la first lady Madame Chiang nata Soong Mei-ling, virago potentissima, implacabile, dotata di gran gusto, a pensarlo proprio qui, in collina, sul sito di un vecchio santuario scintoista dell’epoca della dominazione giapponese, in cima a un asse nord – sud che taglia la città, con il vecchio aeroporto di Songshan a metà strada: disposizione tipicamente coloniale, albergo fuori dal centro e vicino all’aeroporto, non si sa mai. Il ruolo del Grand Hotel rispetto a Taipei ricorda quello che intrattiene con Istanbul e con la sottostante stazione dell’Orient Express il Pera Palace, dove si sbronzava felicemente Ernest Hemingway ai bei tempi in cui gli occidentali si sentivano sacrosantamente a proprio agio per le vie della Turchia e tutto era fatto per la perdizione alcolica e mondana, o quello dei fantastici St. George’s e Le Bristol con Beirut: ancoraggio di sicurezza, isola di comodità e però anche fortezza securitaria. Ai coniugi dittatori l’albergo serviva infatti mica per noi poveri turisti comuni, ma per l’alta diplomazia. Per supplire alla drammatica mancanza in città, a fine anni quaranta cioè ai tempi della tumultuosa fuga dei nazionalisti in rotta da Nanchino sull’isola, di hotel di standard internazionale dove accogliere i vari ospiti di stato, Eisenhower, Reza Pahlavi, Nixon, Lee Kuan Yew, e poi Reagan, Thatcher, Nguyen Van Thieu. Per vent’anni buoni rimase chiuso al turismo commerciale e riservato in modo esclusivo all’accoglienza dei dignitari stranieri, complice la legge marziale. Il Grand Hotel di Taipei a fine anni Sessanta era nella lista dei migliori dieci alberghi del mondo secondo Fortune, con il Claridge’s e il Connaught di Londra, il Ritz di Parigi e il Mandarin di Hong Kong.
Oggi, non intasato di visitatori come il Coronado di San Diego, non stiffy e irregimentato come il Palace di Montreux, nel suo contrasto fantastico questo albergo dice molto della Guerra fredda: ambienti da transatlantico, ma struttura pensata per ogni eventualità. Per esempio un bombardamento dei comunisti dal continente. Prendiamo l’ascensorone e scendiamo al piano interrato, per scoprire che quelle sterminate sale oggi usate per ricevimenti sono anche un potenziale rifugio antiareo, in grado di accogliere in un solo spazio 7 mila persone. E mentre ci rincorrono le note del pianoforte, dietro una porta si apre... un tunnel. Scavato nella roccia in modo così brutale che ricorda le gallerie della Grande guerra sulle Dolomiti, e infatti subito chiediamo spiegazioni alla compitissima guida, tale Jennifer Lee (di lei si dirà meglio dopo). Certo, risponde, cosa sarebbe successo se il presidente, ormai anziano, si fosse trovato dentro l’albergo durante un attacco dei rossi? Gli uomini della sua guardia lo avrebbero fatto scappare attraverso il tunnel verso un luogo sicuro. Però il tunnel è molto ripido. Quindi... uno scivolo. Di roccia, lungo quasi cento metri, parallelo alle strette scale, ci compare davanti: l’idea era che Chiang Kai-shek vi si sedesse con una guardia davanti a sé e una dietro, per evitare scossoni. Un sandwich presidenziale. Un terzo bodyguard avrebbe aspettato il trio in fondo allo scivolo, a mo’ di ammortizzatore umano. La galleria sbuca dietro la collina, in mezzo alla giungla di Taipei, a pochi metri dal fiume e da una strada che poteva fungere da pista per elicotteri e perfino per piccoli aerei. Riparata da una parete di cemento armato progettata per resistere a un attacco missilistico, negli anni in cui questo pazzesco dispositivo di sicurezza era in funzione, la parete era coperta di rampicanti, invisibile agli occhi dunque, e tutto il tunnel era ovviamente segreto, perfino per i dipendenti dell’albergo. È tuttora di proprietà del ministero della Difesa taiwanese.
Usciamo a rivedere le stelle (più o meno). Ci si sofferma a guardare una foto d’epoca di Madame Chiang assisa sul prato della Casa Bianca con Eleanor Roosevelt: perfetta, tiratissima nello smanicato di shantung a fiori, colletto alla coreana. Madame Chiang che aveva studiato in America, Madame che parlava un inglese impeccabile, che non solo fece un accorato appello al Congresso degli Stati Uniti perché mandasse aiuti agli anticomunisti cinesi, seconda donna a parlare al Parlamento americano, ma che come ricorda nel bellissimo “L’isola sospesa” Stefano Pelaggi era anche una interprete efficiente, perfino imperiosa, per conto dello stesso marito presidente, il quale non parlava quasi una parola di inglese. E infatti un’intervista che gli fece Ettore Della Giovanna per Il Tempo, negli anni Cinquanta, uscì con un titolo molto ironico, “Intervista muta a Formosa”, perché durante l’intervista, avvenuta alla presenza di Madame Chiang, “il Generalissimo si espresse esclusivamente con suoni gutturali, perlopiù ah, ma anche qualche uh, che venivano tradotti in inglese dalla moglie in elaborati e complessi ragionamenti politici”.
Erano anni abbastanza gloriosi, in cui cose come la creazione da parte statunitense di un contenimento regionale in funzione anticinese ovvero l’alleanza Seato (sul modello della Nato), il periodico allegro cannoneggiamento delle coste cinesi dalle postazioni dell’esercito taiwanese sulle isole Kinmen e Matsu, o la visita a Taipei del presidente americano in carica Eisenhower, 1960, accolto da 500 mila taiwanesi festanti (le foto della marea umana che accoglie Ike sono qui, orgogliosamente in mostra, al primo piano del Grand Hotel) erano cose normali, espressioni disinvolte della proiezione di potenza americana nel suo massimo splendore, e non provocavano come accadrebbe oggi angosciate reazioni da apocalisse nucleare nelle tremebonde opinioni pubbliche occidentali. Quanto a Taiwan, era semplicemente un avamposto oceanico verso la riconquista, profetizzata come sicura fin dal titolo di un libro di Madame Chiang, da parte del Kuomintang di tutta la Cina. Lo possiamo chiamare, tutto questo, “andazzo”: una grande, incrollabile fiducia. L’anno d’oro taiwanese è il 1964, con il pil che registra un fantasmagorico +12,6 per cento (meglio perfino del boom italiano, che nel ’61 aveva segnato l’8,3). Dietro all’andazzo, beninteso, c’erano molte cose discutibili anzi orribili, prima la Formosa vessata dai vari colonizzatori, poi la sinizzazione forzata delle componenti hokkienesi e hakka, e i massacri del regime autoritario, e la repressione del dissenso: tutti argomenti fondamentali, ma che riguardano altri racconti. Qui si resta cristallizzati in un altro sentimento, al momento di salutare e ringraziare Jennifer che ci ha accompagnato nella visita: con lei, taiwanese sui sessantacinque, guida volontaria, borghese e gentile, preparatissima, inglese perfetto imparato negli Stati Uniti, succede qualcosa. È un po’ più che un congedo, è quasi un momento di commozione. Succede che la si identifichi, impettita e seria e disponibile e scrupolosa com’è, con l’operosità di tutta una nazione. Prima nell’emulazione culturale del Giappone, poi nella spinta impetuosa dell’imprenditoria, infine nella primavera dei diritti degli ultimi trent’anni, Taiwan è anche, come avviene nella vita degli individui, un gran tentativo di evolvere, di progredire, di migliorarsi.
Sempre Pelaggi racconta un aneddoto. In un discorso del 1960 Chiang Kai-shek raccontò l’episodio, risalente ai primi anni del secolo, quando si trovava in Giappone, di uno studente cinese che dopo aver sputato sul ponte di prua venne redarguito da un marinaio cinese: si trattava di un gesto, secondo il marinaio, che un giapponese non avrebbe mai osato fare. “Chiang ricordò l’episodio per sottolineare l’urgenza che provò, durante la permanenza in Giappone, di portare ‘un senso comune della vita moderna’ nella Cina imperiale”. La stessa urgenza che, ricorda Andrew Mango nella sua fantastica biografia di Atatürk, Mustafa Kemal mostrava verso i propri concittadini turchi vestiti ancora negli anni Venti con fez e turbanti, che rinchiudevano in casa le proprie mogli velate, quando sbottava contro di loro nei comizi pubblici: ma come, non vi vergognate? Non vi togliete quei lenzuoli? Non vi sbrigate a cambiare? E Chiang, di rimando: non la smettiamo di fare i cinesi secondo lo stereotipo che tutto il mondo ha di noi? Vista dal suo Grand Hotel, Taiwan è (anche) questo. Una strada alternativa, una storia diversa. Oscurati come siamo dal perenne racconto giornalistico e pamphlettistico che viene fatto dell’altra Cina, quella continentale comunista, ci si accorge di quanto poco spazio mentale avevamo concesso a quest’isola nazione.
Un’amica, grande conoscitrice del mondo cinese, ricorda a questo proposito la storia dell’acqua calda. “Uno dei temi preferiti degli autori occidentali che ‘spiegano la Cina’ ai lettori è come i cinesi continentali siano più saggi di noi, perché bevono l’acqua calda anziché fredda: vedete, hanno capito che l’acqua fredda fa male mente noi continuiamo a metterci ghiaccio. Peccato che la vera ragione sia che spesso nella Cina continentale l’acqua del rubinetto era, e ancora è, infetta o comunque non sicura. Quindi la fanno bollire. Solo che hanno sete. E allora la bevono quando è ancora tiepida. Ma vuoi mettere con il racconto del saggio cinese che a differenza di noi ha capito come funziona la fisiologia umana, senza passare per la povera medicina occidentale?”. È solo un esempio, forse il più corrivo, di come continuiamo a campare di un pregiudizio esotico. Quello della Cina troppo antropologicamente diversa da accettare così com’è, cioè come ce la spiegano gli spiegazionisti. “Smettiamola di imporre le nostre categorie, i cinesi non sono fatti per la democrazia liberale”, “il discorso occidentale dei diritti umani non va bene per loro, loro tengono molto di più all’armonia sociale che alla libertà”, eccetera. A forza di sentire queste cose ti chiedi: sarà mica vero? Poi leggi bei libri come quelli di Ilaria Maria Sala, di Giulia Pompili, della mitica Jan Morris su Hong Kong, eccetera. Poi, soprattutto, scopri Taiwan, paese ai primi posti delle classifiche mondiali per alternanza democratica, libertà della stampa, diritti umani, diritti civili, autonomia della magistratura, libertà economica, pluralismo e istruzione.
Aggiungiamo: un luogo imperfettissimo come ogni luogo, ma dove l’infanzia è tutelata con percorsi dedicati, dai musei ai parchi naturali, dove le librerie traboccano di lettori (veri), dove c’è un fiorente sottobosco editoriale, dove il passato autoritario viene (con fatica) discusso e rielaborato pubblicamente, dove si tengono manifestazioni per la legalizzazione della cannabis, però quando il corteo passa sotto le finestre dell’ospedale i manifestanti si tacciono civilmente per non disturbare i pazienti (è vero!, è successo il 15 aprile scorso), dove le conversazioni al bar, al ristorante, per strada, non sono piene di tabù e di argomenti “sensibili” che devi evitare istericamente. Dove la legislazione si è occupata decenni fa di mettere fuori legge il consumo di carne di animali domestici. Dove non si vede nessuno sputare per terra. Dove sì, c’è molta gente accalcata, ma nei night market non c’è l’impressione di un particolare rischio alimentare e igienico. Ma come? Non erano cinesi? Cioè popolati (sebbene con importanti minoranze) in prevalenza da Han, da discendenti in epoche diverse della Cina continentale? Così, in un pomeriggio al Grand Hotel, viene giù di un colpo, con gran sollievo, la cortina fumogena sulla “differenza cinese”. Taiwan è la differenza cinese. Meglio, è una differenza cinese. Una verità così banale, va avanti da 74 anni, eppure ancora molti possono ancora scrivere e parlare come se la “Cina” fosse solo una. Quell’altra. Fino a che punto tutto questo è solo errore, misunderstanding, innamoramento in buona fede dell’oggetto dei propri studi (ah, il confucianesimo…!), e dove comincia il dolo? Vai a saperlo. Intanto ci resta un’impressione fantastica: che i funzionari del Pcc, a Pechino, di fronte allo spiegazionista occidentale di turno che invita a “capire” la Cina e così occulta Taiwan allo sprovveduto ascoltatore italiano, si facciano delle grandi risate. Come gli alieni di Mars Attacks! di Tim Burton, mentre Pierce Brosnan proclama: io li ho capiti, ascoltate a me, vengono in pace.