Il discorso
Mercati, sicurezza, ambiente. Gran manifesto del consigliere di Biden
L’ambientalismo utopista è un pericolo per la sicurezza nazionale. Il più importante discorso politico di cui non avete ancora sentito parlare è stato pronunciato la scorsa settimana a Washington da Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti
Make Globalization Great Again. Il più importante discorso politico di cui non avete ancora sentito parlare è stato pronunciato la scorsa settimana a Washington da Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti. I ragionamenti di Sullivan non possono certo competere, quanto a interesse e profondità di analisi, con le sofisticate argomentazioni geopolitiche offerte dal fisico Carlo Rovelli dal palco del Primo maggio (per difendere la libertà del mondo non bisogna difendere chi viene aggredito: non fa una piega, come direbbero a Roma), ma nonostante questo meritano ugualmente di essere passati in rassegna per una ragione semplice e dirompente. Le parole di Sullivan indicano le coordinate di un mondo nuovo, ridisegnano i confini della globalizzazione, rivoluzionano il perimetro del libero mercato, ridefiniscono in modo dirompente il rapporto tra tutela dell’ambiente e tutela della crescita e offrono indicazioni preziose per ragionare attorno a un tema cruciale: come costruire nuove norme che consentano all’occidente di affrontare le sfide poste dall’incrocio fra tecnologia avanzata e sicurezza nazionale senza ostacolare la promozione del commercio, la crescita dell’innovazione, la lotta contro le diseguaglianze e la difesa della libertà.
Il primo punto affrontato da Sullivan, che da mesi può essere ormai considerato come il consigliere più influente nello staff di Joe Biden, riguarda la necessità, da parte delle società aperte, di “costruire un ordine economico globale più equo e duraturo, a vantaggio di noi stessi e delle persone di tutto il mondo”. Per farlo, dice Sullivan, occorre ammettere che il vecchio presupposto che ha guidato per anni la politica economica americana, l’idea cioè che vi siano “mercati che allocano sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che facevano i paesi concorrenti”, è un’idea che merita di essere ridiscussa. Gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni, scrive Sullivan, si era basata su una tripla premessa: l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo e portare i paesi culturalmente distanti dall’occidente all’interno di questo ordine li avrebbe incentivati ad aderire alle sue regole. Non è andata così. In alcuni casi è successo, dice Sullivan, in molti casi no. La Repubblica popolare cinese, per esempio, “ha continuato a sovvenzionare su vasta scala sia i settori industriali tradizionali, come l’acciaio, sia le industrie chiave del futuro, come l’energia pulita, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate”. In questo senso, “l’America non ha perso solo la produzione, ma ha visto erodere la propria competitività proprio in quelle tecnologie critiche che andranno a definire il nostro futuro”. E per di più, l’integrazione economica, come è evidente, “non ha impedito alla Cina di espandere le sue ambizioni militari nella regione, né ha impedito alla Russia di invadere i suoi vicini democratici”. Purtroppo, nota ancora Sullivan, nessuno dei due paesi è diventato più responsabile o collaborativo. E purtroppo, ignorare le dipendenze economiche che si erano accumulate nei decenni di liberalizzazione è stato un atto pericoloso.
Pensate all’incertezza energetica in Europa. Pensate alle vulnerabilità della catena di approvvigionamento di apparecchiature mediche. Pensate ai semiconduttori e ai minerali critici. Ciascuna di queste dipendenze può essere sfruttata contro gli interessi delle società aperte. Ciascuna di queste dipendenze può avere un riflesso non solo economico ma anche geopolitico. E per essere protagonisti nel nuovo mondo, dice ancora il consigliere di Biden, occorre garantire che “le catene di approvvigionamento del futuro siano resilienti, sicure e riflettano i nostri valori”. Sullivan, per entrare nel dettaglio, fa un esempio ancora più concreto che riguarda un mondo che meriterebbe di essere trattato in modo meno utopistico in una stagione in cui l’obiettivo dell’America deve essere quello di scommettere sulla creazione di catene di approvvigionamento diversificate e resilienti: la transizione ambientale. Le catene di approvvigionamento legate all’universo dell’energia pulita sono da questo punto di vista un esempio perfetto di quanto alcuni settori, dice ancora Sullivan, possano essere “utilizzati come armi allo stesso modo del petrolio negli anni 70 o del gas naturale in Europa nel 2022”. Gli Stati Uniti, tanto per capirci, producono solo il 4 per cento del litio, il 13 per cento del cobalto, lo 0 per cento del nichel e lo 0 per cento della grafite necessari per soddisfare l’attuale domanda di veicoli elettrici.
Le strategie di investimento che funzionano, anche quando si parla di energia pulita, aggiunge Sullivan, devono contribuire a rafforzare la sicurezza nazionale di un paese, devono aiutare a creare un’economia sicura e devono essere finalizzate “alla creazione di innovazione, all’abbattimento dei costi, alla creazione di buoni posti di lavoro”. La ridefinizione del rapporto con la Cina, dice Sullivan in modo poco ideologico, passa prima di tutto da qui: non dalla volontà di trasformare la Cina in un avversario strategico, ma nella volontà di evitare che paesi come la Cina possano utilizzare come arma di ricatto un vantaggio competitivo in alcuni settori strategici. Il nostro compito, dice ancora Sullivan, è quello di “inaugurare una nuova ondata della rivoluzione digitale, che garantisca che le tecnologie di prossima generazione funzionino a favore, non contro, le nostre democrazie e la nostra sicurezza”, che permetta di rafforzare collaborazioni strutturate sui semiconduttori con partner come “Europa, Repubblica di Corea, Giappone, Taiwan e India” e che aiuti l’occidente, e l’America in primis, “a mobilitare migliaia di miliardi di investimenti nelle economie emergenti”, anche provando a competere con i finanziamenti forniti dalla Belt and Road Initiative cinese con i progetti contenuti nell’ambito del Pgii (Partnership for Global Infrastructure and Investment) che a differenza di quelli cinesi “sono trasparenti e di alto livello e al servizio di una crescita a lungo termine, inclusiva e sostenibile”. “I nostri controlli sulle esportazioni con la Cina – nota ancora Sullivan, nel discorso pronunciato il 27 aprile alla Brookings Institution – rimarranno strettamente concentrati sulla tecnologia che potrebbe ribaltare l’equilibrio militare. Non stiamo interrompendo il commercio ma stiamo semplicemente assicurando che la tecnologia statunitense e alleata non venga usata contro di noi. D’altronde, gli Stati Uniti continuano ad avere rapporti commerciali e di investimento molto consistenti con la Cina: il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina ha stabilito un nuovo record lo scorso anno e stiamo cercando di gestire la concorrenza in modo responsabile e cerchiamo di collaborare con la Cina dove possibile”. Il motore dell’economia futura, dice in sostanza Sullivan, non è più il libero scambio ma è la sicurezza nazionale. E per poter essere al passo con le sfide del presente, e sostenere fino in fondo la riscossa della middle class, tema su cui Sullivan punta molto, occorre seguire tre strade precise: maggiore sovranità tecnologica, nuova competitività industriale meno utopismo ambientale. Make Globalization Great Again.
L'editoriale dell'elefantino