La Guerra congelata
Pechino non vuole fermare Putin ma punta a un conflitto “a bassa intensità”
I messaggi contraddittori di Xi, il voto all’Onu e i segnali per capire l’intervento pro Russia. Lo spostamento della posizione della Cina è minimo, ma può essere comunque un messaggio
Il 26 aprile scorso – cioè nello stesso giorno della prima telefonata tra il leader cinese Xi Jinping e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sin dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia – all’Assemblea generale della Nazioni Unite, Pechino mandava un segnale di freddezza nei confronti di Mosca. Repubblica popolare cinese, Kazakistan e Turchia hanno infatti votato a favore di una risoluzione che chiede più collaborazione tra Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa, e nel cui testo si fa esplicito riferimento “all’aggressione della Russia contro l’Ucraina”. Fino alla scorsa settimana, la Cina e un altro piccolissimo gruppo di paesi – la Bielorussia, la Corea del nord, la Siria, il Nicaragua – hanno sempre cercato di difendere Mosca dalle responsabilità della guerra, soprattutto in sede Onu.
Nel voto di quella risoluzione però, che non è vincolante per i paesi membri nemmeno se adottata con la larghissima maggioranza di 122 voti a favore, Pechino è stata quasi costretta a dare parere favorevole, perché nelle stesse ore si andava organizzando la telefonata tra Xi Jinping con Zelensky nel tentativo di mostrare ancora una volta il ruolo dialogante della potenza cinese – da contrapporre a quello che “getta benzina sul fuoco” americano. Una parte, non la più importante del testo, dice che i paesi riconoscono “le sfide senza precedenti che l’Europa si trova ad affrontare in seguito all’aggressione della Federazione russa contro l’Ucraina, e prima ancora contro la Georgia”, e la cooperazione rafforzata tra Onu e Consiglio d’Europa deve avvenire per mantenere “la pace e la sicurezza basate sul rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di qualsiasi stato”, un’espressione retorica in realtà molto cara e spesso ripetuta dalla leadership cinese. Come ha notato su Twitter lo storico Sergey Radchenko, lo spostamento della posizione della Cina è minimo, e avviene con una risoluzione che non ha al centro l’Ucraina, ma può essere un messaggio.
Interpretare i segnali politici contrastanti che manda Pechino è un esercizio difficile. Nella politica estera della Cina la Russia resta un partner fondamentale: la visita di Xi Jinping a Mosca e poi quella più recente del ministro della Difesa Li Shangfu lo dimostrano. Ed è altrettanto chiara la strategia cinese di sicurezza e interesse nazionale, rivendicata dallo stesso Xi durante un discorso all’ultima Assemblea nazionale del popolo, che si combina con la necessità di tornare a crescere economicamente in un mondo il più possibile globalizzato. Dopo la telefonata con Zelensky, Pechino ha annunciato la nomina di un “inviato speciale per la crisi in Ucraina”, e sempre il 26 aprile scorso il ministero degli Esteri cinese ha confermato che sarà Li Hui, ex ambasciatore cinese a Mosca dal 2009 al 2019 – cioè gli anni di maggiore crescita delle relazioni tra i due paesi – e da quattro anni inviato speciale per gli affari eurasiatici. Li, diplomatico di carriera, ha “dedicato la sua vita alle relazioni tra Unione sovietica e poi Russia e Cina”, ha scritto in un suo ritratto il South China Morning Post, parla russo, e nel 2019 è stato insignito da Putin dell’Ordine dell’amicizia.
Secondo sempre più analisti, a questo punto della guerra in Ucraina, la Cina potrebbe essere interessata a negoziare, e non a mediare, un “congelamento” del conflitto. Certo la controffensiva ucraina spaventa Mosca, che potrebbe aver accettato la negoziazione di Pechino per prendere tempo, ma è soprattutto la leadership cinese a guadagnare da un eventuale accordo raggiunto facendo pressioni sulla Russia. La trasformazione di Pechino nel “garante” pro-Russia di una eventuale sospensione del conflitto farebbe aumentare la credibilità della reputazione della Cina come potenza responsabile di pace, soprattutto tra i paesi del Sud globale.
Non solo. La situazione sembra sempre più simile alla fine del conflitto in Corea del 1953: l’unico conflitto in cui America e Cina furono sui fronti opposti di una guerra. All’epoca fu proprio l’Unione sovietica a trattare per l’armistizio – e il congelamento di una guerra che tecnicamente va avanti fino a oggi, visto che non è stato mai trasformato in un trattato di pace – tra le Coree e i loro sponsor, da un lato la Cina e dall’altro l’America. Mosca ottenne un cessate il fuoco che poi si trasformò in un armistizio, e di fatto il congelamento di una guerra con due blocchi di tensione su cui poteva esercitare un potere di grande influenza. “Il modo migliore per Pechino di ricostruire la propria reputazione in Europa sarebbe quello di svolgere un ruolo visibile e positivo nel porre fine alla guerra”, ha scritto l’altro ieri sul Financial Times Gideon Rachman. “Una mossa del genere avrebbe anche un impatto globale, sostenendo la narrazione preferita da Xi secondo cui la potenza americana è in ritirata e la Cina è una forza di pace”. Se e quanto l’alleanza occidentale vorrà fidarsi della Cina, e di quel che gli chiederà in cambio, forse lo sapremo solo dopo il G7 di Hiroshima, quando si parlerà anche di questo.