un libico a Roma
Haftar promette a Meloni di fermare i migranti, ma è un bluff
Dopo le 10 mila partenze quest'anno solo dalla Cirenaica, il generale libico incontra la premier a Palazzo Chigi e le assicura di fermare i flussi. Peccato che non può (e non vuole) farlo davvero
Giorgia Meloni e Khalifa Haftar avrebbero dovuto incontrarsi già lo scorso 28 gennaio, in occasione della visita della delegazione italiana a Tripoli. Poi valutazioni di opportunità politica avevano dissuaso la premier dal recarsi a Bengasi, quartier generale di Haftar, che aveva accolto con un certo risentimento il diniego di Meloni. Gli sono serviti altre tre mesi, ma alla fine l’incontro c’è stato. Con un viaggio a sorpresa a Roma, il generale della Cirenaica ha incontrato il ministro degli Esteri Antonio Tajani nella serata di mercoledì, per poi recarsi a Palazzo Chigi il giorno successivo dove è stato accolto da Meloni.
Fra il diniego di gennaio e l’incontro di oggi ci sono di mezzo gli ultimi dati del Viminale sulle partenze dei migranti: dall’inizio dell’anno, delle 16.637 persone partite dalla Libia e arrivate in Italia, circa 10 mila sono salpate dall’est del paese controllato da Haftar. Si spiega così il cambio della strategia italiana: ignorare il generale non paga e lui, in fondo, non chiede troppo: “Ciò che desidera, ancora più dei soldi, è essere considerato un interlocutore, sedere ai tavoli giusti”, spiega al Foglio una fonte informata sugli interessi del clan Haftar in Libia ma che preferisce restare anonima. E’ successo anche nel 2020, con i pescatori italiani di Mazara del Vallo catturati dal generale e detenuti per oltre 100 giorni. Finì con l’allora premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio costretti a volare a Bengasi in visita ufficiale a stringergli la mano per ottenere la liberazione dei 18 pescatori. Insomma, con Meloni il centro della discussione di oggi non era tanto la possibilità o no di siglare un accordo nero su bianco, una specie di nuovo memorandum sui migranti come quello concluso nel 2017 dall’Italia con il governo di Tripoli. Per Haftar il vero successo diplomatico è il vertice stesso. Per Meloni invece consiste nell’avere un po’ di respiro sul fronte degli arrivi. Entro la fine dell’anno si rischia di toccare quota 200 mila sbarcati, in linea con gli anni peggiori della crisi migratoria. “All’Italia per ora basta impedire che il picco delle partenze continui a crescere. Anche solo un rallentamento potrebbe essere rivenduto da Meloni come un successo”, spiega al Foglio Jalel Harchaoui, ricercatore del Royal United Services Institute.
Per questo, la premier vuole garantire il suo sostegno a Kais Saied in Tunisia – primo paese per partenze, con un incremento di oltre il 1.000 per cento rispetto al 2022 – e ora ad Haftar. Poco importa se il primo è accusato di una deriva autoritaria e il secondo è stato condannato da un tribunale americano per crimini di guerra ed è sostenuto da Vladimir Putin. “L’Italia non è la prima a dialogare con Haftar, l’hanno fatto anche gli Stati Uniti”, spiega Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group. “Il punto è sapere se nel dialogo con il generale l’Italia si coordina con gli alleati occidentali, magari chiedendo il ritiro della Wagner o un’accelerazione nel processo di pace del paese, o se invece parla solamente di migranti”.
Ma la tenuta di questo “asse dei dittatori” plasmato dall’Italia in Nord Africa per esternalizzare il controllo delle frontiere è dubbia. In Cirenaica manca un incentivo da parte della famiglia Haftar – intesa come Khalifa e i suoi figli Belgacem e Saddam – a mettere fine alle partenze. “L’immigrazione è un business che non abbandoneranno. Se lo facessero – dice Harchaoui – si priverebbero di una leva politica. Forse Haftar ridurrà i flussi, ma li manterrà vivi per non tornare a essere ignorato dall’Italia”.
C’è poi un altro cortocircuito e riguarda l’opportunità di stringere accordi con chi è direttamente coinvolto nel business dell’immigrazione. “Daremo la caccia ai trafficanti di esseri umani in tutto il globo terraqueo”, era stato il proposito ambizioso annunciato da Meloni con un’ormai celebre iperbole dopo la strage di Cutro. Ma proprio Saddam Haftar, figlio del generale, è sospettato di gestire le partenze dalla Cirenaica, con la collaborazione di milizie sudanesi. Delle due una: o Haftar controlla i traffici oppure non controlla il territorio, al punto da essere all’oscuro di chi li gestisce. In entrambi i casi sarebbe grave. “Buona parte delle attività più oscure di Saddam, come il traffico di esseri umani, quello del Captagon o le sue relazioni con i mercenari russi della Wagner, non sono controllate da suo padre”, spiega ancora Harchaoui. “Se l’Italia crede che dopo avere raggiunto un’intesa a Roma Haftar sia in grado di imporla a tutti una volta tornato a Bengasi è fuori strada”.