Uno sguardo obliquo su Carlo, riservato e distante
A Londra, ma non per l’incoronazione. La città, bloccata, resta viva e offre terreno fertile per la follia, la conoscenza e il sapere
E’venerdì mattina presto e sono a Linate in attesa del primo volo per Londra. Come Riccardo Cuor di Leone, combatto la mia battaglia contro il sonno, quando noto una signora che mi fissa. “Si ricorda di me? La colonscopia. Le. Ho. Fatto. La. Colonscopia” scandisce. Ci metto un po’ a riconoscere la dottoressa Cavestro, gastroenterologa al San Raffaele, senza la sua sonda arturiana. Anni prima, proprio al San Raffaele, avevo girato con lei un segmento per un mio fortunato programma Banijai, Secondo Costa. “Dovrebbe rifarla” mi dice. La fisso come un cervo e mi chiedo cosa avrà scoperto nella mia banca dati biologica? Problemi di salute? O, peggio, il destino vuole punirmi finanziariamente? “Sono passati cinque anni” mi rassicura. “E’ ora di tornare per un controllo.”
Non mi accorgo più del tempo che passa. A vent’anni vivevo a Londra ed ero felice. Nell’estate del 1997, la morte di Diana non mi sconvolse più di tanto. Eravamo nel pieno della Cool Britannia e non compresi del tutto le conseguenze che quel tragico incidente avrebbe avuto sugli inglesi, ma intuii che si stava alzando un’ondata di populismo. L’aria era carica di risentimento. Il funerale avrebbe dovuto tenersi in forma privata, ma la gente non lo avrebbe mai accettato: la regina Elisabetta tornò dalle vacanze per le esequie pubbliche della ex nuora. La notte prima, migliaia di persone si accamparono per le vie del centro: volevano assicurarsi un posto con buona visuale su feretro e processione. Vivevo proprio da quelle parti, c’era un’atmosfera così inquietante che fuggii a ovest, oltre Kensington, in una zona che allora non attirava i giovani rampanti, ma nota per la comunità giamaicana che era stata spinta fuori dalla costosa Notting Hill: Shepherd’s Bush.
Per ironia del destino, oggi torno a Londra – non tanto per Carlo, ma per l’amica Kirstin che ha portato sua madre Deborah dalla Florida a fare un giro al fresco – e sono di nuovo a Shepherd’s Bush. Nel pomeriggio vado a Bloomsbury. Ai tempi della Thatcher (e ai miei) era un posto per turisti un po’ sfigati e per gli omosessuali che di notte gravitavano attorno a Russell Square. Ora è molto chic, come agli inizi del ‘900, quando ci vivevano Virginia Woolf e Lenin. Lì vicino c’è Nepenthes, un sottovalutato negozio per connoisseurs. Ci vado per prendere un paio di zoccoli per Ross, e per strada noto le foto di Carlo. Il centro è bloccato come ai tempi del funerale di Diana e la città è piena di curiosi, ma l’atmosfera è diversa. Non c’è aria di sommossa o di cambiamento. L’esatto opposto: si avverte una sensazione di ordine. Eppure la città resta viva, offre terreno fertile per la follia, la conoscenza e il sapere.
Basta allontanarsi di poco dall’Abbazia di Westminster, teatro dell’incoronazione di Carlo III, per imbattersi nei veri luoghi della storia londinese: il laboratorio del King’s College dove si effettuarono esperimenti cruciali per la scoperta del Dna o le stanze dalle quali di notte Churchill ubriaco lanciava ordini che salvarono l’Europa. Tutte cose che con i Windsor non hanno nulla a che fare.
La sera vado a un fundraiser per coprire le spese legali e mediche di Neil Hagerty: un artista americano che, nonostante l’importanza della sua musica, vive in condizioni piuttosto precarie. Siamo in pochissimi: oltre ad Alexis Taylor degli Hot Chip che ha organizzato il dopocena, ci sono giusto Kirstin con sua madre, Bobby Gillespie, un promoter e un sassofonista. Questa è l’unica versione di quasi-monarchia che mi sento di appoggiare: un pugno di persone rinchiuse in uno stanzino per soccorrere un grande talento, un musicista di rilievo tra fine ‘80 e primi 2000, oggi abbandonato a sé stesso. La dimostrazione concreta che uno non vale uno, che poche persone in gamba possono fare la differenza. Del resto, se fosse per la maggioranza del pubblico consumatore, penseremmo sollo alle scarpe da ginnastica, certo non a Sokurov.
Sabato mi sveglio mentre la città è travolta dall’incoronazione di Carlo III. Ho quasi dell’empatia: è riservato e distante, sarà dura per lui lanciarsi nella “battaglia quotidiana” con l’opinione pubblica. Sì, perché i reali inglesi sono una famiglia testimonial, il sorriso e la tenuta sono le uniche arma che possono usare in battaglia. Se vogliono vivere tranquilli, devono sorridere e salutare senza sosta. E in questo gioco Kate Middleton è la campionessa. E’ perfetta con la gente, conosce i nomi di tutti, sa come si chiamano i fotografi ed è al corrente della lombosciatalgia che affligge la zia della sua dogsitter. Tutti l’adorano, dentro e fuori la corte. La Bbc non fa altro che chiedersi cosa indosserà all’incoronazione. Kate sa che il cerimoniale è un lavoro: ogni sua mossa sarà giudicata dal pubblico pagante.
Hobbes ci aveva visto lungo nel Leviatano. Quando il capo di stato sta bene gli alberi fioriscono, quando sta male l’economia va a puttane. Per lui il sovrano supremo rappresentava il governo che tutto controlla. Ma chi vive in una repubblica parlamentare sa bene che oggi un monarca è un canary in the coal mine: se si lascia controllare dall’opinione pubblica, chi controlla l’opinione pubblica? Se un sovrano è “schiavo” del pubblico scrutinio, è schiavo anche il cittadino che si illude di essere arbitro morale del sovrano stesso. Perché in un sistema in cui siamo tutti Michael Jackson (grazie ai social ci siamo condannati alla vita pubblica) il nostro privato diventa il nostro curriculum. Il Leviatano è al guinzaglio della dittatura del consenso, ma forse anche noi che crediamo di essere fuori dal gioco dei sorrisi di Kate siamo vittime della stessa forma di controllo.
Elisabetta ha usato tutta la forza della sua diplomazia per tenersi fuori dall’arena pubblica senza rinunciare a influire sull’azione di governo. Negli ultimi anni del suo regno ha trattenuto a fatica la disapprovazione per lo stato delle cose, esprimendo tra i denti quello che i progressisti storici inglesi dicono a gran voce: solo un governo grande e forte può tutelare l’individuo. E poco conta se il governo si presenta con le fattezze di una principessa conservatrice privilegiata o quelle di un gruppo di amici che corre in aiuto di un musicista malato e spaventato che è nei guai con la giustizia americana.
Per anni ho pensato che forse la Thatcher faceva bene a seguire le idee di Nozick: il governo dovrebbe interferire il meno possibile con l’individuo. Questo weekend londinese mi ha fatto ricredere. Tutta quella polizia che oggi presidia il centro di Londra non basta a sconfiggere la paura di Re Carlo né quella dei suoi sudditi. E neanche la nostra.