Verso il voto
I timori della diaspora turca in Germania e il fascino per il sultano
Non sono solo i residenti in Turchia a votare alle elezioni: un grande bacino di voto arriva dall'Europa. Soprattutto Germania, dove risiede la più numerosa tra le comunità turche emigrate. E che subisce la forte personalità di Erdogan
C’è un nuovo attore delle elezioni del 14 maggio in Turchia che ha deciso di far sentire la propria voce: la diaspora turca. Non tutti i 64,1 milioni di elettori risiedono in patria: 3,4 milioni, oltre il 5 per cento, vive all’estero e con 1,5 milioni di aventi diritto la Germania è il paese che ospita la più grande comunità di turchi emigrati. Secondo l’Institut für Turkistik dell’Università di Duisburg-Essen, questa volta hanno votato in 642.000, il 19 per cento di più del 2018, un aumento riscontrato nelle lunghe code attorno ai consolati turchi nella Repubblica federale. Cinque anni fa Erdogan fu eletto con il 52,6 per cento dei voti ma in Germania “il sultano” fu scelto dal 64,8 per cento degli elettori. Un plebiscito.
Per capire meglio come la Turchia si prepari al voto, il Foglio ha partecipato a un incontro a Berlino con cinque deputati: due legati alla Turchia per passione politica e tre figli di Gastarbeiter turchi in Germania. Divisi per militanza partitica, i cinque parlamentari sono accomunati da un sentimento di apprensione per le elezioni. Nessuno dà per scontato l’esito del voto. Solo il socialdemocratico Macit Karaahmetoğlu, nato a Rize sul Mar Nero e immigrato in Germania da bambino, profetizza la sconfitta dell’Akp, il partito di Erdogan, alle legislative ma considera aperta la partita delle presidenziali. La parola d’ordine fra tutti è non dare indicazioni di voto. Lo spiega Serap Güler (Cdu), nata a Marl in regione renana, figlia di un minatore e di una collaboratrice domestica: “Non vogliamo essere strumentalizzati dalla macchina della propaganda turca”. Più che essere additati da Ankara quali “putschisti dall’estero”, il timore è quello di essere testimoni di un brutto finale dell’esercizio democratico, con una parte che non riconosca la vittoria dell’altra.
E’ già successo nel 2019 quando a Istanbul, 15 milioni di abitanti, il candidato sindaco dell’Akp perse di misura contro il progressista Ekrem Imamoglu. Il governo impose la ripetizione del voto e Imamoglu finì per vincere a valanga. Ates Gürpinar della Linke, nato a Darmstadt nel 1984, teme che il governo cerchi di prevenire una sconfitta rendendo le operazioni di voto più difficili nei distretti dove i sondaggi sono contro l’Akp. “Io ho la doppia cittadinanza e ho votato al consolato”.
Concordia trasversale su un altro punto: il più temibile avversario di Erdogan oggi non è Kemal Kilicdaroglu ma la crisi economica. L’inflazione galoppante ha distrutto la crescita, ovvero il senso di riscatto cresciuto in anni recenti. Se ne sono accorti i turchi in Turchia ma anche quelli all’estero, con le rimesse alle famiglie che non bastavano più. Ma chi crede che la mobilitazione della diaspora sia tutta contro il sultano si illude. I sondaggi dicono che i giovani in Turchia sono più laici dei loro genitori e largamente contro l’Akp ma lo stesso non si può dire dei loro fratelli in Germania. Anzi. I turchi tedeschi si sentono ancora discriminati e subiscono il fascino di un Erdogan che non hai mai avuto paura di alzare la voce con l’Ue, che ha arricchito il paese, che ha lanciato la prima auto elettrica made in Turkey. Il sultano è un uomo fiero, che non si deve nascondere, e questo piace. Tanto più che chi lo vota da lontano ne subisce il fascino ma non la repressione. “Che in tanti vivano la democrazia qua ma poi non la scelgano là ci deve interrogare”, osserva il verde Max Lucks, presidente del gruppo parlamentare turco-tedesco. Se comuni sono le preoccupazioni riguardo all’oggi, comune è anche l’approccio con la Turchia di domani. I parlamentari chiedono che una Turchia più democratica sia subito riportata in un’orbita europea con due misure: la liberalizzazione dei visti e l’aggiornamento dell’unione doganale con l’Ue. E ancora serve l’aiuto europeo per ricostruire i distretti terremotati ma soprattutto per trovare una sistemazione per i 4 milioni di profughi siriani che un paese travolto dall’inflazione (al 50,5 per cento a marzo e “solo” al 43.7 per cento ad aprile) non vuole più mantenere.