Reportage
La guerra dei due cretini. Così il Sudan è passato dalla primavera al caos
Hemedti vuole strappare il potere a Buhran, Burhan vuole tenerselo stretto, i sudanesi vorrebbero veder sparire entrambi. La comunità internazionale ha puntato su di loro perché sembrava la scelta più pratica
Nel deserto al confine tra l’Egitto e il Sudan i ragazzi che hanno rovesciato la dittatura di Bashir oggi arrivano in fuga dalla guerra tra due generali senza popolo. Al resto del mondo dicono: avete di fronte una crisi contagiosa che state ignorando a vostro pericolo. Reportage
Confine Egitto-Sudan, dalla nostra inviata. “I due cretini hanno bombardato subito le cose importanti. Il 15 aprile, quando è cominciata la guerra, hanno distrutto l’impianto di purificazione dell’acqua – in un paese come il nostro, che per la maggior parte è un deserto. Dava da bere a tre milioni di sudanesi e ora è in pezzi. Poi hanno pensato bene di sparare con i cannoni contro il mercato all’ingrosso del grano in Darfur”, sospira Walid Ahmed, che sta seduto su un letto, guarda in basso, con una mano si tiene la fronte e con l’altra stringe il polso di sua moglie. Quel giorno al mercato del Darfur è andato a fuoco quasi l’intero raccolto di un territorio grande quanto la Francia.
Ahmed, proprietario di alcuni ristoranti, quando spiega la situazione che ha appena lasciato usa aneddoti personali, esempi e dati. “I due cretini” è il modo con cui chiama i generali che si fanno la guerra in Sudan. Il primo è Abdel Fattah Abdelrahman Burhan – 63 anni, famoso perché si impappina quando parla in pubblico, da due anni si comporta come il presidente di fatto ed è la reincarnazione senza carisma del dittatore Omar al Bashir. L’altro è Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemedti”, 48 anni, capo delle cosiddette Forze di supporto rapido (conosciute con la sigla inglese Rsf), un’armata di paramilitari e la versione aggiornata della milizia Janjaweed che si è fatta conoscere per i massacri in Darfur. “Il mondo si è distratto in Sudan e non è stata una scelta furba. Ha rimandato la soluzione di un problema affrontabile e tutto sommato circoscritto e adesso deve fare i conti con uno più grande, potenzialmente contagioso – perché può destabilizzare il resto della regione africana – e non più rinviabile”.
Ahmed è uno dei cinquantamila sudanesi che hanno comprato un biglietto del pullman per settecento dollari e sono scappati a nord verso l’Egitto nelle ultime quattro settimane, da quando le Rsf del generale Hemedti hanno cominciato a saccheggiare i mercati e le case mentre l’esercito di Burhan le bombardava dal cielo. Il 15 aprile gli uomini di Hemedti avevano preso d’assalto a sorpresa il palazzo presidenziale e per poco non ammazzavano Burhan, che era stato costretto a imbracciare un fucile anche lui per salvarsi. Hemedti vuole strappare il potere a Buhran, Burhan vuole tenerselo stretto, i sudanesi sono rimasti presi in mezzo e vorrebbero veder sparire entrambi.
Ahmed è anche uno dei tanti cittadini di Khartoum che ricorda agli stranieri che in Sudan si sono fatti fregare. I generali saranno due cretini, ma quando è stato il momento di trattare a livello internazionale hanno ingannato le potenze mondiali: “Quando la rivoluzione civile ha cacciato il regime quattro anni fa abbiamo visto intervenire la comunità internazionale e abbiamo sperato molto. La comunità internazionale ha fatto qualche tentativo non troppo approfondito per sostenere il passaggio alla democrazia come chiedevano i manifestanti, ma dopo poco ha perso la pazienza e la concentrazione, c’erano altre emergenze, come la pandemia. Ha puntato sui generali perché sembravano la scelta più pratica, ha rimandato la questione della libertà dei sudanesi pensando che il potere militare intanto fosse in grado di tutelare almeno la stabilità”.
Era il momento buono, la svolta da afferrare al volo, l’occasione che si presenta soltanto una volta ogni molti anni. Quando però si è arrivati al punto di prendere una decisione, gli stranieri non si sono fidati e hanno lasciato le cose in mano ai due generali, con la consapevolezza che i militari non avrebbero promosso riforme costituzionali di rigore ma con la promessa implicita che almeno avrebbero garantito anni di tranquillità.
Invece i militari hanno portato la guerra fin nel centro della capitale del terzo più grande paese africano – la superficie del Sudan è come quella della Germania, della Francia, dell’Italia e della Spagna messe insieme. A Khartoum, prima del 15 aprile, non si vedeva un conflitto da più di un secolo: da quando, alla fine dell’Ottocento, la capitale era stata conquistata dagli inglesi con l’ultimo assalto a cavallo della storia dell’esercito britannico. Da allora le strade di Khartoum, viste dal cielo, sono disposte a rassomigliare a una Union Jack, la bandiera del Regno Unito.
Che i signori della guerra garantissero la stabilità del paese si è rivelata una chimera. Ma “non è andato tutto perduto delle conquiste di quattro anni fa”, dice Shima Yousif , 25 anni
Wadi Karkar è un villaggio nubiano perduto in mezzo al deserto tra Egitto e Sudan, è una teoria di case basse con i tetti curvi, tutte identiche e disposte intorno a una moschea bianca e verde. Gli egiziani considerano questo luogo una punizione: negli anni Sessanta il presidente Nasser aveva deportato qui gli allevatori e gli agricoltori abituati a vivere nel verde brillante dei campi irrigati dal Nilo per costruire una diga al posto delle piantagioni. I cittadini anziani di Wadi Karkar non si sono ancora abituati alle distese di sabbia a perdita d’occhio e ai quaranta gradi all’ombra già all’inizio di maggio, detestano il villaggio e quando possono lo abbandonano. Per i sudanesi l’esistenza di questo paesino mezzo disabitato è un sollievo: è raro scappare da una guerra e trovarsi subito in una casa con i muri spessi che proteggono dal sole, l’acqua corrente e un cortile, invece che in un campo profughi.
La rivolta del panino
Dall’indipendenza prima da Londra e poi dal Cairo nel 1956, la politica sudanese è stata una sequenza di eventi cupi – tredici colpi di stato di cui tre coronati da successo – che è stata interrotta a sorpresa quattro anni fa da un movimento civile non violento e organizzato che è dilagato da nord a sud.
La rivoluzione sudanese è cominciata qui vicino, appena oltre il confine, in un istituto tecnico di Atbara, una città con lo stesso numero di abitanti di Sassari che si affaccia sul Nilo Azzurro nel nord del Sudan. Un gruppo di adolescenti è uscito dalla scuola all’ora di pranzo e, come ogni giorno a quell’ora, è andato a comprarsi un panino nell’alimentari di fronte. Ma nessuno degli studenti aveva abbastanza monete per pranzare perché il prezzo del pane era raddoppiato all’improvviso rispetto al giorno prima. Si sono messi a parlare tra loro e il ragionamento è stato: i soldi che abbiamo non bastano a comprare un pasto per tutti, ma per uscire dal silenzio e far vedere la nostra rabbia sono sufficienti. Hanno frugato nelle tasche, hanno messo in comune tutti i contanti che sono riusciti a trovare per comprare degli pneumatici e li hanno incendiati. Così hanno dato inizio alla protesta.
Era il dicembre 2018, dal primo copertone bruciato per rabbia nello stato del Nilo Azzurro, in quattro mesi, si è arrivati per un effetto a catena fino alla rinuncia al potere del dittatore Omar al Bashir. Subito dopo Bashir è stato arrestato, ma non è mai stato consegnato alla Corte penale internazionale che voleva portarlo a processo per crimini contro l’umanità. Gli stessi crimini che non avrebbe potuto commettere senza il contributo pratico di due generali: Burhan e, soprattutto, Hemedti. Il capo militare ribelle del clan Mahariya aveva fatto una carriera rapida perché si era dimostrato più talentuoso di altri nel campo delle uccisioni di massa e degli stupri etnici, aveva scalato le gerarchie grazie ai suoi crimini efficienti durante la guerra del Darfur e oggi ha portato i metodi del Darfur fino alle ville nei quartieri ricchi di Khartoum.
Nel 2018 la rivolta è iniziata in un’area periferica per questioni materiali, ma c’erano le condizioni perché contagiasse tutto il paese e arrivasse nella capitale trasformata in una rivoluzione politica.
Le ragazze legate in fondo al Nilo
Shima Yousif ha 25 anni e da quattro fa parte della Forza per la libertà e il cambiamento del Sudan, l’ombrello che tiene insieme i movimenti studenteschi, i partiti, le associazioni professionali di medici, ingegneri e avvocati, e poi i sindacati, le associazioni datoriali, i comitati di quartiere, le organizzazioni femministe e le università. Tutti assieme hanno lanciato la Primavera sudanese. Caduto Bashir, sono rimasti uniti per dire che spettava a loro portare il Sudan verso elezioni democratiche. Shima Yousif ha una laurea in Finanza e parla un inglese perfetto come le sue coetanee che oggi varcano il confine e arrivano in Egitto da Khartoum. Nel 2019 ha vissuto in una tenda per due settimane per non abbandonare l’occupazione della piazza neanche di notte: aveva accerchiato assieme a decine di migliaia di altri giovani ambiziosi il quartier generale dell’esercito, cioè la cattedrale santissima del potere sudanese. In quei giorni i soldati più giovani uscivano alla spicciolata, si toglievano la divisa, passavano dall’altra parte e si sedevano in mezzo ai manifestanti. “L’entusiasmo di avere in pugno quella grande caserma, il brivido e la forza che dà partecipare a una protesta simile – impensabile e insperata fino a quando è arrivata – ha permesso a me di sopportare le tragedie e ha fatto sentire tutti noi quasi onnipotenti”. Le ragazze come lei in quella protesta erano le più in pericolo.
La sensazione di onnipotenza è durata fino al giorno in cui la sua migliore amica è stata stuprata per punizione da un miliziano delle Rsf di Hemedti. I corpi di decine di altre ragazze sono poi stati trovati e identificati dal sindacato dei medici sudanesi sul fondo del Nilo, alcuni erano ancora parzialmente svestiti e tutti avevano delle pietre legate alle braccia o alle gambe perché non tornassero a galla.
Nella piazza di Shima c’erano gli slogan femministi dedicati a un simbolo del passato caro alle studentesse universitarie che hanno vent’anni oggi, Babikr Bedri, che costruì la prima scuola femminile della storia del Sudan nel 1907. Centododici anni dopo le ragazze sudanesi hanno preteso e ottenuto la sparizione della polizia religiosa che le perseguitava nelle strade. L’equivalente locale di quella che a settembre, a Teheran, ha arrestato Mahsa Amini per il suo velo imperfetto dando inizio a una protesta senza precedenti nella Repubblica islamica d’Iran. Shima rivendica i risultati della primavera sudanese, “non è andato proprio tutto perduto delle conquiste di quattro anni fa. Le ragazze sono più libere e il Sudan è irrimediabilmente più coraggioso da allora. Nessuno ha paura di dire che non vuole i generali. E’ una nostra conquista che sia Burhan sia Hemedti si sentano in dovere di ripetere in continuazione che sono a favore di una transizione per restituire il potere ai civili, anche se poi la rimandano e la tradiscono ogni volta: prima il regime era intoccabile e i cittadini erano timidi, oggi è il regime a vergognarsi”. Il fatto che i generali si sentano insicuri e indesiderati, che ammettano pubblicamente il loro difetto di legittimità, agli occhi di Shima rende la transizione alla democrazia ancora possibile.
I due tranelli dei signori della guerra
“Alla comunità internazionale puntare sulla democrazia in Sudan era sembrata una scelta ingenua: non lo era. Che i generali garantiscano stabilità perché soltanto loro hanno la forza di imporsi su ogni dissidio è una chimera. La stabilità che promettono i signori della guerra ha i giorni contati e alla fine arriva sempre una crisi peggiore di quella che ci si era illusi di poter evitare scegliendo la strada più semplice”, dice al Foglio Salah El Fahl, uno dei leader del Fronte civile sudanese.
El Fahl tra il 2005 e il 2018, durante la dittatura di Bashir, è stato arrestato nove volte per i suoi comizi nei mercati, per aver scritto su un muro della capitale “No agli islamisti” e per gli editoriali che ha firmato sul giornale di opposizione al Sahafa (che in arabo vuol dire: la stampa). Da quando sua moglie è stata minacciata di morte dall’intelligence militare di Bashir, lei si è trasferita al Cairo e lui fa su e giù tra Sudan ed Egitto. El Fahl è stato un consulente del governo civile di Khartoum dopo la rivoluzione, quello guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok.
La comunità internazionale si è fatta fregare da Burhan e Hemedti due volte. “Essere ricchi a Khartoum è diventato completamente inutile”. Appena muoversi sarà meno complicato, più di 800 mila sudanesi si riverseranno all’estero. Il Sudan, un caso da manuale di impunità. Si muore più per gli effetti indiretti dei conflitti che sotto le bombe
E’ stata una parentesi brevissima finita nel colpo di stato militare organizzato nell’ottobre 2021 dai due generali che oggi si fanno la guerra, ma che quando si tratta di estromettere i civili dal potere con la violenza vanno perfettamente d’accordo.
La comunità internazionale si è fatta fregare da Burhan e Hemedti due volte. La prima proprio in quell’ottobre 2021 quando Jeffrey Feltman, l’inviato del presidente americano Joe Biden per il Corno d’Africa, aveva cenato con i capi militari ed era tornato a casa soddisfatto per aver ottenuto due garanzie dai generali: che loro fossero seriamente impegnati nella transizione verso la democrazia e che non fossero interessati a prendere il potere. La mattina del 25 ottobre Feltman è salito su un aereo per lasciare Khartoum e rientrare a Washington, durante il viaggio ha ricevuto un messaggio: appena il suo volo è decollato dall’aeroporto sudanese, Burhan e Hemedti ne hanno approfittato per arrestare i leader politici della rivoluzione civile e prendere il palazzo con un colpo di stato.
Durante la conversazione con gli americani e gli inglesi in cui parlava di pace, Hemedti spostava i suoi uomini in direzione degli aeroporti sudanesi per bloccare l’arma del nemico che vede come l’unico ostacolo a una sua vittoria rapida. Perché gli aerei delle Forze armate regolari permettono al generale Burhan di mantenere un vantaggio
La cena era stata una beffa senza pudore, ma gli Stati Uniti hanno mantenuto rapporti decenti con la nuova giunta militare, non hanno punito i generali golpisti con sanzioni e hanno lasciato aperto un canale di dialogo senza fare troppa pressione. Diciotto mesi dopo sembrava che un nuovo accordo politico fosse possibile e vicino, i generali hanno alimentato nuove speranze per una transizione pacifica e i funzionari dell’Amministrazione Biden ci sono cascati una seconda volta. Ad aprile Burhan e Hemedti si sono di nuovo seduti a tavola con i mediatori americani e inglesi, hanno parlato di un accordo per disinnescare la tensione e annunciare le elezioni, il primo passo di una transizione che sarebbe dovuta cominciare entro il mese scorso, quando invece è cominciata la guerra. Durante la conversazione con gli americani e gli inglesi in cui parlava di pace, Hemedti spostava i suoi uomini in direzione degli aeroporti sudanesi per bloccare l’arma del nemico che vede come l’unico ostacolo a una sua vittoria rapida: gli aerei che le Forze armate regolari possiedono e sanno usare mentre i suoi paramilitari no, quelli che stanno permettendo al generale Burhan di mantenere un vantaggio nel conflitto in corso. Circa una settimana dopo la cena con i mediatori occidentali, a Khartoum sono cominciate le sparatorie nelle strade e le bombe contro l’aeroporto ancora pieno di civili, la mattina del 15 aprile i funzionari americani hanno capito di essere stati beffati ancora una volta.
Amira, che è scappata da Khartoum ed è arrivata a Wadi Karkar mercoledì, ha dovuto scegliere quali dei suoi figli portare al sicuro perché non aveva abbastanza contanti per pagare il biglietto del pullman a tutti. “Essere ricchi a Khartoum è diventato completamente inutile”, le banche sono chiuse e gli sportelli automatici non funzionano più, così ha lasciato i figli più grandi in Sudan, i soldi e i gioielli che aveva in casa li ha usati per portare fuori dal paese la figlia quattordicenne. “Perché i janjawid non conoscono la città e non hanno un posto dove stare, vengono dalle aree tribali o dall’estero, dal Mali e dalla Nigeria: per combattere nelle capitale si piazzano negli appartamenti privati, ammazzano l’uomo o lo buttano per strada, si tengono le donne per cucinare, lavare e per il sesso”. Il tipo di guerra che si combatte in Sudan è il più pericoloso perché gli attacchi avvengono dentro la città, nella zona più popolata del paese, e non si usano le armi della guerriglia ma l’artiglieria e i cacciabombardieri. Khartoum è piena di case basse arabeggianti senza cantine o parcheggi sotterranei e la possibilità di proteggersi correndo in un bunker è un privilegio di pochi. In un mese di guerra in Sudan ci sono stati centinaia di morti civili ma, in realtà, il numero è impossibile da conoscere: Amira dice che nelle zone più pericolose, come quella di Camp Salah o di Bahri da cui viene, “dalle finestre vedi i cadaveri che nessuno può uscire a riprendere, contare, seppellire. Vedi i cani randagi che si avvicinano ai corpi e li annusano, a volte se ne vanno schifati, altre volte no”.
“Forse non avremmo comunque potuto prevenire un conflitto”, dice un diplomatico statunitense a Foreign Policy, “ma è come se non ci avessimo neppure provato e, oltre a questo, abbiamo incoraggiato Hemedti e Burhan”. Escludendo il fronte civile e legittimando di fatto la giunta militare, “e poi con le nostre ripetute minacce vuote e distratte a cui non abbiamo mai dato seguito” rispetto alle prese in giro, alle promesse fatte e smentite dai generali nell’arco di pochi giorni. Folahanmi Aina, un’analista del think tank londinese Rusi specializzato in terrorismo e conflitti nei paesi vicini al Sudan, è convinto che a ogni cessate il fuoco temporaneo che fallisce il caos rischi di sconfinare in una regione che è l’anello di congiunzione tra il mondo arabo e quello africano, quella da cui partono le migrazioni verso la Libia, l’Egitto e la Tunisia che poi vanno verso l’Europa, e che si trova in punto strategico del Mar Rosso dove passa il dieci per cento del commercio mondiale.
Alexander Rondos, l’ex inviato dell’Unione europea per il Corno d’Africa, ha ripetuto un allarme simile e l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati prevede che, senza una tregua, le fughe che ora sono bloccate da combattimenti troppo intensi e imprevedibili si moltiplicheranno. E appena muoversi sarà meno complicato, più di 800 mila sudanesi si riverseranno all’estero.
Queste sono guerre diverse rispetto al passato
La guerra in Sudan è arrivata senza che nessuno se l’aspettasse, ma è stata la conferma di una tendenza che gli analisti hanno chiara da tempo anche se faticano a dare l’allarme: ci stiamo avventurando in una fase caotica e pericolosa in cui i conflitti nel mondo sono diventati più lunghi, causano più sfollati e sono più difficili da risolvere perché incrociano una rete di interessi internazionali complessa e sfuggente, imparagonabile a quella schematica dei due blocchi conosciuta durante la Guerra fredda. Il numero di persone che scappa dalle proprie case è il doppio rispetto a dieci anni fa: nel 2012 erano quaranta milioni e oggi sono cento milioni. Anche se la povertà globale diminuisce anno dopo anno, le persone che hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere sono raddoppiate dal 2020, cioè in poco più di due anni, e adesso sono oltre 230 milioni. L’ottanta per cento delle fughe attuali e potenziali – quelle dovute ai nuovi stati di necessità – sono conseguenza di conflitti armati. La durata media delle guerre aumenta e di conseguenza la loro letalità, anche se si muore più per gli effetti indiretti dei conflitti – la mancanza di cibo e di igiene, la distruzione di infrastrutture di base e l’impossibilità di curarsi – che sotto le bombe o colpiti dai proiettili. Negli anni Cinquanta una guerra durava circa cinque anni, nel 2021 la durata media era salita a vent’anni. Una delle spiegazioni è che i conflitti coinvolgono tanti attori: all’inizio degli anni Novanta solo il quattro per cento delle guerre civili interessava forze straniere, la percentuale è aumentata di dodici volte e nel 2022 è arrivata al 48 per cento.
Nella guerra in Sudan sono potenzialmente coinvolti gli Emirati Arabi Uniti, la Libia per il pezzo governato dal generale Khalifa Haftar, Evgenij Prigozhin, il proprietario dell’esercito privato Wagner che guadagna dall’estrazione dell’oro nelle miniere controllate da Hemedti, l’Egitto e l’Arabia Saudita.
L’Economist chiama questa tendenza “la crescente persistenza dei conflitti” e scrive che una delle spiegazioni ha a che fare con l’erosione della credibilità delle leggi internazionali, il disordine e l’impunità che sono più vistosi oggi di quanto fossero dopo la Seconda guerra mondiale quando il nuovo assetto delle regole globali è stato stabilito. “Che la Russia, un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, abbia violato sfacciatamente lo statuto fondativo dell’Onu invadendo l’Ucraina e rapendo lì i bambini, mostra quanto i tabù si siano indeboliti”, scrive l’Economist, per poi tracciare una linea su come negli ultimi anni i comportamenti dei più grandi abbiano incoraggiato i bulli più piccoli – a volte per convinzione (perché anche i grandi in questione erano bulli), altre semplicemente per distrazione. Il Sudan è un caso da manuale di impunità e quasi nessuno è stato ritenuto responsabile dei crimini di massa commessi a ripetizione negli ultimi decenni contro le minoranze in Darfur, contro i cittadini del sud e contro le ragazze.
Salah El Fahl, da una succursale egiziana del Fronte civile sudanese, partecipa alla scrittura di un documento che la coalizione vuole presentare alla comunità internazionale tra la fine di questa settimana e la prossima. El Fahl dice che sarà un appello rivolto alle Nazione Unite e soprattutto all’Unione europea – “perché è l’istituzione più credibile tra quelle meno compromesse con il disastro sudanese” – oltre che all’Arabia Saudita, all’Egitto e ad altri paesi vicini “con cui però abbiamo delle questioni in sospeso”. E agli Stati Uniti, che El Fahl non crede “commetteranno di nuovo gli errori, o meglio le ingenuità”, degli ultimi anni. “Ho ascoltato Biden e mi è piaciuto quello che ha detto sul Sudan, credo si possa lavorare, questa volta sul serio. Costruire la democrazia è l’opzione più faticosa, ma tutte le altre sono molto più pericolose”.
Cecilia Sala, è nata a Roma nel 1995. Giornalista del Foglio, è autrice e voce di Stories, un podcast Chora Media che racconta una storia dal mondo ogni giorno. Con Chiara Lalli ha scritto “Polvere”, un podcast e un libro Mondadori Strade Blu.