i dilemmi degli alleati
C'è freddezza sull'accoglienza di Kyiv nella Nato, ma bisogna darle garanzie di sicurezza
I precedenti di Budapest e Bucarest insegnano che senza garanzie forti Kyiv resta sotto il tiro di Mosca
Bruxelles. Il G7 ieri ha iniziato a discutere di un summit per la pace in Ucraina sulla base dei dieci princìpi posti dal presidente Volodymyr Zelensky. La convocazione è ancora lontana. Tra accumulo di truppe in vista della controffensiva ucraina e attacchi missilistici contro Kyiv “non c’è alcuna indicazione che la Russia voglia abbandonare il suo sforzo di guerra”, spiega al Foglio un diplomatico dell’Ue: “E’ troppo presto per un summit per la pace”. Il G7 vuole evitare che altri riempiano il vuoto, lanciando iniziative che possano favorire la Russia o portare a un conflitto congelato stile Corea. Ma i leader del G7 non hanno ancora una risposta a uno dei princìpi posti da Zelensky: fornire le garanzie di sicurezza per proteggere l’Ucraina da future aggressioni della Russia dopo un eventuale accordo di pace. Sarà il tema più difficile del vertice della Nato di luglio a Vilnius. Se i baltici spingono per un’adesione, Stati Uniti, Francia e Germania non sono ancora pronti ad aprire la porta della Nato a Kyiv. Senza l’articolo 5, è necessario trovare un’altra garanzia di sicurezza sufficientemente forte da funzionare come deterrenza contro la Russia. Tra gli alleati occidentali dell’Ucraina c’è consenso che, fino alla fine della guerra, non sarà possibile per Kyiv entrare nella Nato. Troppo alto il rischio di essere automaticamente trascinati nella guerra in virtù dell’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del nord sulla difesa collettiva. Ma “alla fine della guerra, la sola garanzia di sicurezza, la sola garanzia di pace, è la Nato”, ha avvertito il premier dell’Estonia, Kaja Kallas, in un’intervista al Monde: “Dobbiamo mettere fine alle zone grigie, perché sono fonte di conflitti”.
L’Ucraina conosce bene le zone grigie. Il memorandum di Budapest, con cui nel 1994 aveva rinunciato al suo arsenale nucleare, prevedeva garanzie di sicurezza da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Russia in caso di violazione dell'integrità territoriale. Ma né Washington né Londra hanno ritenuto di doverle applicare quando Mosca ha deciso di annettersi unilateralmente la Crimea e intervenire nel Donbas nel 2014 o invadere l’Ucraina nel 2022. Un’altra zona grigia è stata la politica della porta aperta decisa al vertice della Nato di Bucarest del 2008. L’allora presidente americano, George W. Bush, voleva dare a Ucraina e Georgia il “Membership action plan” che avrebbe portato all’adesione. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, si opposero per non irritare Vladimir Putin. Dopo tre giorni di negoziati, furono riconosciute le aspirazioni di Ucraina e Georgia, ma senza un piano d’azione. Quattro mesi dopo Putin lanciò la guerra in Georgia, occupando Abkhazia e Ossezia del sud.
Per i paesi baltici, i nordici e la Polonia, con l’Ucraina non si devono ripetere gli errori di Budapest o Bucarest. Ma Stati Uniti, Francia e Germania non vogliono formalizzare un ancoraggio di Kyiv alla Nato per timore di una escalation russa. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha annunciato che a Vilnius sarà firmato “un piano per l’assistenza strategica pluriennale a Kyiv per fornire le capacità all’Ucraina di transitare dall’èra sovietica alla dottrina della Nato”. Non è l’articolo 5 né una garanzia di sicurezza. “Sarà fondamentale che le garanzie siano fornite da paesi che siano in grado di e vogliano rispettarle”, spiega il diplomatico dell’Ue: “E’ una questione bilaterale tra Kyiv, da un lato, e Stati Uniti, Germania e Francia dall’altro”. Cioè gli stessi accusati di aver tradito gli impegni assunti con l’Ucraina a Budapest o Bucarest.