Massima allerta
Perché il Kosovo si sente tradito dall'America, la Serbia alza la posta e Mosca tiene la sua presa
Il presidente serbo approfitta dell’appeasement occidentale, lo stesso che fa dire al governo kosovaro: non ci fidiamo più dei nostri partner storici. I diplomatici di Russia e Cina dopo il vertice con il Quintetto hanno dato a Vucic il loro sostegno incondizionato
Milano. Dopo gli scontri nel nord del Kosovo in cui sono rimasti feriti trenta peacekeeper della missione della Nato Kfor, soprattutto italiani e ungheresi, il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, ricordando che ci sono stati anche 50 feriti serbi, ha riunito ieri mattina i delegati del Quintetto, i suoi interlocutori internazionali: Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Italia. A loro, che rammendano di continuo quella tela piena di buchi che è la convivenza tra Serbia e Kosovo, Vucic ha sostanzialmente detto: dite al primo ministro di Pristina, Albin Kurti, di smetterla. Ha usato parole precise e spaventose, Vucic, convocando l’incontro: “Faccio appello a voi perché facciate ragionare il vostro bambino – questo bambino può causare disordini come nessun altro ha mai fatto prima. Per questo mi rivolgo a voi, perché i serbi e la Serbia vogliono la pace, non chiediamo nulla di più”. Il paternalismo sprezzante di Vucic e la più bistrattata delle parole – “pace” – pronunciata dopo che Belgrado ha messo l’esercito in massima allerta e ha fomentato gli scontri nel nord del Kosovo danno bene il senso dello spericolato tentativo che i paesi del Quintetto stanno da tempo cercando di fare: tenere il più vicino possibile la Serbia, per non cederla del tutto a Russia e Cina.
Subito dopo il vertice con il Quintetto, Vucic ha incontrato i diplomatici di Mosca e Pechino, che come era prevedibile gli hanno dato il loro sostegno incondizionato. Il presidente serbo approfitta dell’appeasement occidentale, lo stesso che fa dire al governo del Kosovo: non ci fidiamo più dei nostri partner storici. Come spesso accade durante i processi di trasformazione e transizione – e questo lo è, eccome: c’è la volontà di costruire una pacificazione che lasci alle spalle l’odio e la violenza brutali degli anni Novanta – il fermo immagine è poco rassicurante: nessuno è soddisfatto, tutti rivendicano qualcosa, alzano la posta, e la fiducia evapora. Se nel frattempo da mesi il mondo dice: sta per riscoppiare la guerra nei Balcani e se ogni scaramuccia diventa provocazione, il progetto diplomatico a trazione occidentale sembra sull’orlo del fallimento. Stati Uniti e Unione europea sono dalla stessa parte, anche se la percezione sul campo è diversa, in particolare per quel che riguarda la Serbia: con l’Ue sono in corso dei negoziati, c’è una contiguità geografica e in generale una maggiore sensibilità europea nei confronti di un paese che è sulla porta dell’Europa e che avrebbe anche moltissima convenienza nel fare un passo in avanti. Con Washington, invece, molti hanno difficoltà a trovare attenuanti, né per il presidente, Joe Biden, né soprattutto per il segretario di stato, Antony Blinken, che è uno dei diplomatici americani che meglio conoscono l’Europa e con cui molti leader hanno consuetudine, e che è considerato l’architetto di questo progetto di transizione. Quando Blinken venerdì ha chiesto al premier kosovaro Kurti di non alimentare le violenze e di non far insediare i sindaci albanesi “eletti” dal 3,5 per cento della popolazione a maggioranza serba, Pristina si è ribellata: “tradimento” è la parola più ricorrente nei commenti kosovari.
Gli Stati Uniti hanno dato inizio a questa nuova fase inviando nel 2021 come ambasciatore a Belgrado Christopher Hill, che era stato il braccio destro di Richard Holbrooke, il negoziatore degli accordi di pace di Dayton del 1995. Hill è un diplomatico di grande esperienza che ha come obiettivo, come ha detto in alcune interviste, di costruire “una relazione normale” tra Serbia e Kosovo: “Non tensioni, ma relazioni normali, anche commerciali: ci sono molte questioni economiche che devono essere affrontate e, se tutti si concentrano sulla sicurezza e sulle questioni politiche, dovrebbero anche concentrarsi sulle questioni economiche”, ha detto l’estate scorsa all’emittente N1. Secondo Hill, il vantaggio per Belgrado è chiaro: “Penso che la Serbia debba capire dove vuole essere tra qualche anno e deve capire chi sono i suoi amici e chi non lo sono – aveva detto il diplomatico americano sempre in quell’intervista – Francamente non vedo molte prove del fatto che la Russia sia un’amica: usa la Serbia per fare gli interessi russi, che non mi sembrano anche gli interessi serbi”. Gli amici sono gli europei, la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo sono uno strumento per costruire una convivenza non belligerante.
Per il Kosovo questo approccio equivale a un’equidistanza traditrice, ancor più ora che la Russia ha dimostrato che, laddove non riesce a esercitare la sua influenza, è disposta a utilizzare la violenza, imponendo il suo interesse con la forza. Hill e il dipartimento di stato ribadiscono il loro sostegno al Kosovo, lo fanno in molti modi, ma allo stesso tempo chiedono a Kurti di rispettare la minoranza serba, ritrovandosi così in quel fermo immagine in cui l’occidente appare troppo accondiscendente con Belgrado, Belgrado lo ricambia con supponenza e fomentando le violenze, Pristina denuncia il tradimento e Mosca tiene la sua presa. Ma questo, appunto, è solo un frammento dell’intero processo. Un altro, rilevante, è che la Russia resta il quarto più grande partner commerciale della Serbia (dopo Germania, Ungheria e Cina), ma l’Ue nel suo complesso è l’investitore più importante, il benefattore più importante.