L'influenza di Mohammed Bin Zayed Al Nahyan
Come il figlio di un leader tribale semianalfabeta ha reso gli Emirati Arabi Uniti la “piccola Sparta” del medio oriente. La “mano libera” di Abu Dhabi negli accordi di Abramo, la riabilitazione di Assad e le nuove relazioni con l’Iran
"Il più potente leader arabo è Mbz, non Mbs”. Era questo il titolo del lungo articolo di analisi, pubblicato il 2 giugno 2019, con cui il New York Times consacrava agli occhi del mondo intero una realtà diventata ormai incontrovertibile. Al netto di acronimi e abbreviazioni, tanto cari alla stampa anglofona, il senso dell’articolo era questo: il leader più potente nel mondo arabo non è il principe ereditario saudita, Mohammed Bin Salman (Mbs), ma il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed Bin Zayed Al Nahyan (Mbz). Il giornale newyorchese argomentava efficacemente la sua tesi, evidenziando che “il principe Mohammed (Bin Zayed) è quasi sconosciuto al pubblico americano e il suo piccolo paese ha meno abitanti del Rhode Island, ma potrebbe essere l’uomo più ricco del mondo, controllando fondi sovrani per un valore di 1,3 trilioni di dollari”. L’analisi si basava anche, e soprattutto, sulla capacità militare del potentato arabo. La “piccola Sparta” del medio oriente aveva appena finito di formare “il più potente esercito del mondo arabo, equipaggiato attraverso il suo lavoro con gli Stati Uniti per condurre operazioni di sorveglianza e combattimento ad alta tecnologia ben oltre i suoi confini”.
Oggi, a distanza di quattro anni, le cose sembrano cambiate. La pandemia di Covid-19 in alcuni casi ha rallentato alcune dinamiche regionali e internazionali, in altri ha finito per accelerarle. La guerra in Ucraina, invece, ha spostato di nuovo verso la vecchia Europa l’attenzione e le agende delle cancellerie occidentali, anche italiane. Ciononostante, gli Emirati hanno continuato a lavorare alacremente dietro le quinte e ad accrescere influenza e potere. Allo stato attuale, se è vero che il medio oriente – a metà strada tra oriente e occidente – è al centro delle nuove sfide globali, si può dire con un certo margine di certezza che gli Eau sono, per così dire, il centro di questo centro. Spesso, infatti, svolgono il ruolo di mastermind e apripista di dinamiche politiche e diplomatiche che poi coinvolgono l’intera regione.
Se n’è avuta una prova lampante in due occasioni. La prima è stata la stipula degli accordi di Abramo, con cui Israele – a partire dal 2020 – ha normalizzato le relazioni con Emirati e Bahrein, seguiti a ruota da Marocco e Sudan. Il secondo caso riguarda il lento ma inesorabile processo per la riabilitazione del presidente siriano Bashar el Assad, riammesso nella Lega araba dopo 12 anni di esclusione per aver represso nel sangue le sollevazioni antigovernative del 2011.
“L’aspetto più interessante è che gli Emirati non sono solo in grado di agire in numerosi scenari, ma anche di influenzarli”, dice al Foglio Giuseppe Dentice, capo del desk medio oriente e Nordafrica del Centro studi internazionali (CeSi). “Nella riabilitazione della Siria, è vero che l’Arabia Saudita ha avuto un ruolo dominante, presentandosi come game changer a livello regionale, però ha dovuto spingere in questo senso nell’ultima fase proprio perché l’iniziativa predominante fino a quel momento era stata quella emiratina”, spiega lo studioso. “Ricordiamo che gli Emirati sin dal 2018 si erano mossi per sbloccare l’impasse con Assad (riaprendo per primi la loro ambasciata a Damasco, ndr) perché lo ritengono un soggetto utile alla loro causa o comunque abbastanza addentro alle dinamiche regionali da tornar comodo anche in funzione anti iraniana”, dice Dentice.
Allo stesso tempo, però, anche gli Emirati sono parte integrante del clima di allentamento delle tensioni con Teheran, dopo anni di contrapposizione serrata, incarnato dalla recente normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita grazie alla mediazione cinese. “Teheran è un elemento importante – puntualizza Dentice – ma in controtendenza rispetto al recente passato, nel senso che se l’Iran è il fattore che accomuna Emirati e Israele negli accordi di Abramo, è anche vero che Emirati e Iran hanno stretto tutto un nuovo tipo di rapporto basato sulla de-escalation”. Ma quasi tutti gli arabi del Golfo “pur trovandosi in una situazione di distensione con Teheran, si fidano solo fino a un certo punto”, evidenzia l’analista. “La partita di Assad serve in quest’ottica, tanto che per rientrare nel consesso arabo gli sono state chieste due cose: smetterla di inondare il medio oriente di captagon (con cui la Siria è diventata un vero e proprio narco-stato, ndr), e rimodulare la sua dipendenza dall’Iran”, conclude Dentice.
Vale la pena chiedersi, a questo punto, come abbia ottenuto un simile status un paese così piccolo, con una popolazione di soli 9,3 milioni di abitanti, completamente dipendente dalla manovalanza straniera e retto da un autocrate, Mbz, figlio di un leader tribale semianalfabeta. Le rendite e la commercializzazione di gas e petrolio, probabilmente, non bastano da sole a dare una spiegazione. Il punto da focalizzare è come gli Eau hanno investito le loro immense risorse. “Gli Emirati Arabi Uniti hanno utilizzato diversi strumenti per diventare un attore sempre più influente in molte parti del mondo”, chiarisce al Foglio Giorgio Cafiero, ceo della società di consulenza americana Gulf state analytics di Washington. “Porti, logistica, media, sport e finanza sono stati tutti elementi importanti per la capacità degli Emirati di guadagnare peso”, dice l’analista. “Gli emiratini sono anche intervenuti militarmente in alcuni hotspot regionali, principalmente Yemen e Libia, il che ha reso la politica estera di Abu Dhabi più muscolare, assertiva e centrale per la sicurezza regionale e non solo”, aggiunge Cafiero.
La politica estera emiratina è forse l’aspetto più stupefacente nell’ascesa di questo piccolo ma influente potentato arabo. Il ruolo degli Emirati “sicuramente è un po’ meno appariscente rispetto agli anni 2015-2019, ma rimangono un attore importante e in grado di influenzare e far presa su paesi più grandi e strategici come l’Arabia Saudita”, argomenta ancora Dentice. “E’ un attore che basa le sue iniziative sul concetto di ‘mano libera’”, prosegue lo studioso. L’idea di fondo degli Emirati è quella di non restare imbrigliati in meccanismi di partnership e alleanza troppo rigidi. “Gli Eau – spiega Dentice – sono un battitore libero, che ha coltivato senza limitazioni i propri rapporti all’interno e all’esterno della regione: non a caso sono amici degli Stati Uniti ma intrattengono relazioni con Cina e Russia, parlano con Assad ma allo stesso tempo stringono rapporti con Israele, invitano Benjamin Netanyahu alla Cop28 sul clima (che si terrà a Dubai a fine anno, ndr), ma allo stesso tempo rimandano il loro ambasciatore a Teheran. Insomma, guardano a queste situazioni in un’ottica pragmatica, basata sul proprio interesse e sulla stabilità nazionale, regionale e globale”, chiosa l’esperto.
Una dimostrazione di quanto smaliziata sia la politica estera emiratina si è avuta mercoledì, 31 maggio, quando il governo di Abu Dhabi ha annunciato di aver abbandonato già da un paio di mesi le Combined Maritime Forces (Cmf), una coalizione multinazionale a cui partecipano una trentina di paesi, fra cui l’Italia. Il suo comando ha sede in Bahrein, insieme alla Quinta flotta americana, e la sua missione è di migliorare la sicurezza marittima nelle acque del Mar Rosso e del Golfo Persico, contrastando pirateria e insorgenze terroristiche. La versione emiratina, divulgata tramite l’agenzia ufficiale Wam, è arrivata in risposta a un articolo del Wall Street Journal, che citando fonti coperte statunitensi e del Golfo sosteneva che gli Eau si erano ritirati dalle Cmf perché insoddisfatti dall’inazione americana di fronte ai problemi di sicurezza per le navi nel Golfo. Specialmente le petroliere, che nelle ultime settimane sono state oggetto di blocchi e sequestri da parte delle forze iraniane.
Un posto particolare nella politica estera emiratina è quello occupato dai numerosi scenari di crisi in cui il paese, in un modo o nell’altro, si trova coinvolto. Secondo Dentice “avere rapporti un po’ con tutti serve anche a definire scenari operativi in teatri come Siria, Libano, Libia e soprattutto Yemen e Iraq”. In questi due ultimi dossier, gli Emirati “sono attivi sia in funzione anti iraniana ma anche in competizione con gli stessi partner, sauditi in primis”. In Libia invece “il gioco è un po’ più diversificato, ma si muove nella chiave di de-escalation nel Golfo con il Qatar”, aggiunge.
Vale la pena ricordare a tal proposito che a metà dello scorso decennio il medio oriente sembrava nettamente spaccato in una piccola Guerra fredda regionale. Non si trattava, però, di quella arcinota fra paesi arabi e Iran, né tantomeno il famoso – e spesso sopravvalutato – conflitto fra sunniti e sciiti. Si configurava, invece, una contrapposizione fra il campo turco-qatariota – di cui i Fratelli musulmani sono stati per anni la cinghia di trasmissione politica – e quello emiratino-saudita, sempre islamista ma in senso più conservatore. Un caso concreto è quello della Libia, dove Ankara e Doha hanno supportato per anni il Governo di accordo nazionale (Gna), mentre emiratini e sauditi (via Egitto) spalleggiavano il generale Khalifa Haftar e il suo autoproclamato Esercito nazionale libico (Gna). L’esempio più noto ed emblematico in questo senso è però l’Egitto, dove nel 2013 Riad e Abu Dhabi salutarono con favore il colpo di stato che diede il potere ad Abdel Fattah al Sisi, rovesciando il presidente espresso dalla Fratellanza musulmana Mohammed Morsi, sostenuto invece da Qatar e Turchia. Un contributo fondamentale a quel clima venne sicuramente dalla presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti, che aveva fortemente appoggiato il cosiddetto Qatar ban, messo in atto nel 2017 da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati interrompendo i rapporti con Doha.
Negli ultimi anni le geometrie si sono fatte più variabili, e gli E mirati hanno avuto un ruolo fondamentale nella distensione tra i due fronti intra-sunniti, culminata con la Dichiarazione di Al Ula a gennaio del 2021. “Gli Eau non stanno con le mani in mano – evidenzia ancora Dentice – osservano e capiscono anche meglio degli altri i trend che si muovono nella regione e che possono essere utili a rafforzare la loro posizione. Si pensi alla Turchia, dove la crescente presenza emiratina dimostra una chiara riconsiderazione strategica, con importanti conseguenze sul fronte economico e commerciale”, prosegue. “Prima fra tutte la penetrazione di capitali emiratini in un mercato trans-regionale come quello turco, che ne ha un bisogno enorme in questo momento”, aggiunge l’analista del CeSi.
Gli Eau stanno creando sempre più accordi commerciali bilaterali al di fuori del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), l’organizzazione economica e doganale a guida saudita di cui fanno parte anche Kuwait, Qatar, Bahrein e Oman. E’ una risposta al pensiero egemonico saudita, sull’organizzazione e non solo, sintetizzato perfettamente dal ministro di Riad per gli investimenti, Khalid al Falih. “All’interno del Gcc ci consideriamo un mercato comune – ha dichiarato - ma la combinazione di dimensioni, visione e qualità conta, e Riad ha tutto questo e altro ancora”. La diversificazione dei mercati è con tutta probabilità il principale terreno di competizione fra Abu Dhabi e Riad per il dominio economico nella regione. L’obiettivo degli Emirati è quello di aggirare le maglie del Gcc, evitando di essere schiacciati dal vicino saudita e puntando ad accordi di partenariato come quello siglato con la Turchia a marzo scorso.
Secondo Cafiero, però, la contrapposizione fra i due blocchi regionali intra-sunniti ha ancora il suo peso nella politica estera emiratina, al netto dei passi di distensione sia con Doha che con Ankara. “Un fattore importante sono i timori della leadership nei confronti dei Fratelli musulmani e la possibilità che i partiti politici e i movimenti a essi affiliati prendano il potere”, dice l’analista. “Oggi la Fratellanza musulmana è molto più debole rispetto al periodo 2011-15, ma resta ancora preoccupante per Abu Dhabi”, aggiunge l’esperto. “Oltre a una crociata ideologica contro l’islam politico, gli Emirati sono anche intervenuti in vari paesi per stabilire e far crescere reti sofisticate ed espansive che forniscano sia ritorni economici che livelli più elevati di influenza geopolitica”, puntualizza Cafiero.
Il caso più recente di proiezione emiratina in scenari di crisi è quello del Sudan. Il generale Mohamed Hamdan Dagalo, capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) meglio conosciuto come Hemeti, ha rapporti antichi e profondi con Abu Dhabi, tanto da aver guidato personalmente il contributo militare sudanese nella Coalizione internazionale a guida saudita in Yemen. La rete che sostiene Dagalo, l’uomo che ha tentato un golpe in Sudan contro il presidente Abdel Fattah al Burhan, è un intricato dedalo di capitali, armi, oro e mercenari che ad Abu Dhabi trova la sua corte dei miracoli. Le forze di Hemeti hanno anche utilizzato bombe termobariche di produzione emiratina. Potrebbe trattarsi di consegne dirette o, più probabilmente, di transazioni indirette attraverso gli appoggi emiratini nella vicina Libia. “Questo paese è importante per gli Eau per molte ragioni, dall’oro agli interessi nel Mar Rosso fino ai corridoi commerciali del Sudan che collegano il paese all’Africa sub-sahariana”, spiega Cafiero. “Inoltre, preservare una relativa stabilità in Egitto è sempre una priorità per Abu Dhabi e la possibilità che violenti disordini in Sudan si riversino in Egitto inevitabilmente turba la leadership degli Emirati Arabi Uniti”, aggiunge.
Siria, Libia, Yemen, Sudan e oltre: sembra proprio che nell’area del medio oriente e del Nordafrica non si muova uno spillo senza che gli Eau stiano lì a osservare, e soprattutto ad agire. La centralità del paese, una federazione di sette emirati, non è però in alcun modo slegabile dalla figura del suo leader Mohammed Bin Zayed Al Nahyan, vero dominus in questa strategia della “mano libera” con cui gli Eau si approcciano non solo allo scenario regionale, ma addirittura globale. “Mbz è estremamente determinato ad affermare l’autonomia e l’indipendenza geopolitica del suo paese”, afferma Cafiero. “Con lui al timone, gli Emirati Arabi Uniti non prendono ordini da nessun altro paese al mondo. In qualità di leader accorto, ha attentamente bilanciato le partnership di Abu Dhabi con i paesi occidentali, la Russia e le potenze del cosiddetto Sud del mondo come Cina, India, Brasile e così via”, aggiunge l’analista. “Basta uno sguardo alla risposta degli Emirati Arabi Uniti alla guerra in Ucraina”, puntualizza.
Sugli Eau, che hanno espresso solo condanne poco sostanziali contro Mosca, aleggiano sospetti molto fondati sul fatto che aiutino Mosca a eludere le sanzioni, anche acquistando e trafficando ingenti quantità di oro russo. “Questo aiuta a capire fino a che punto il paese arabo naviga attentamente nelle complessità di un mondo che vede sempre più multipolare, in modo da garantire che nella politica estera degli Emirati ci sia lo stesso equilibrio che conferisce loro una notevole influenza sulla politica regionale e sul palcoscenico internazionale”, conclude Cafiero.
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