il legame atlantico
Al Csis, uno dei centri studi più autorevoli degli Usa, dicono: “L'Europa ci ha sorpreso tutti”
Bergmann, direttore della sezione Europa, Russia ed Eurasia del think tank di Washington, spiega come dopo il Whatever it takes di Draghi il vecchio continente sia visto come un player decisivo per le sfide geopolitiche che verranno. A maggior ragione dopo il sostegno convinto all'Ucraina
I fenomeni epocali si capiscono meglio guardandoli da lontano. Per avere un’idea più precisa di quanto la guerra in Ucraina abbia cambiato il ruolo geopolitico dell’Europa, per esempio, bisogna provare a vedere le cose dalla prospettiva di Washington. Qui capita di sentirsi dire che noi europei non abbiamo capito fino in fondo quanto sia stata sorprendente ed efficace, finora, la nostra risposta collettiva all’invasione voluta da Vladimir Putin. L’Unione europea nell’ultimo anno e mezzo ha spiazzato tutti nella capitale americana, dove ora si riflette su come ripensare la geopolitica futura dando all’Europa un ruolo centrale. Ci stanno ragionando al Center for Strategic and International Studies (Csis), uno dei più autorevoli think tank di Washington, fondato nel 1962 in piena Guerra fredda per cercare soluzioni a quella che sembrava all’epoca un’imminente catastrofe nucleare.
Qui la persona che meglio di tutti può aiutare a capire a che punto sono le relazioni transatlantiche è Max Bergmann, direttore della sezione “Europe, Russia and Eurasia” del Csis, per anni un alto funzionario del dipartimento di stato che si è sempre dedicato allo studio degli affari europei. “Diciamolo chiaramente: a Washington all’inizio dell’invasione dell’Ucraina l’idea diffusa era che sarebbe stato un nuovo 2014 e che avremmo dovuto trascinare controvoglia l’Europa a fare qualcosa”, spiega Bergmann al Foglio, ricevendoci nel suo ufficio al Csis nel centro della capitale, dove sugli scaffali svettano i volumi di John Lewis Gaddis sulla storia della Guerra fredda. “E invece alla Casa Bianca e al dipartimento di stato tutti sono stati colti di sorpresa. Abbiamo visto in azione l’Europa del ‘whatever it takes’ di Mario Draghi. Il risultato è che ora qui l’Europa è considerata un player decisivo per le sfide geopolitiche che verranno, incluse quelle legate alla Cina. Lo dimostra per esempio la rapidità con cui Jake Sullivan, il consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, ha ritirato il termine ‘decoupling’ (disaccoppiamento) per indicare i rapporti tra le economie americana e cinese, per sposare invece l’approccio ‘derisking’ promosso da Ursula von der Leyen. E’ lei, la presidente della Commissione europea, che ora viene sempre citata qui come leader europea, non Emmanuel Macron o Olaf Scholz”.
Quando nell’inverno del 2021 gli Stati Uniti cominciarono ad avvertire gli alleati dell’imminente invasione russa, racconta Bergmann, la preoccupazione diffusa a Washington era come convincere gli europei a muoversi e a farlo in fretta e il timore era di vedere uno scenario analogo a quello successivo all’attacco della Crimea. “Quella volta”, racconta, “c’erano voluti mesi per smuovere qualcosa. L’invasione è avvenuta nel marzo 2014 e le sanzioni europee non ci sono state fino ad agosto, quando è stato abbattuto il volo della Malaysia Airlines. Si pensava che anche stavolta ci sarebbe stato da trascinare l’Ue controvoglia”. “Poi è scoppiata la guerra e la risposta europea è stata assai più forte di quanto chiunque si aspettasse. Nessuno qui, per dire, parlava di sanzioni contro la Banca centrale russa, poi Mario Draghi ha alzato il telefono, ha chiamato Janet Yellen e l’ha proposto. E qui la reazione è stata: ‘Mio Dio, ma si può davvero fare?’. Lo stesso con l’embargo al petrolio russo, sul quale erano gli americani a preoccuparsi per le conseguenze, non gli europei. Questo ha permesso di cambiare la percezione degli Stati Uniti”.
Bergmann studia l’Europa da sempre. E’ figlio di studiosi americani che si occupavano di storia europea, è cresciuto a Budapest negli anni Novanta. Si è concentrato sul nostro continente a Washington dopo l’11 settembre 2001, quando tutta l’attenzione era per il medio oriente e il terrorismo e, a differenza di molti altri nella capitale, non guarda all’Europa attraverso la lente della Nato. Da questa prospettiva, quello che a suo avviso è avvenuto nell’ultimo anno e mezzo è una maturazione di un processo che l’Ue ha portato avanti per anni senza magari sapere fino in fondo dove avrebbe condotto e che ora dà i suoi frutti. “La globalizzazione, l’integrazione economica, i confini aperti e tutto lo scenario degli anni passati in un certo senso avevano frenato il potenziale geopolitico dell’Europa e la potenza del proprio mercato economico. Oggi siamo di fronte a un’Ue finalmente centrale e che non potrà essere ignorata neppure da un’eventuale nuova Amministrazione repubblicana. Un governo ‘Trump 2’, per esempio, magari potrebbe essere ostile alla Nato, ma dovrebbe lavorare in modo diverso con l’Ue”.
Nel frattempo, c’è da fare i conti con la guerra in corso e Bergmann, da questo punto di vista, invita a guardare la situazione non limitandosi al conteggio degli F-16 o degli armamenti in campo, ma tenendo presenti alcuni punti fermi. Il primo: “Quando si tratta di mandare segnali che non inducano a pensare a un’escalation, gli Stati Uniti e la Russia parlano la stessa lingua, hanno esperienza in questo, hanno trascorso l’intera Guerra fredda in questo tipo di diplomazia a distanza. E Biden è un uomo del Ventesimo secolo, conosce questo gioco”. A Washington, è il senso, c’è consapevolezza su fin dove spingersi, dove frenare e come portare avanti la partita. Il secondo punto è che i tempi saranno lunghi. “Fino a ora abbiamo risposto alle richieste di armi con un approccio di breve termine, adesso serve una strategia di lungo termine. Ci vuole un approccio come quello che abbiamo con Israele, cui forniamo aiuti militari per tre miliardi di dollari l’anno. E’ ormai fisso nel budget americano, non se ne discute neanche più. L’Ucraina ha bisogno di fare piani a dieci anni come li fa Israele”. Il terzo punto riguarda la situazione in Russia. “Come americani, dovremmo avere un po’ di umiltà”, dice Bergmann, “quando valutiamo un paese che ne ha invaso un altro e ha fatto qualcosa di terribilmente stupido. Perché lo abbiamo fatto anche noi, in Vietnam o in Iraq. Ciò che sta avvenendo da loro è probabilmente simile a quello che abbiamo già vissuto qui. In questi casi smetti di avere una chiara strategia e provi a cavartela in qualche modo. Penso che adesso siano in questa fase, sperano che si congeli tutto e di cavarsela. Sanno che non possono vincere e che la vittoria oggi per loro è al massimo uno stallo. Sperano che l’occidente si stufi. Ma sanno di aver fatto una cosa stupida e che non c’è via d’uscita”.
Dalle piazze ai palazzi
Gli attacchi di Amsterdam trascinano i Paesi Bassi alla crisi di governo
Nella soffitta di Anne Frank