Le Trattative con il Fmi
Da Washington arriva un mezzo assist per salvare la Tunisia dal default
Blinken dice a Tajani di essere disponibile a trattare con Saied, ma serve un nuovo piano di riforme. Due esperti ci spiegano perché gli Stati Uniti hanno tutto l'interesse a evitare il fallimento del paese (facendo un favore all'Italia)
Nella corsa contro il tempo per salvare la Tunisia dalla bancarotta, finora percorsa quasi in solitaria, l’Italia ha finalmente raccolto il sostegno parziale degli Stati Uniti. Lunedì, al termine del bilaterale tenuto a Washington con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, il segretario di stato Antony Blinken si è detto disponibile a sostenere il negoziato fra Tunisi e il Fmi per il prestito da 1,9 miliardi di dollari. “Saremmo molto favorevoli se il governo tunisino presentasse un nuovo piano di riforme al Fmi e il Fmi agisse sulla base di quel piano”, ha dichiarato Blinken. “Si tratta comunque di una decisione che spetta alla Tunisia”, ha precisato il segretario di stato, ma è chiaro che le sue parole assumono un peso specifico notevole, visto il ruolo ricoperto dagli Stati Uniti nel Fmi.
Il tempo rimasto è poco. Venerdì scorso, l’agenzia di rating Fitch ha abbassato il rating di default delle obbligazioni a lungo termine in valute estere, passate da CCC+ a CCC–, e secondo gli analisti il tempo a disposizione del presidente Kais Saied per impedire il collasso definitivo dell’economia del paese non supererebbe qualche manciata di mesi. Eppure “c’è ancora margine di manovra, dal momento che gli interessi di Roma e Washington sono simili, ovvero evitare che la Tunisia vada in bancarotta”, spiega Alissa Pavia, direttrice del programma sul Nord Africa all’Atlantic Council. La settimana scorsa, la premier Giorgia Meloni è volata a Tunisi ben due volte per provare a convincere Saied ad ammorbidire la sua posizione nei confronti del Fmi. Ma ogni volta è stata salutata alla porta del palazzo di Cartagine con lo stesso avvertimento del presidente tunisino: “Grazie, ma non accetteremo diktat dal Fmi”. C’è però una differenza sostanziale fra le dichiarazioni populiste rivolte da Saied e il merito dei negoziati. “Tunisi ha preannunciato la sua volontà di riformare il sistema di tassazione, un segnale che dimostra la sua apertura verso il Fondo – spiega Pavia – Ora la questione centrale è quella della condizionalità sul prestito, cioè delle clausole che riguardano i sussidi sui beni di prima necessità”. L’Italia vuole che queste clausole siano eliminate dall’accordo e che la prima tranche di denaro sia concessa senza condizioni. Ma a Saied non basta, perché non vuole accettare un programma che, tagliando i sussidi, rischia di alienare una fetta troppo grossa della società che oggi lo sostiene. Il Fmi poi è restio perché rischia di perdere credibilità agli occhi dei mercati internazionali. “Tuttavia – spiega l’analista del think tank di Washington – in altre occasioni il Fondo ha eliminato le condizionalità, come è successo per il prestito di 15 miliardi fatto all’Ucraina nel marzo scorso. Il Fmi è in una posizione di poterlo rifare”.
Le ultime dichiarazioni di Blinken dimostrano che la freddezza e la fermezza degli Stati Uniti non vanno confuse con il loro disinteresse per la Tunisia. “Dopo gli attentati di Sousse e del Bardo a opera dello Stato islamico nel 2015, per Washington Tunisi è essenziale nella lotta al terrorismo. Da lì proviene anche gran parte dei foreign fighter del Califfato”, dice Andrea Cellino, senior fellow al Middle East Institute Switzerland. Cellino spiega che è in corso un graduale disimpegno americano dalla regione: “Lo prova il fatto che nel budget fino al 2024 il dipartimento di stato ha tagliato gli aiuti rivolti al sostegno politico-sociale in Tunisia, passati da 45 a 14,5 milioni di dollari. E se nel suo ultimo tour del medio oriente il direttore della Cia, William Burns, non ha fatto tappa a Tunisi, c’è un motivo”. Ma è vero anche che nel settore della sicurezza e della vendita delle armi non ci sono stati tagli della spesa da parte del dipartimento di stato. Dal mese scorso e fino al prossimo 18 giugno è in corso l’Africa Lion 2023, una grande esercitazione militare che coinvolge gli Stati Uniti e alcuni paesi dell’Africa, fra cui la Tunisia. “Uno dei timori registrati fra i funzionari americani è che l’implosione socio-politica di Tunisi porti proprio alla fine di questa cooperazione militare che giudicano strategica nella lotta al terrorismo nell’area del Sahel e del Nord Africa”, dice Cellino.
La scommessa degli Stati Uniti è che alla fine Saied non abbia scelta e accetti il prestito. “Le prospettive di un salvataggio alternativo da parte di Russia e Cina non sono credibili al momento”, conclude l’analista del centro studi di Ginevra. “I primi non possono sobbarcarsi il peso dell’economia tunisina, i secondi hanno dichiarato, persino loro, che l’unica via è quella di accettare le condizioni del Fmi”.
Ma anche se si dovesse raggiungere un accordo, l’efficacia del prestito del Fondo nel lungo periodo è discutibile. Il motivo sta nell’impostazione stessa delle trattative fra occidente e paesi nordafricani, ormai completamente incentrata sui temi dell’immigrazione e non sullo sviluppo delle istituzioni democratiche e della società civile. Secondo Pavia, questo approccio potrebbe essere un boomerang per l’Europa: “Nel lungo termine ci sarà un deterioramento palese delle istituzioni e un probabile ulteriore accumulo del potere nelle mani di Saied, che sarà sempre meno aperto e negoziare e trovare soluzioni con paesi terzi e più propenso invece ai ricatti. Un po’ quello che faceva Gheddafi con l’Italia”.