Londra in lotta
La caduta di Johnson fa dire: s'è chiusa la stagione dei leader populisti
Quanto è scomoda Londra per l'ex premier britannico. A Kyiv sarebbe molto più utile
Milano. La resa dei conti tra l’attuale premier britannico Rishi Sunak e il suo ex capo Boris Johnson è finita a favore del primo, almeno per il momento. Johnson, parlamentare conservatore dal 2001, ex sindaco di Londra, ex ministro degli Esteri, ex leader dei Tory ed ex premier fino al settembre dell’anno scorso, si è dimesso dai Comuni – ci sarà un’elezione suppletiva per sostituirlo – per due ragioni: oggi sarà pubblicato l’esito dell’inchiesta sul partygate, lo scandalo delle feste a Downing Street che violavano le regole anti pandemia, e si sa già che sarà “molto critico” nei confronti di Johnson, accusato non tanto di aver organizzato delle feste quando gli inglesi non potevano nemmeno incontrarsi in gruppo all’aperto, ma per aver mentito al Parlamento sulla propria responsabilità; Sunak non ha accettato la lista presentata da Johnson con le richieste di onorificenze e titoli (peerage), cosa irrituale ma nei suoi poteri. Le ricostruzioni su quel che è andato storto nell’incontro “segreto” tra Sunak e Johnson della settimana scorsa differiscono sugli elementi del negoziato, ma l’unico testimone era James Forsyth – ex capo della redazione politica dello Spectator, il magazine conservatore che è stato anche diretto da Johnson, che nelle varie faide del partito aveva sempre tifato Johnson ma che ora è un consigliere molto stretto e molto amico di Sunak – quindi una versione neutrale probabilmente non ci sarà mai.
Fa una certa impressione che l’ultimo scontro interno ai litigiosi conservatori riguardi ancora una volta privilegi e titoli e parenti (nella lista ci sarebbe il padre di Johnson, Stanley). Il Labour, al quale in questi frangenti (che si sono moltiplicati nell’ultimo anno) serve soltanto star fermo e affondare il coltello appena vede un varco, dice: il Partito conservatore è avulso dalla realtà, il costo della vita è alle stelle e lui parla di nobiltà, andiamo a votare, che vinciamo. Fa una certa impressione anche il fatto che il partygate abbia stravolto la politica britannica in tutte le direzioni, accumulando cortocircuiti, di cui il più evidente è: anche Sunak è coinvolto nello scandalo delle feste. Ogni volta che si ritorna su questo scandalo, il paese si divide, perché anche in questo caso è stato il partito a decidere di sbarazzarsi di Johnson, e molti sono convinti che una consultazione tra gli elettori sarebbe andata diversamente. Ma le rese dei conti non sono dettate dalla logica né avvengono fuori dal palazzo e così, mentre Johnson saluta e ribadisce temerario: tornerò, si fanno altri bilanci sulla sua leadership, mischiandoli in modo non del tutto appropriato alla morte di Silvio Berlusconi e alla presenza (di nuovo) di Donald Trump in tribunale – la cosiddetta caduta dei populisti.
Il piano di Johnson non è chiaro, c’è chi dice che abbia proposto a Sunak di accettare la sua lista e di essere clemente sul partygate in cambio di una sua presenza visibile nella campagna elettorale per i Tory: sarebbe preziosa, lui lo sa, ma l’attuale premier potrebbe averla rifiutata perché la partecipazione di Johnson si rivela sempre un’arma a doppio taglio. E’ già accaduto in passato allo stesso Sunak, il quale deve la sua ascesa dentro il governo proprio a Johnson (e alla Brexit), ma che poi ha scelto di allearsi con persone – e sono tante – che hanno conti in sospeso con l’ex premier. Dentro al partito poi, proprio come l’anno scorso più o meno di questi tempi, Johnson risulta troppo ingombrante, troppo vendicativo, troppo nostalgico anche, visto che parla ancora di “Brexit done” quando sulla possibilità di far funzionare il divorzio dall’Ue prevale la rassegnazione. Così si scommette sull’immediato futuro di Johnson: potrebbe soltanto ricominciare a fare discorsi pagati in giro per il mondo (l’ipotesi più accreditata) o forse invece buttarsi in un’altra avventura, comprarsi il Telegraph, che è in vendita, e dirigerlo (la meno accreditata).
Ma come spesso accade ai leader in dismissione, l’ex premier è invece molto ricercato all’estero: negli Stati Uniti dai centri studi conservatori che lo hanno già arruolato per andare a parlare agli elettori di destra negli stati più scettici nei confronti dell’Ucraina, e poi nella stessa Ucraina che gli riserva ogni volta un’accoglienza speciale. Così, mentre Johnson fa un’altra volta i calcoli, capisce se gli conviene candidarsi in un’altra suppletiva causata dalle dimissioni della sua alleata Nadine Dorries (un nome sulla lista espunto da Sunak) e quanto della fortuna del Partito conservatore vuole sprecare per la sua guerra a Sunak, il suo tesoro politico non è affatto la Brexit ma la sua salda capacità di organizzare gli alleati occidentali nella difesa dei valori liberali e democratici contro Mosca e contro i regimi. Alcuni gli consigliano: meglio Kyiv che Londra oggi, e sei anche più utile.