La svolta geopolitica
L'America secondo Modi. Così l'India cerca di frenare la Cina avvicinandosi agli Usa
Il premier indiano è a Washington per la prima “visita di stato” ufficiale dal 2009: dalla cooperazione industriale alla sicurezza nell’Indo-Pacifico, ecco i punti e le conseguenze dell’accordo fra i due paesi. Ma non chiamatela alleanza
Tutti sappiamo che l’India e gli Stati Uniti sono due grandi e complessi paesi. Certamente dobbiamo lavorare molto per far sì che i nostri popoli possano esprimere pienamente tutto il loro potenziale. Ma la traiettoria di questa partnership è chiaramente definita e piena di promesse”. Così ha dichiarato il segretario di stato americano Antony Blinken alla vigilia della visita del primo ministro indiano Narendra Modi negli Stati Uniti. Il viaggio inizierà oggi e si concluderà sabato. Modi è già stato ricevuto alla Casa Bianca dai presidenti Barack Obama e Donald Trump. Ma questa volta è diverso. Il viaggio è considerato “visita di stato”. La precedente visita di un primo ministro indiano con questa qualifica è stata quella di Manmohan Singh e risale al 2009. Narendra Modi, oggi, darà il via alle celebrazioni della giornata internazionale dello yoga di fronte al palazzo delle Nazioni Unite di New York. Domani, a Washington DC, sarà ricevuto alla Casa Bianca da Joe e Jill Biden e salutato con 21 colpi di cannone. Modi parlerà poi al Congresso americano riunito in sessione plenaria per “celebrare la duratura amicizia tra l’India e gli Stati Uniti basata su valori comuni”, come si legge nella lettera d’invito dei leader repubblicani e democratici della Camera dei rappresentanti e del Senato americani.
È ormai lontano il ricordo di quando, nel 2005, il visto diplomatico per gli Stati Uniti fu negato a Narendra Modi “perché un governo responsabile di gravi violazioni della libertà religiosa diventa ineleggibile per un visto americano”. Il riferimento era allo spaventoso pogrom che, nel 2002, si abbatté sulla comunità musulmana del Gujarat, quando Modi era a capo del governo dello stato e nulla fece per impedire il massacro. Venendo a tempi più recenti, nel rapporto annuale sulla libertà religiosa del 2022, redatto dal dipartimento di stato americano e pubblicato il mese scorso, si legge che in India “le forze dell’ordine ricorrono a continue violenze nei confronti delle minoranze religiose musulmana e cristiana in molte parti del paese”. Ma, da sempre, quando gli Stati Uniti cercano un alleato nell’Asia meridionale, non hanno mai preso troppo in considerazione la situazione interna dei paesi con cui stringono amicizia. Durante la Guerra fredda, l’America si alleò col Pakistan in funzione antisovietica, malgrado i colpi di stato militari dei generali Ayub Khan nel 1958 e di Zia-ul-Haq nel 1977. Adesso, gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India e l’India ha bisogno degli Stati Uniti, entrambi in funzione anticinese. Così l’America chiude un occhio sulle tendenze autoritarie del regime di Modi tra le mura di casa propria.
Storicamente, in India, nell’affrontare i problemi di politica estera e di sicurezza nazionale, maggioranza e opposizione hanno sempre dialogato e hanno spesso trovato una posizione comune. L’intero processo di avvicinamento dell’India agli Stati Uniti è stata un’operazione doppiamente bipartisan. L’avvio lo diede, nel 2008, Manmohan Singh (Partito del Congresso) quando firmò a New Delhi con George W. Bush (Partito repubblicano) l’accordo sull’energia nucleare per scopi civili. L’accordo andava oltre il nucleare ed esprimeva la volontà di entrambe le parti di superare gli ostacoli burocratici e le reciproche diffidenze che impedivano a New Delhi e a Washington di avviare una relazione più fruttuosa. Adesso, con l’incontro di Narendra Modi (Bharatiya Janata Party) con Joe Biden (Partito democratico), questo processo giunge alla sua logica conclusione. L’abbraccio tra Biden e Modi sarà anche l’abbraccio strategico di due paesi che hanno deciso di fare fronte comune nel contrastare la belligeranza cinese in Asia.
A Washington, ospite della Casa Bianca, Narendra Modi resterà impigliato nei complessi protocolli e cerimoniali di tutte le visite di stato. Ma il lavoro vero è già stato fatto. Domenica 4 giugno Lloyd Austin, il segretario della Difesa degli Stati Uniti, è volato a New Delhi per incontrare Rajnat Singh, il suo omologo indiano. Al termine della visita di due giorni, Austin e Singh hanno annunciato la definitiva messa a punto di una road map per la cooperazione industriale tra New Delhi e Washington nel cruciale settore della Difesa. La produzione congiunta di armamenti riguarderà “il combattimento aereo, la mobilità terrestre, l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione, le munizioni e l’ambito sottomarino”. Praticamente tutti gli aspetti di una guerra. La clausola dell’accordo strategicamente più importante per l’India è quella che fa riferimento alla coproduzione di motori della General Electric Ge F414 per i jet militari. Per più di 60 anni l’India ha fabbricato aerei da guerra su licenza prima sovietica e poi russa. Questi aerei nulla hanno a che fare con la tecnologia avanzata di cui sono dotati i motori degli aerei da combattimento americani e che ora saranno prodotti in collaborazione da Stati Uniti e India. Austin e Singh hanno anche annunciato il varo di un progetto chiamato “Indus-x” che prevede il coinvolgimento del settore privato di entrambi i paesi nella produzione di armamenti. La compagnia indiana Hindustan Aeronautics Limited, fabbricherà i motori per i jet da guerra in collaborazione con l’americana General Electric. L’India, per quanto riguarda le attrezzature militari, si sta allontanando sempre più dalla dipendenza dalla Federazione russa.
L’upgrading dell’aviazione militare è per l’India una priorità assoluta. Negli ultimi anni sono ripresi gli scontri di frontiera con la Repubblica popolare cinese. Nel mese di giugno 2020, venti soldati indiani sono stati uccisi nella valle del Galwan, in Ladakh, dagli uomini dell’Esercito popolare di liberazione. Malgrado 18 tornate di colloqui tra i due paesi, gli scontri continuano. Nel dicembre 2022 i due eserciti si sono confrontati nei confini orientali dell’Arunachal Pradesh, una regione indiana che la Cina rivendica come propria. Sessantamila uomini sono schierati da entrambe le parti lungo i 3.488 chilometri di una linea di confine che la Cina continua a non voler riconoscere. Recenti immagini satellitari hanno mostrato che nell’aeroporto di Lhasa, la capitale del Tibet, i cinesi stanno costruendo una nuova pista di decollo e un grande hangar per velivoli militari. Contemporaneamente, sono stati rafforzati gli aeroporti di Hotan nello Xinjian (400 chilometri in linea d’aria dal confine con l’India) e di Ngari Gunsa nella Regione autonoma (200 chilometri di distanza). Queste infrastrutture stanno cambiando in favore della Cina i rapporti di forza nell’intera regione himalayana.
L’intelligence americana sta già aiutando le Forze armate indiane in questa zona di confine. Lo fa fornendo continue informazioni e con il prestito di droni di sorveglianza militare, nel tentativo di aiutare l’India a respingere le continue aggressioni cinesi lungo la Linea di effettivo controllo (Lac). New Delhi ritiene tuttavia che solo con il rafforzamento e la modernizzazione della propria aviazione militare potrà riequilibrare le forze in campo nella regione. Lloyd Austin ha incontrato a New Delhi anche Ajit Doval, il consigliere per la Sicurezza nazionale indiana. In questo meeting l’accento è stato posto sull’Indo-Pacifico. In un comunicato si legge che entrambi i paesi intendono “garantire un Indo-Pacifico libero e aperto, basato sulle regole e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i paesi coinvolti”. Gli Stati Uniti vogliono attuare nell’Indo-Pacifico quella che chiamano la “deterrenza integrata” secondo cui anche la maggiore capacità dell’India di difendersi contribuirà alla stabilità e alla pace in questa area del mondo.
I documenti che Biden e Modi firmeranno a Washington conterranno tutto questo. Si tratta di un punto di svolta destinato a incidere profondamente sugli equilibri geopolitici mondiali. Kurt Campbell, coordinatore per l’Indo-Pacifico del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha dichiarato che “la visita del primo ministro indiano Narendra Modi ‘consacrerà’ le relazioni tra India e Stati Uniti come il più importante rapporto bilaterale dell’America a livello globale”. L’abile diplomazia indiana è più cauta. I funzionari del ministero degli Esteri di New Delhi hanno controllato due volte che nei documenti che Modi e Biden firmeranno alla Casa Bianca compaia solo la parola “partner” e mai quella di “alleato”.
“C’è una fiducia senza precedenti” tra i leader di Stati Uniti e India, ha detto Modi in un’intervista esclusiva con il Wall Street Journal pubblicata ieri. Formalmente l’India continuerà a seguire la politica estera di Nehru del non allineamento. Malgrado le forti pressioni americane, non entrerà a far parte della “Nato plus” che comprende i 31 paesi dell’Alleanza più Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele e Corea del sud. “Un’alleanza militare non è adatta all’India” ha detto pochi giorni fa il ministro degli Esteri indiano Subrahmaniam Jaishankar. L’India vuole evitare di essere costretta a entrare in guerra con la Cina nel caso di una crisi taiwanese che avrebbe conseguenze ancora più catastrofiche dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma, in questi tempi turbolenti, è difficile non prendere posizione e tutto va letto in filigrana. Avay Shukla, un funzionario in pensione dell’Indian civil service e oggi giornalista, scrive che “non si può stare seduti per sempre sulla staccionata che divide i due campi”. Anche se non lo vuole dire apertamente, con questa visita di stato di Narendra Modi negli Stati Uniti, l’India sembra avere deciso da che parte stare.