marcia indietro

Lukashenka, il mediatore improbabile

Micol Flammini

A fermare la cavalcata di Prigozhin a duecento chilometri da Mosca è stato il dittatore bielorusso, su richiesta di Putin. I mercenari tornano indietro, ma dopo ventiquattrore di caos, il soccorso di Minsk e il patto con il capo della Wagner, il capo del Cremlino conclude la giornata dimezzato

La prima telefonata di Vladimir Putin dopo il suo discorso in cui dava del traditore all’innominato Evgeni Prigozhin era stata al dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka. Secondo alcuni osservatori, il tracciamento dei jet governativi partiti dalla Bielorussia aveva lasciato intendere che proprio lui, proprio Lukashenka avesse potuto lasciare il paese per la Turchia. Se una marcia così spedita stava avanzando senza incontrare la resistenza dell’esercito russo, in Bielorussia, dove l’esercito è scarno e ancora meno motivato, un’iniziativa del genere sarebbe potuta essere ancora più rapida. Tanto più che alcuni dei combattenti bielorussi che sono in Ucraina al fianco di Kyiv avevano già annunciato di essere pronti a dirigersi verso Minsk e dalla loro parte avrebbero potuto avere anche il sostegno popolare forte, capillare, convinto dei cittadini che protestano contro il dittatore da tre anni. 

 


 

Lukashenka invece durante la giornata ha vestito i panni del mediatore improbabile, dello sgherro del presidente russo che parla con i banditi che cavalcano verso Mosca e macinano chilometri senza incontrare resistenza – perché probabilmente quei banditi, in quel momento, per l’esercito regolare che dovrebbe reagire e fermarli sono quasi una garanzia. Putin questa mattina ha chiamato alcuni suoi alleati, o presunti tali, con pochi di loro negli anni si è dimostrato bisognoso di aiuto. Forse ha chiesto un intervento armato, forse ha chiesto un passaggio. Lukashenka, tra tutti, è quello meno abituato a sentirsi chiedere aiuto, è dipendente da tre anni da Putin per il sostegno ricevuto durante le manifestazioni, il suo legame con il presidente russo, travagliato negli anni, si è fatto stretto come un cappio al collo. La paura dei disordini, delle rivoluzioni, dei golpe è forte in stati come Bielorussia e Russia, ma per anni il Cremlino si era presentato come il garante della stabilità, l’avanzata di Prigozhin ha dimostrato invece che Putin è il fautore del caos. 

 

Lukashenka ha accolto da parte del presidente russo il mandato di parlare con Prigozhin, e l’ufficio stampa del dittatore ha detto che i colloqui sono andati avanti durante tutta la giornata, durante tutta la marcia, che si è fermata a duecento chilometri dalla capitale. Il dittatore ha parlato con il capo dei mercenari, che, mentre Mosca si blindava, mentre tutti si domandavano dove fosse Putin, è riuscito a concludere un accordo. Prigozhin ha ordinato ai suoi di fermarsi, di tornare indietro, di cancellare le tracce della marcia che aveva chiamato “della giustizia”. Lukashenka ha assicurato di aver proposto ai mercenari delle condizioni “assolutamente vantaggiose e accettabili” per risolvere la situazione e Prigozhin,. nell’annunciare la fine della sua giornata di audacia irrefrenabile, ha detto che era arrivato il momento di fermarsi “per evitare uno spargimento di sangue”. In un messaggio audio ha detto: “Siamo arrivati a duecento chilometri da Mosca senza versare una goccia di sangue, ora che per continuare invece dovremmo versarne, per senso della responsabilità invertiamo la rotta dei nostri convogli e torniamo alle nostre basi”. 

 

I confini di Mosca rimangono porosi, le sue strade sono il simbolo della fragilità dell’esercito, di Putin e del putinismo. La triangolazione Putin-Prigozhin-Lukashenka è il gioco fra tre alleati che si fidano poco ma incredibilmente legati l’uno all’altro. Sia il capo della Wagner sia il dittatore bielorusso sono dove sono anche grazie al presidente russo, che ora ha un debito enorme con il secondo e un patto con il primo dalle condizioni ancora sconosciute. Mentre i tre parlavano, trattavano, negoziavano, la controffensiva ucraina avanzava.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)