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L'analisi

Il rogo del Corano in Svezia insegna che il mercato delle idee va regolamentato

Pasquale Annicchino

Tra libertà di espressione, infrastrutture giuridiche e principi della società occidentale. Un dilemma per le democrazie: come difendersi da chi sabota il discorso pubblico

La possibile superficie d’attacco di un sistema determina la sua tenuta e la sua stabilità. Più ampia sarà la superficie, più numerosi saranno i possibili punti d’ingresso per attaccare il sistema. In un mondo che, nonostante le policrisi di cui sentiamo parlare ogni giorno, si presenta ancora piatto in alcuni aspetti essenziali, secondo il ben noto argomento proposto da Thomas Friedman, bruciare sulla pubblica piazza un libro sacro in una città europea può scatenare reazioni incontrollate che minacciano la stabilità e la sicurezza di cose e persone a migliaia di chilometri di distanza. Per molti commentatori occidentali tale dinamica è incomprensibile. Ci siamo abbeverati per anni alle teorie della secolarizzazione e abbiamo creduto che le religioni fossero destinate a diventare marginali nelle vite degli uomini. Vittime delle miopie della secolarizzazione non riusciamo a comprendere come sia possibile che milioni di persone possano scendere in piazza, manifestare e arrivare a decisioni che ci sembrano assolutamente implausibili nel contesto dell’epistemologia del mondo che ci siamo costruiti.

 

Accade così che le strutture di plausibilità proprie di società dove la religione riveste un ruolo centrale e determinante entrino in rotta di collisione con le strutture di non plausibilità che gran parte del mondo occidentale post cristiano riserva ormai al ruolo della religione nella sfera pubblica. Come è del resto possibile indignarsi se viene “solamente” bruciato un Libro? Per qualcuno significherà pure qualcosa ma, per l’occidentale post cristiano, può essere solo inquadrato nelle categorie della necessaria difesa della libertà d’espressione destinata inesorabilmente a trionfare su ogni altra considerazione. Sembra essere stata questa la struttura di plausibilità che ha portato la Corte d’appello svedese a voler garantire la possibilità per Salwan Momika, di origine irachena e residente in Svezia con lo status di richiedente asilo, di poter organizzare una manifestazione per bruciare il Libro sacro dell’islam in quanto, secondo Momika, rappresenterebbe un “pericolo per le leggi democratiche e per i valori svedesi e umani”. La polizia, che pur in un primo momento si era opposta, ha dovuto cedere davanti alla decisione del potere giudiziario.


È tuttavia opportuno sottolineare che la polizia ha precisato che Momika è stato denunciato per istigazione all’odio e anche per il rogo sulla base della normativa locale del municipio di Stoccolma che proibisce di accendere fuochi in pubblico. Così le reazioni non si sono fatte attendere e il sistema è andato in crisi. Nella notte il Marocco ha richiamato il suo ambasciatore condannando il gesto come “offensivo e irresponsabile”. Secondo il ministero degli Esteri di Rabat, “questo nuovo atto offensivo e irresponsabile ignora i sentimenti di oltre un miliardo di musulmani, in questo periodo sacro del grande pellegrinaggio alla Mecca e della festa benedetta di Eid al Adha”. Anche la Turchia ha condannato l’accaduto. Hakan Fidan, ministro degli Esteri turco, ha definito l’atto “spregevole” e ha sottolineato come sia “inaccettabile permettere queste azioni dietro il pretesto della libertà di espressione, tollerare un atto atroce di questo tipo significa essere complici”. Fahrettin Altun, portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha sottolineato come “coloro che cercano di diventare nostri alleati nella Nato non possono tollerare o permettere comportamenti distruttivi da parte di terroristi islamofobi e xenofobi”. Ha inoltre precisato che “chiunque permetta questo atto criminale ne è anche complice”.

 

Tutto questo avviene a pochi giorni dall’importante vertice di Vilnius dell’11 e 12 luglio nel quale la Svezia spera di poter mitigare l’opposizione turca per il suo ingresso nella Nato. Nel mondo piatto delle guerre culturali globali la superficie d’attacco rende possibile ad attori ben attrezzati di poter intervenire, con pochi mezzi materiali, in delicati processi politici e di poterli influenzare sfruttando la logica della centralizzazione della comunicazione globale. A patto che si sappia come manipolare le strutture di plausibilità entro le quali si vuole intervenire. Del resto, quello dell’infiammare le piazze dell’islam globale tramite il rogo del Corano non è un esercizio nuovo nel contesto del dibattito politico dei paesi occidentali. Il pastore statunitense Terry Jones è riuscito a costruirci una carriera mediatico-politica da quando, il 12 luglio 2010, decise di annunciare al mondo la sua intenzione di dare fuoco al Corano. L’annuncio riuscì allora a centrare subito il bersaglio. Hillary Clinton, allora segretario di stato, colse subito il potere mefistofelico insito nel possibile sabotaggio che si inserisce all’interno delle strutture di plausibilità in un contesto di guerre culturali globali: “È spiacevole che un pastore di Gainesville in Florida, con una chiesa di non più di cinquanta fedeli, possa concepire un piano così oltraggioso e che mette a disagio e riuscire a imporsi all’attenzione del mondo”. Il generale Petraeus, allora capo delle Forze armate statunitensi e Nato in Afghanistan, evidenziò come “sono proprio queste le azioni che i talebani strumentalizzano causando problemi significativi. Questo avviene non solo in Afghanistan, ma in tutti i paesi in cui abbiamo rapporti con le comunità musulmane”.

 

Fu lo stesso presidente Obama a lamentarsi dei limiti della reazione giuridica rispetto al piano del pastore di Gainesville, e sottolineò quanto poco fosse possibile fare. La reazione politica riuscì a far sì che Jones decidesse di non procedere con il suo piano. Tuttavia, bruciò poi pubblicamente copie del Corano in più eventi negli anni successivi. L’ordinamento statunitense tutela massimamente la libertà d’espressione individuale e, in casi del genere, la possibilità d’intervento delle istituzioni, anche davanti a sfide importanti che riguardano la sicurezza, risultano davvero minime. Lo evidenziava già Catherine Holmes in un importante articolo pubblicato in quegli anni per una rivista della Washington University, dove metteva a confronto l’ordinamento statunitense con quelli europei. La Holmes evidenziava il differente approccio degli ordinamenti europei che tendono a bilanciare il diritto alla libertà d’espressione con altri diritti e quindi a produrre decisioni che possono limitare la libertà d’espressione. Non è stata questa la decisione della Corte svedese che, invece, nella valutazione del caso ha deciso che non sussistessero in concreto sostanziali pericoli per la sicurezza pubblica. Per Catherine Holmes, l’ordinamento statunitense fondato sull’idea del mercato delle idee destinato ad autoregolarsi era allora da considerarsi superiore perché consente agli individui di scegliere liberamente tra gli argomenti e le idee disponibili quali premiare. Il mondo del 2010 era molto diverso da quello di oggi. I bot e le fabbriche di troll non riuscivano a influenzare in maniera così importante il dibattito pubblico. Le immagini del rogo di un libro non circolavano in maniera così vorticosa e virale nelle chat di WhatsApp, l’intelligenza artificiale generativa non era a disposizione di piani diabolici di sabotaggio del discorso pubblico.

 

Se lo scambio delle idee nel mercato muove non dalle premesse della libera discussione degli individui, ma da quelle della manipolazione by design allora non esiste più il mercato delle idee. E se non c’è il mercato delle idee vengono meno importanti presupposti sostanziali e giuridici su cui si basa la tutela del diritto alla libertà d’espressione in molte società occidentali. Ma cosa resta senza il mercato delle idee e come si difende la società dai manipolatori e dai sabotatori? La domanda deve necessariamente fare paura perché implica una decisione politica sul ruolo dei poteri pubblici nella definizione dell’infrastruttura giuridica alla base del nostro discorso pubblico. È, molto probabilmente, una domanda che non possiamo eludere perché se non decidono le istituzioni decideranno altri attori.

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