(foto LaPresse)

Dall'Ucraina al Myanmar

Una croce rosso sangue. La storia difficile dell'organizzazione umanitaria

Maurizio Stefanini

Il ruolo delle strutture sanitarie nelle guerre e i numerosi tentativi di sabotaggio nei loro confronti. Dal buco di bilancio al record di attacchi, sono tempi duri per chi tenta il soccorso

Sparare sulla Croce Rossa: nel momento in cui la macabra iperbole sta diventando sempre più una terrificante realtà, è forse doveroso ricordare come l’Italia non solo è all’origine della stessa organizzazione umanitaria, ma fu purtroppo pioniera anche in questo tipo di attacchi. Il Movimento internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, la più grande organizzazione di questo tipo al mondo con i suoi 115 milioni di volontari e le 192 società nazionali che vi aderiscono, fu infatti ispirato allo svizzero Jean Henry Dunant proprio dal terribile spettacolo della disorganizzazione con cui furono portati i soccorsi ai feriti durante la battaglia di Solferino e San Martino del 24 giugno 1859, durante la Seconda guerra di indipendenza. Ma fu poi proprio l’Italia fascista a sparare sulla Croce Rossa. Anzi, a bombardarla: il 30 dicembre 1935, quando la Regia Aeronautica lanciò 107 bombe all’iprite su un ospedale della Croce Rossa svedese a Dolo, in Etiopia. Vennero distrutte tutte le tende e le attrezzature mediche; morirono due svedesi e tra i 18 e i 28 etiopi, mentre un terzo svedese fu ferito.

 

Subito dopo un secondo volo lanciò volantini in ahmarico: “Avete trasgredito le leggi dei regni e delle nazioni uccidendo un aviatore prigioniero, decapitandolo. Secondo la legge, i prigionieri devono essere trattati con rispetto. Di conseguenza, riceverete la punizione che meritate”. Riferimento a Tito Minniti, che abbattuto e catturato quattro giorni prima era stato torturato, evirato e decapitato, e il governatore di Harar aveva approvato quando gli avevano portato la testa infilzata su una picca. Ma il bombardamento dell’ospedale a livello internazionale fece più rumore che non lo scempio di Minniti, per cui Mussolini ordinò a Graziani di non bombardare altri ospedali. O finse di ordinarlo, visto che di lì alla fine della guerra ne furono in realtà colpiti un’altra ventina: anche di Croce Rossa canadese, statunitense e britannica e della Mezzaluna Rossa egiziana. Il presidente della Croce Rossa italiana Filippo Cremonesi denunciò peraltro l’uso scorretto delle bandiere e insegne della Croce Rossa da parte delle truppe abissine, su depositi di munizioni e stabilimenti militari.

 

Sparare sulla Croce Rossa: un modo di dire che forse risale ai bombardamenti fascisti in Etiopia. Le violenze continuano ancora oggi

 

Fu lì l’origine del modo di dire, che peraltro è tipico dell’italiano? Ad esempio, anche la locuzione “un ambaradam” per indicare una gran confusione deriva da quel conflitto. In effetti, ci sarebbe pure una leggenda urbana secondo cui il modo di dire sarebbe nato da uno di quegli “sparatutto” elettromeccanici che tra gli anni 60 e 80 anticiparono i videogame al computer, e dove in un percorso di guerra scorrevano carri armati, jeep e altri mezzi a velocità diverse e proporzionate ai punteggi. Il più lento era un’ambulanza della Croce Rossa, che riuscivano a colpire tutti, ma valeva un punto solo. Ma, in realtà, al massimo può avere rilanciato un modo di dire già esistente, perché ad esempio nel 1961 Raffaele La Capria nel romanzo “Ferito a morte” mette la frase: “Spara, spara! Continua a sparare sulla Croce Rossa!”. E al 1916 risale il manuale “La scuola positiva nella dottrina e nella giurisprudenza penale” in cui Enrico Ferri ricorda il “convenzionale dell’Aia, indugiandosi a rilevare i divieti di uccidere i prigionieri, di far impiego di sicarii, di usar l’uniforme militare del nemico, dello sparare sulla Croce Rossa, di adoperar la bandiera bianca per valersene come tranello”.

 

Sulla sua esperienza nel 1862 Dunant aveva scritto il libro “Un ricordo di Solferino”, che suscitò molta impressione. Nel 1863 assieme al giurista Gustave Moynier, al generale Guillaume-Henri Dufour e ai medici Louis Appia e Theodore Maunoir creò un Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti più noto come Comitato dei cinque, che il 26 ottobre 1863 organizzò a Ginevra una conferenza internazionale con l’adesione di 18 rappresentanti di 14 paesi, e 12 di loro il 29 ottobre firmarono la prima Carta fondamentale con le dieci risoluzioni che definirono le funzioni e i mezzi dei Comitati di soccorso. Tra essi Svizzera, Belgio, Danimarca, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo e quattro stati che di lì a otto anni sarebbero finiti nel nuovo Impero tedesco: Baden, Assia, Prussia e Württemberg. Appena in tempo per la Guerra dei ducati che sarebbe scoppiata nel febbraio 1864 tra Danimarca e Prussia, e che rappresentò l’esordio sul campo per il Movimento il cui nome e emblema riprendono in realtà la bandiera svizzera, capovolgendone però i colori della croce bianca in campo rosso.

 

Strumento del soft power svizzero, il Cicr si trova con un deficit di 430 milioni di franchi. Licenziamenti annunciati e sedi chiuse

 

La prima occasione per le Società nazionali di soccorso per intervenire in aiuto dei feriti e delle vittime da entrambe le parti mostrò però subito le difficoltà di intervento. Così, l’8 agosto 1864, il governo svizzero convocò una conferenza diplomatica con i rappresentanti di 11 nazioni europee e degli Stati Uniti, e il 22 agosto 1864 si arrivò alla ratifica della prima convenzione di Ginevra per il miglioramento della sorte dei feriti in battaglia. Nel 1876 anche l’Impero ottomano aderì, con la riserva di sostituire al simbolo cristiano della croce una mezzaluna: esempio poi seguitò da altri paesi islamici, e nel 1929 riconosciuto in modo ufficiale. Nel 1901 Dunant vinse il primo Premio Nobel per la Pace. Nel 1917 il Nobel andò a tutta la Croce Rossa, per l’impegno nella Grande guerra. Nel 1919, vista appunto l’ingente quantità di persone e mezzi utilizzati dall’organizzazione durante il conflitto, il dirigente della Croce Rossa americana Henry P. Davidson propose per la prima volta l’impiego di queste risorse anche in tempo di pace, ponendo le basi per quella Lega delle società della Croce Rossa che fu costituita il 5 maggio 1919 a Parigi, e che nel 1991 prese il nome di Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

 

Nel 1944 arrivò il secondo Nobel, per l’impegno della Seconda guerra mondiale. Quarantaquattro anni dopo la storico svizzero Jean-Claide Favez tirò fuori dagli archivi le prove che la Croce Rossa aveva già saputo del genocidio ebraico nel 1942, ma aveva taciuto per evitare rappresaglie che le avrebbero impedito di lavorare, e che forse avrebbero potuto addirittura innescare una invasione tedesca della Svizzera. “Avremmo corso un rischio notevole. Forse avremmo fatto una figura migliore, certo, però per gli ebrei le cose non sarebbero affatto cambiate”, commentò l’allora direttore generale Jacques Moreillon. Nel 1949 fu riconosciuto anche il terzo simbolo del Leone e Sole Rossi, usato dall’Iran, che però dopo la Rivoluzione islamica nel 1980 passò a sua volta alla Mezzaluna Rossa. Non fu riconosciuta invece la Stella di Davide Rossa usata da Israele, per evitare una proliferazione infinita. Infine l’8 dicembre 2005 è stato approvato l’uso di un Cristallo Rosso non associato con cristianesimo o islamismo e utilizzabile da tutti, anche inserendovi altri emblemi locali. Nel frattempo, nel 1963 era arrivato il terzo Nobel. Sempre per impulso della Croce Rossa sono arrivate le  quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, i due protocolli aggiuntivi del 1977 e il protocollo aggiuntivo del 2005. Basi dell’attuale diritto umanitario.

 

Con i 781 attacchi segnalati nel corso del 2022 la Russia ha stabilito il record da 10 anni in materia di violenza contro ospedali e operatori umanitari

 

Insomma, la Croce Rossa è assieme al sistema bancario l’altro strumento essenziale del soft power svizzero nel mondo, tant’è che il governo federale la presenta spesso come suo naturale prolungamento. Esattamente come la banca, però, anche il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), depositario delle Convenzioni di Ginevra, è oggi in crisi. Da una parte, il Credit Suisse a marzo ha dovuto essere venduto alla rivale Ubs su pressione del governo di Berna, proprio per evitare il fallimento. Dall’altra, il Cicr si trova con un deficit da 430 milioni di franchi svizzeri – 441 milioni di euro – per il 2023. In dieci anni, il suo budget è più che raddoppiato, passando da 1,18 miliardi di franchi svizzeri nel 2012 a 2,84 miliardi nel 2022. Come conseguenza immediata, l’organizzazione ha annunciato che dovrà licenziare almeno 1.800 dei suoi 22.700 dipendenti nel mondo. La maggior parte, nelle delegazioni sul campo all’estero. Ventisei delle 350 sedi dovranno chiudere e altre dozzine dovranno ridimensionarsi. 

 

“Avrebbe dovuto mantenere l’accento sul suo mandato essenziale”, è la critica che in una intervista al Corriere del Ticino ha fatto Pierre de Senarclens: lui stesso ex vicepresidente della Croce Rossa svizzera oltre che professore onorario di relazioni internazionali all’Università di Losanna, ex direttore della divisione diritti umani e pace dell’Unesco e uno dei fondatori dell’Organizzazione mondiale contro la tortura. “Quello della protezione delle vittime dei conflitti armati e dei prigionieri di guerra, dell’assistenza in questo campo, senza entrare in settori che appartengono di principio alle agenzie per lo sviluppo”. Ma, riconosce sempre Pierre de Senarclens, “oggi abbiamo decine di stati che si stanno disintegrando attraverso guerre civili. E tutto contribuisce ad aumentare lo spazio dell’approccio umanitario, una svolta avuta negli anni Ottanta: piuttosto che intervenire sulle cause, si trattano le conseguenze del sottosviluppo”. In dieci anni le persone bisognose nel mondo di un aiuto urgente sono passate da 140 a 340 milioni. “Quando ci si occupa di vittime di guerra, ci si confronta con problemi di vario tipo. Per esempio persone mutilate, che quindi necessitano di protesi”. “Attività difficilmente catalogabili tra sviluppo e aiuto umanitario”. Uno spostamento che è sembrato inevitabile: ma il Cicr “si è fatto intrappolare dalla sua stessa capacità di ottenere fondi per questo tipo di attività, che erano ai margini del suo mandato”.

“In Iran e Myanmar, quando le manifestazioni politiche vengono represse, il personale medico che assiste i manifestanti viene arrestato”

 

Lo stesso Corriere del Ticino nel commentare i toni di Le Monde – “dopo il Credit Suisse, è il turno del Comitato internazionale della Croce Rossa”, “la stabilità elvetica vacilla” – non ha mancato di rilevare in questo “sguardo degli altri sulla Svizzera” una gran tentazione di “buttare tutto nello stesso calderone”. Insomma, di sparare sulla Croce Rossa, in senso sempre metaforico. Ma già molto meno metaforica è la decisione senza precedenti del regime di Daniel Ortega. “Tutto il patrimonio, i beni e gli asset che ad oggi appartengono all’associazione chiamata Croce Rossa nicaraguense diventano proprietà dello stato, e verranno amministrati dalla [nuova] Croce Rossa nicaraguense – ente decentrato dipendente dal ministero della Salute”, recita testualmente il testo che decreta la chiusura dell’ente umanitario presente in Nicaragua dal 1931, e che è stato votato il 9 maggio da un’Assemblea Nacional addomesticata con 91 voti su 91. L’associazione Croce Rossa avrebbe violato, secondo il regime, i princìpi di umanità, imparzialità e neutralità, durante le massicce proteste antiregime del 2018. In realtà, aveva semplicemente prestato assistenza medica e umanitaria alle centinaia di vittime della brutale repressione che investì la popolazione scesa in strada contro la dittatura. I cecchini del regime si misero a mirare alla testa, e ci furono più di 300 morti. Insomma, Ortega ha sparato con pallottole giudiziarie contro la Croce Rossa per la colpa di aver soccorso coloro a cui i suoi sgherri avevano sparato con pallottole vere.
Ma, al di là della metafora, sempre più c’è chi contro la Croce Rossa sta sparando a sua volta con pallottole vere. “Sparare sulla Croce Rossa? La Russia lo fa”, aveva denunciato proprio sul Foglio del 16 dicembre 2022 Adriano Sofri nella sua Piccola Posta. L’impressione del testimone è ora pienamente confermata da un rapporto appena uscito a cura di una Safeguarding Health in Conflict Coalition che comprende Human Rights Watch e il Johns Hopkins Center for Humanitarian Health, e secondo il quale con i 781 attacchi segnalati nel corso del 2022 la Russia ha stabilito il record da dieci anni in materia di violenza contro ospedali e operatori umanitari.

 

“Ignorare le linee rosse. Violenza contro l’assistenza sanitaria” è il titolo del documento di 116 pagine. Sette sono dedicate all’Ucraina, con inoltre 461 episodi in cui strutture sanitarie sono state danneggiate o distrutte, 115 veicoli sanitari distrutti e 78 lavoratori della sanità uccisi. “Le forze russe hanno effettuato attacchi all’assistenza sanitaria su una scala senza precedenti nelle prime settimane dell’invasione. Durante il periodo dal 24 febbraio al 31 marzo, questi attacchi sono stati in media quasi otto al giorno, con quasi il 70 per cento di essi che danneggiano le strutture sanitarie. Inoltre, sono continuate le violenze contro l’assistenza sanitaria durante tutto l’anno, con una media di oltre due incidenti registrati ogni giorno nell’intero anno”. “Cliniche, magazzini sanitari, ospedali e farmacie hanno subito danni almeno 279 volte nel 2022, interessando circa l’11 per cento di tutti i 2.500 ospedali ucraini”. “In almeno un caso a Bashtanka, nell’oblast di Mykolaivska, le prove indicano che le forze russe hanno utilizzato un missile a guida di precisione contro un ospedale”. “Nel 2022, 61 operatori sanitari sono stati rapiti o imprigionati dalle forze russe o da persone che lavoravano con personale russo e presi come prigionieri di guerra. Molti sono stati interrogati e picchiati. Ad esempio, a marzo, a un assistente di laboratorio di un ospedale di Kiev sono state amputate le dita dei piedi dopo che le forze russe hanno torturato lui e suo padre e lo hanno costretto a indossare stivali pieni d’acqua per un periodo prolungato”. “In un incidente a Kherson, un’infermiera è stata impiccata”.

 

“Il disprezzo per la legge è contagioso”, ha detto Len Rubenstein, presidente della coalizione e professore alla Johns Hopkins University. “Quando vedi che qualcuno può farla franca attaccando ospedali e assistenza sanitaria, sei incoraggiato a farlo. La Russia non ha subito conseguenze per aver preso di mira gli ospedali in Siria, e ora seguono gli assalti a centinaia di ospedali ucraini”. Infatti anche in Siria si continua a sparare sulla Croce Rossa: 42 incidenti, 19 operatori sanitari arrestati, 10 uccisi, 11 strutture danneggiate o distrutte. Ma più della metà dei 1.989 attacchi a strutture sanitarie e lavoratori segnalati a livello globale sono avvenuti in Ucraina e Myanmar. Oltre all’Ucraina, il rapporto rileva arresti e incarcerazioni di personale medico come rappresaglia per aver fornito servizi sanitari ai dissidenti. In Myanmar e Iran, 183 medici sono stati colpiti. “Abbiamo visto in Iran e Myanmar che quando le manifestazioni politiche vengono violentemente represse, il personale medico che fornisce assistenza sanitaria ai manifestanti viene arrestato”. Nel 2023 la situazione globale non è comunque destinata a migliorare. Non solo infatti gli attacchi in Ucraina non si stanno attenuando e compaiono nuovi conflitti, ma ad aprile è iniziata in Sudan una guerra civile che ha portato il sistema sanitario del paese già in difficoltà sull’orlo del collasso, con ospedali e cliniche saccheggiati e bombardati e medici rapiti. Purtroppo, ci sono pochi precedenti per gli attori statali che devono affrontare conseguenze legali a causa della violazione di queste leggi. Solo un caso di attacco contro una struttura sanitaria è stato perseguito con successo ai sensi del diritto internazionale, quando due ex ufficiali delle forze armate serbe sono stati condannati nel 2007 per il loro ruolo nel massacro dell’ospedale di Vukovar nel 1991.

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