Il mio nome è Ipazia
L’ambasciatrice Basile svela di essere la firma di punta della propaganda filorussa sul Fatto Quotidiano
Apprezza le posizioni sulla guerra di Orbán, ce l’ha con la Nato e con i “media mainstream” che “tifano per la guerra mondiale”, è indignata per “l’impoverimento del dibattito pubblico”, adesso si sente vittima di “un nuovo fascismo” della “élite incattivita” che “si getta come un branco su chi dissente, su chi si scosta dal pensiero unico occidentale”, denuncia “la propaganda dei dem Usa” che avrebbe “cambiato antropologicamente la società”. Elena Basile, sul suo profilo Linkedin, si definisce scrittrice di narrativa e commentatrice di politica internazionale. Su quello Facebook aggiunge pure “creator digitale” (sul digitale non è stato possibile verificare, ma sul creator abbiamo diversi riscontri, soprattutto nel campo dello storytelling).
Non manca mai di aggiungere nei suoi profili pubblici “Ambasciatrice di Italia in Svezia e in Belgio”, anche se in realtà sarebbe più corretto scrivere ex: prima a Stoccolma, dal 2013 al 2017, e poi a Bruxelles, fino al 3 aprile del 2021. In effetti la carriera diplomatica di Basile è d’imbarazzo in queste ore nei corridoi della Farnesina: ieri lei stessa, sul suo profilo Twitter, tra la foto di un gattino e un selfie, ha svelato di aver scritto “molti articoli col pseudonimo Ipazia” su un giornale perfettamente in linea con le sue idee: il Fatto quotidiano. Il punto è che per un diplomatico è vietato commentare notizie d’attualità, politica estera e geopolitica per una ragione facilmente intuibile: la professione dell’ambasciatore è, o dovrebbe essere, super partes, e c’è una linea sottile tra politica e diplomazia ben chiara a chiunque abbia superato l’esame di stato. E dunque Ipazia, cioè Basile, avrebbe dovuto chiedere un permesso al ministero degli Esteri per vergare articolesse, un permesso mai giunto a destinazione, a quanto risulta al Foglio. Ma c’è di più: perché Elena Basile non scriveva soltanto con il nom de plume di Ipazia su un quotidiano, i suoi commenti erano pure sui suoi social network personali. Per esempio, il 16 giugno del 2022, scriveva di sperare che “gli invasati fanatici odierni si documentino e non temano la verità” a commento di un articolo di Sallusti del 2015 dal titolo “In Ucraina un golpe chiamato Obama”. Sempre un anno fa commentava la frase di Papa Francesco (“l’abbaiare della Nato ha facilitato l’aggressione di Putin all’Ucraina”) con la fine analisi: “Verità o menzogna? Gridiamolo in coro insieme al Papa: VERITÀ. Questa è libertà di espressione”.
“Non parlo di politica internazionale. Vietato”, ripete nelle ospitate tv per presentare il suo nuovo romanzo, quello che addirittura Filippo La Porta descrive come “una prosa malinconico-visionaria e una leggerezza di tocco che richiama i film di Truffaut”. Lo fa pure a “DiMartedì”, ospite nel maggio del 2022, in una puntata tutta dedicata alla guerra in Ucraina. E infatti le domande di Floris non riguardano i personaggi della sua saga familiare ma la guerra, e l’ambasciatrice ben volentieri risponde che la diplomazia deve ammettere che tra Russia e Ucraina “ci sono interessi geopolitici contrapposti, entrambi legittimi”. Però da Ipazia aveva un linguaggio perfino più esplicitamente filorusso: lo scorso aprile definiva una “ridicola menzogna ripetuta fino all’esaurimento” quella di dare agli ucraini “un’autonomia di scelta”. Richiamava la necessità di frenare “l’atlantismo muscolare”, quello che come una manina manipola tutti: del resto per Basile sarebbe bastato poco per evitare la guerra, scriveva su Linkedin: “Neutralità dell’Ucraina, autonomia linguistica e regionale al Donbass, evitare la penetrazione economica e militare anglosassone dell’Ucraina occidentale”. Et voilà, così si fermano i missili di Putin.
Su Twitter ieri scriveva di essersi “dimessa da una carriera che mi retribuiva bene per potere ascoltare la mia coscienza”. “Dimissioni volontarie”, conferma la Farnesina interpellata dal Foglio, che precisa: “Le manifestazioni pubbliche della dottoressa Basile non riflettono in alcun modo la posizione del governo né del ministero degli Esteri, e sono pertanto espresse a titolo puramente personale”.
E chissà se queste dimissioni non siano piuttosto legate a una riflessione più ampia della personalità dell’ambasciatrice, e c’entri qualcosa il fatto che pur avendo il Foglio domandato a diverse fonti della carriera di Basile, anche tra chi ha lavorato a stretto contatto con lei, si fa fatica a trovare estimatori: più frequenti i commenti sul suo carattere “particolare” con idee “un po’ diverse”. Ma la rinuncia allo stipendio in nome della libertà serve a costruire l’immagine della pensatrice libera che vuole dire la sua verità, ed è un espediente letterario già visto, applicato anche da altri esponenti della propaganda filorussa. Il canovaccio è quello tipico del complottismo: si tirano fuori tesi non smentibili, inverificabili, che alludono, dove l’occidente è quasi sempre schiavo dell’America brutta e cattiva. Se non se ne può parlare, allora è censura del mainstream. Il canovaccio funziona ancora meglio se la gola profonda ha fatto parte del “deep state”, come quando il 27 giugno scorso l’ormai libera Ipazia-Basile scrive di essere stata “convocata”, da ambasciatrice in Svezia, nel 2014, a “una colazione di lavoro dal polacco”, e c’era pure il rappresentante diplomatico francese, quello tedesco, il vicesegretario della Nato e l’ambasciatore americano. Una colazione di lavoro con un ordine del giorno: il regime change. Sarebbe materia da romanzo – non c’è un solo governo tra quelli americani, tedeschi polacchi o francesi che abbia mai confermato di avere in agenda il regime change in Russia, e di certo non se ne parla a una colazione di lavoro a Stoccolma – un feuilleton che avrebbe potuto essere pubblicato da qualunque giornale, e invece l’ha fatto uno in particolare: il Fatto.