Il Foglio del weekend
Presidente, addio. L'all in di Chris Christie
Tra i candidati repubblicani alla Casa Bianca, l’unico che attacca Trump di petto è l'ex governatore del New Jersey, che dice: “Io lo conosco bene”
"La visibilità è una trappola”, diceva Michel Foucault. Non aveva però preso in considerazione che con i riflettori costantemente puntati in faccia sembra più facile avvicinarsi alla Casa Bianca. I casi giudiziari sbattono Donald Trump in prima pagina, offrendogli così il supporto incondizionato di una buona percentuale di elettori repubblicani. Nei giorni dell’incriminazione per i documenti top secret, Trump ha toccato il 54,8 per cento, contro un Ron DeSantis che a malapena supera il 20. Ma non ci sono solo loro due, l’ex presidente incriminato e il crociato dell’anti wokismo, a scontrarsi per Pennsylvania Avenue. L’arena degli aspiranti Potus nel fronte repubblicano è ben più variegata, piena di vecchie glorie e totali sconosciuti, giovani e vecchi, bianchi e neri, che cercano di farsi largo tra gite in Iowa e ospitate sulla Fox. Possono non avere delle chance – è ancora presto per dirlo – ma è sicuro che la loro presenza nell’arena politica può servire, se non altro, a reindirizzare la bussola del Gop, che negli ultimi anni è stata attratta da un nord magnetico populista, nazionalista e filo Altright.
Tra chi si è lanciato sul ring c’è Chris Christie, sessantenne, simpatico, corpulento ex governatore del New Jersey, un po’ Sopranos, un po’ Gotham City. Avvocato. Mamma siciliana. Uno zio, acquisito, membro della famiglia mafiosa dei Genovese, quella fondata da Lucky Luciano. I due mandati di Christie alla guida del Garden State, dal 2010 al 2018, sono stati antitetici. Il primo è stato un successone. Riuscì a essere eletto nella patria della working class cantata da Bruce Springsteen in uno stato tendenzialmente democratico. Era riuscito a farsi notare a livello locale dopo esser stato nominato da George W. Bush procuratore federale, con una missione anticorruzione e antiterrorismo all’alba dell’11 settembre. Fece incriminare centinaia di persone. I primi quattro anni da governatore furono coronati dall’accoglienza a Barack Obama, quando arrivò dopo l’uragano Sandy per portare aiuti economici federali. L’abbraccio tra Christie e l’allora presidente scatenò indignazione da parte di alcuni repubblicani – tra cui Trump – e, in una stagione di costante polarizzazione, posizionò il governatore tra chi poteva dialogare e operare in modo bipartisan. Dopotutto, Christie è sempre stato un moderato, anche su due temi chiave che oggi costruiscono l’identità della destra: aborto e armi. Molto distante dalle narrazioni cospirazioniste QAnon, è più vicino al vecchio Gop pratico, liberale e antistatalista. Christie nel suo stato, famoso per ospitare Atlantic City, la Las Vegas della costa atlantica, ha legalizzato il gioco d’azzardo online e le scommesse sportive, per poterne tassare i guadagni. E ha sempre lavorato a fianco di legislatori democratici. Fino a che non si è spostato l’ago della bilancia, Christie è sempre stato pro choice, e non ha mai voluto scardinare le restrittive leggi del New Jersey sul possesso di armi da fuoco che fanno impallidire i Maga. Il secondo mandato è ricordato invece per lo scandalo del ponte: tre corsie che attraversano il ponte George Washington, passaggio obbligato per i pendolari che arrivano a New York, furono chiuse causando un traffico insostenibile per cinque giorni nel comune di Fort Lee. Secondo le investigazioni l’obiettivo era punire il sindaco di Fort Lee perché non aveva appoggiato la candidatura di Christie. E anche se il governatore non era direttamente coinvolto in questa storia di vendetta, perse molti pezzi della sua amministrazione e chiuse il mandato con un pessimo tasso di approvazione.
Dopo l’amministrazione statale del Garden State, e una piccola pausa nel privato – “per divertirmi, per fare soldi” disse – sono arrivate le aspirazioni nazionali. Qualcuno gli aveva fatto capire che poteva provarci già nel 2012, ma poi aveva lasciato perdere. L’allora candidato alla presidenza Mitt Romney l’aveva messo nella lista dei possibili vicepresidenti, per poi preferire il giovane Paul Ryan. Arrivata con il 2016 l’occasione per cambiare colore a Washington, dopo otto anni obamiani, Christie è salito sul palco delle primarie. Quel palco dove inizialmente tutti ridevano di Trump, che insultava a destra e a manca, vantandosi di essere l’unico non professionista, l’unico non pagato dalle lobby. Quel palco dove, mentre Jeb Bush, Ted Cruz, Rand Paul e compagnia analizzavano i reciproci insuccessi cercando di focalizzarsi sulle policies, Trump aspettava, guardandoli mentre si azzannavano a vicenda, aspettando la loro caduta. Su quel palco, quando settimane dopo ormai Trump era dato sorprendentemente come front-runner e qualche testa era già stata tagliata, Christie scelse di demolire il senatore Marco Rubio, dimostrandone i difetti retorici, volendo mostrarsi come quei governatori che si sentono in contatto con il popolo. Come quegli amministratori che sanno ascoltare i problemi della gente e vedono i membri del congresso come dei pappagalli che ripetono i discorsi su quant’è bella l’America scritti dagli spin doctor. Rubio uscì dalla competizione, pieno di lividi. Di Trump diceva invece che sembrava “un tredicenne”.
Quando però Christie ha capito come sarebbero andate le cose, il 10 febbraio del 2016 ha sospeso la sua campagna ed è salito sul carro del vincitore. Era lì quando Trump ha festeggiato l’elezione a New York, mentre le fan di Hillary piangevano. E’ stato per anni nel suo cerchio magico, abbandonando le sue posizioni moderate delle origini. Si pensava a un suo posto chiave nell’amministrazione, lui avrebbe tanto voluto essere alla guida del dipartimento della Giustizia, ma fu affossato da Jared Kushner, marito di Ivanka, e da Steve Bannon, il Rasputin dell’Altright, che non lo trovavano adatto per la nuova amministrazione populista. Gli rimase così una posizione da consigliere informale, da portavoce non ufficiale. Andava in tv a difendere l’operato e le gaffe del suo capo. “Ha riscritto il manuale della politica americana”, diceva. “Non c’è nessuno di più preparato di Donald Trump che possa dare all’America la forte leadership di cui ha bisogno, qui e in tutto il mondo”.
Poi, come è successo per molti ex fedeli, all’alba del 6 gennaio 2021, quando le milizie di Oath Keepers e Proud Boys hanno assaltato il Campidoglio, Christie si è staccato dal “grande leader”. “Penso che oggi il presidente si sia comportato in modo incredibile”, disse per l’occasione. “Posso dirvi che, conoscendolo da vent’anni, oggi ha superato un limite che nessuno di noi può sopportare, soprattutto da parte di chi ha avuto l’onore di essere eletto alla guida di questo paese”. Christie è tornato agli attacchi del 2016. Ma se allora lo definiva “un tredicenne”, ora lo chiama “bambino”. Come se i quattro anni di esperienza accanto a lui gli avessero fatto declassare l’età mentale del tycoon. Adesso, da quando a inizio giugno ha lanciato la sua candidatura per il 2024, l’ex governatore è diventato il più aperto oppositore di The Donald. Lo attacca frontalmente, senza mezze misure. Un po’ per non alienare la base dei cappellini rossi e un po’ per paura di ritorsioni, dovesse tornare al potere, gli altri candidati non sono aggressivi con Trump. Lo temono. Hanno paura di diventarne il bersaglio nei futuri dibattiti pubblici. Evitano di commentare la sequela di incriminazioni, da Stormy Daniels agli scatoloni di documenti tenuti nel bagno. Solamente DeSantis ogni tanto lancia qualche invettiva più personale e in risposta riceve soprannomi poco generosi nei tweet sgrammaticati (“Meatball Ron” o “Ron DeSanctimonious”). Di fronte a una generale strizza, Christie ha fatto all in. O la va o la spacca. Ha messo tutti i soldi sul tavolo e ha deciso di diventare, almeno in questa fase, il nemico numero uno di Trump nel fronte repubblicano. “Trump è il peggior manager della storia della presidenza americana”, dice. “Quando qualcuno non è d’accordo con lui diventa un bambino petulante”. Cita il suo ego smisurato e la sua vanità, che lui ha visto da vicino a Washington. L’arma della spudoratezza, per cancellare i quattro anni di servilismo, sta avendo il suo effetto. Non nei sondaggi, ma almeno di visibilità sulla stampa. Con la sua parlantina da avvocato, esplicito e stringato, Christie viene invitato spesso a parlare da Cnn e Cbs, da quei network filodemocratici dove i giornalisti non vedono l’ora di sentire insultare Trump. A differenza di molti nel Gop, Christie attacca Trump anche sul caso dei documenti top-secret portati a Mar-A-Lago e trovati poi dall’Fbi, distaccandosi dalla narrazione della caccia alle streghe che invece, a destra, molti appoggiano. L’ex presidente è stato incriminato, ma se avesse consegnato tutto, come ha fatto intelligentemente Biden, i procuratori non si sarebbero accaniti, spiega Christie, usando la sua expertise da ex procuratore, da uomo della legge, che non se la sente di prendersela con il dipartimento della giustizia. “E’ il peggior nemico di sé stesso”, dice di Trump. “Sa che è nei guai. Ha tenuto i documenti perché gli ricordano che è stato al potere. Non riesce a vivere sapendo che ha perso contro Joe Biden, e vuole continuare a far finta di essere il presidente”. In televisione gli hanno chiesto perché non ha paura dell’ex presidente. “Perché è una tigre di carta”, ha risposto Christie. “Non gliene frega niente degli americani. Se lo rimettiamo nella Casa Bianca sarà peggio della prima stagione, perché ora è arrabbiato. Sarebbero quattro anni di ritorsioni verso i suoi nemici”. Lui compreso.
Ma gli attacchi di Christie al suo ex boss hanno un respiro più sistemico che personale. L’ex governatore ha trovato una chiave che forse può convincere l’establishment del Gop a mollare The Donald, a liberarsi di questo fardello che ha distrutto il dialogo bipartisan. Il messaggio è: Trump è un perdente. Anche se è dato primo nei sondaggi delle primarie, avendo ancora una solida base convinta che le elezioni del 2020 siano state rubate e che ci sia in atto una politicizzazione della giustizia, Trump non ha chance contro un candidato democratico. “He’s a looser”, dice Christie. E cita non solo le ultime presidenziali, ma anche le ultime elezioni di metà mandato che, contro ogni pronostico, hanno fatto guadagnare il Senato ai dem. E quelle del 2018, dove il Gop ha perso la maggioranza alla Camera. “E’ da sette anni che i repubblicani perdono”, dice. Liberandosi di Trump, fa intendere Christie, si potrebbe tornare a uno scontro tra i due partiti meno personalistico, meno polarizzato, e cita Ronald Reagan e il valore del compromesso che, dice, “è diventata una parolaccia”. Prima di lanciarsi nell’arena, Christie ha detto che “non si potrà battere Trump andandogli incontro, facendogli piedino e facendo finta di essere quasi come lui”. Un affondo a DeSantis, che vuole brandizzarsi come un Trump più fresco, giovane e intelligente, rubandogli l’elettorato estremista. Christie ha detto che il governatore della Florida è un finto conservatore, che se l’è presa con la Disney inutilmente, che per via delle culture wars ha compiuto un atto illiberale, limitando le scelte di un’azienda privata. E aggiunge: “Non è la persona che vorrei vedere di fronte al presidente Xi Jinping, o seduto davanti a Putin per cercare di risolvere quello che sta succedendo in Ucraina”, se non riesce a risolvere le cose con la Disney.
Christie punta ai repubblicani NeverTrump e a quegli elettori indipendenti e moderati. Anche perché, attaccando Trump, non avrà mai l’appoggio della sua base Maga. Sembra esserci nelle parole rivolte da Christie a Trump un misto di godimento e di imbarazzo. Godimento per poter finalmente dire quello che pensa, imbarazzo perché a lungo ha difeso l’indifendibile. Ma ora sembra aver imbracciato la missione del sabotatore, vuole togliere punti a Trump, scardinarne l’immagine. E’ quasi una missione kamikaze. Anche perché oggi Christie è dato al 2 per cento tra i suoi colleghi di partito. Se glielo fanno notare lui dice: “Quando Trump si è candidato, con la famosa scena della scala mobile a New York, era dato al 3 per cento, poi ha vinto”. Spera che i dibattiti estivi, e il posizionarsi come anti-trumpiano numero uno lo aiutino nei sondaggi. Forse serve un bullo per metterne in crisi un altro.
Trump, Trump, Trump. Si parla poco dei programmi dei singoli candidati e molto di come sfidare il grande spettro arancione che soffia tra tribunali e campi da golf e che ha lasciato un’indelebile traccia nel conservatorismo americano. Cosa vorrebbe fare Christie dovesse finire nello Studio ovale? Non lo sappiamo. E non è nemmeno così importante. La sua missione è quella di mostrare all’elettorato del Gop che esiste un’alternativa, magari non è lui, ma esiste un modo diverso di fare politica, di assumersi l’incarico presidenziale senza trattarlo come se fosse un reality show. E che le questioni di law & order non sono appannaggio solo dei democratici. Il payoff elettorale di Christie sul suo sito e a breve su adesivi e spillette, se troverà i fondi, è “Because the truth matters”, perché la verità è importante. Un tentativo di andare oltre la post-verità che ha facilitato l’ascesa dei trumpiani, di quei personaggi che hanno abbandonato accountability, vergogna ed empatia pensando di governare solo demonizzando gli antagonisti.
Cose dai nostri schermi