Il Foglio del weekend
Vedi alla voce proibizionismo. Quando un goccio di whisky era anticostituzionale
“Morte al rum”: la madre delle guerre culturali in America puntava non a una legge, ma alla modifica della Costituzione
Carrie Nation era diventata famosa per la sua accetta. Entrava nei bar e nei pub, scortata da un gruppo di donne furibonde come lei, inveiva contro gli uomini che stavano tranquillamente scolando una pinta di birra e poi tirava fuori l’arnese e spaccava botti e bottiglie. “E’ Dio che me lo chiede!”, rispondeva a chi provava a capire la ragione di tanto fanatismo antialcolico. E a furia di colpi d’ascia e d’accetta, Carrie e le sue seguaci guidarono l’America fino al Proibizionismo.
Se le guerre culturali che dividono gli Usa sembrano un fenomeno contemporaneo, forse è perché si è persa la memoria di personaggi come lei. L’America oggi sembra dividersi in modo irreparabile tra pro e contro su tutto – aborto, matrimoni gay, diritti Lgbtq, armi, cosa insegnare a scuola e quali monumenti tenere nei parchi pubblici – ma non è niente di nuovo. Gli attuali schieramenti sono gli eredi dei wet e dei dry, i “bagnati” e gli “asciutti”, i favorevoli e i contrari all’alcol. Che erano poi, allora come oggi, in buona parte gli abitanti delle grandi città (wet) contro quelli delle zone più rurali e del sud (dry). Il Proibizionismo è stata la madre di tutte le guerre culturali, soprattutto per la scelta del bersaglio a cui puntavano i suoi promotori: la Costituzione. Bere un goccio di whisky, un secolo fa, non era diventato semplicemente vietato, ma anticostituzionale.
E’ dal 1787, quando fu sottoscritta a Philadelphia, che quella carta unisce e divide l’America ed è costantemente al centro di tentativi di tirarla da una parte o dall’altra. Ha avuto 27 emendamenti (inclusi uno per vietare l’alcol e uno per cancellare il divieto) ed è ancora oggi al centro dei grandi scontri che nascono per le sentenze della Corte suprema, l’esclusivo club di nove giudici nominati a vita e incaricati di interpretarla. Un anno fa è stato cancellato il diritto costituzionale all’aborto, nei giorni scorsi ha fatto discutere la sentenza sull’affirmative action, che ha spazzato via sessant’anni di politiche che ritenevano un diritto costituzionale la “discriminazione positiva”, per dare corsie preferenziali nell’accesso ai college ai neri e alle minoranze. Le battaglie culturali sono sempre scontri sulla Costituzione e sui suoi emendamenti.
La Corte la settimana scorsa, per esempio, ha usato il primo emendamento, quello sulla libertà di espressione, per riconoscere il diritto di una società di servizi matrimoniali di rifiutarsi di servire le coppie gay. I sostenitori delle armi libere per tutti, a loro volta, utilizzano continuamente il secondo emendamento, sul diritto alla difesa personale, per giustificare la possibilità per tutti di entrare in un supermercato Walmart e armarsi come mercenari della brigata Wagner. Fin dall’inizio dell’esperimento americano, il timore dei padri fondatori era che gli abitanti delle ex colonie si dividessero in modo irreparabile in fazioni contrapposte e mettessero così a rischio l’obiettivo di camminare insieme verso una “more perfect Union”, come avevano scritto nel preambolo della Costituzione. Per cercare di tenere unita la nuova, fragile nazione, si era scesi anche a tragici compromessi. Quel “We the People” che apriva la carta costituzionale, per esempio, era un “We” che teneva fuori completamente i neri, che gli stati del sud non consideravano assolutamente parte del concetto di “People”. E non era bastato per evitare una guerra civile. Leader fondatori come James Madison o Thomas Jefferson non volevano sentir parlare neppure dell’idea di dar vita a partiti politici, per il timore che alimentassero divisioni. Ma non era possibile evitare idee e programmi radicalmente diversi, che fecero emergere con il tempo i democratici e i repubblicani di oggi. E nei secoli si è continuato a dividersi quasi sempre in due blocchi, un po’ su tutto.
Se schiavismo e segregazione sono la grande piaga ancora in buona parte irrisolta della storia americana, l’antenato delle guerre culturali attuali non sta tanto nella questione razziale – che è un dramma storico con radici anche europee – quanto nel bizzarro fenomeno del Proibizionismo. Gli wet e dry di un tempo assomigliano alle derive ideologiche degli attuali Maga e woke, come si dividono all’ingrosso gli estremisti trumpiani (Maga, Make America Great Again, è il motto-brand creato da Donald Trump) e gli altrettanto estremisti liberal che premono l’acceleratore su tutta una serie di diritti o presunti tali che vorrebbero veder protetti dalla Costituzione. Anche se woke è un termine nato nel mondo della lotta per i diritti civili dei neri, che è stato stravolto e sabotato da destra e pare ormai abusato e incomprensibile. Fin dai tempi delle colonie, il nuovo mondo si era subito diviso su whisky e rum, visti dai puritani come strumenti del demonio da combattere per poter assicurare una società ordinata. Per tutto il Diciannovesimo secolo si è cercato di inserire il divieto di consumo di alcool nel dibattito politico degli stati e del governo federale. La American Temperance Society, il primo movimento proibizionista, nasce nel 1826. Un Partito proibizionista viene fondato alla fine della guerra civile. La potente Women’s Christian Temperance Union si forma nel 1874, sotto la guida di donne ispirate dalle chiese protestanti più rigide e puritane: metodiste, battiste, presbiteriane, quacchere, luterane. Carrie Nation era una di loro e tra il 1900 e il 1910 finì in galera una trentina di volte per aver guidato assalti all’arma bianca contro le rivendite di alcolici. Il suo zelo ideologico la fa assomigliare a personaggi attuali come la super trumpiana Marjorie Taylor Greene, la deputata della Georgia celebre come promotrice di teorie cospirative e per le sue sparate non solo verbali: è diventata famosa per i video in cui imbraccia e usa un fucile semiautomatico AR-15, di quelli tragicamente celebri per le stragi scolastiche.
Con Carrie Nation il movimento della “temperance” antialcolica fece il salto di qualità per porre le basi per arrivare al proibizionismo. E lo fece anche con una accurata campagna di comunicazione, come accade in tutte le guerre culturali. Carrie fece diventare un’icona la propria accetta, creò spille a forma di ascia da distribuire alle proprie seguaci e lanciò campagne nazionali all’insegna del motto “Morte al rum”. Pian piano, alcuni stati diventarono dry, aprendo una spaccatura nel paese. Cominciò il Kansas nel 1881, modificando la propria Costituzione statale e vari altri lo seguirono. Ma l’obiettivo finale era quello di mettere le mani sulla Costituzione federale. Non bastava portare la sfida fino al Congresso, non bastava intervenire con una legge che valesse per tutti gli Stati Uniti. Il movimento dry, carico com’è era di ideologia puritana e di motivazioni religiose, scelse la strada di puntare a un emendamento alla Costituzione, l’arma giuridica più forte che ci sia in America. Perché nella storia americana, fino ad allora, nessun emendamento era mai stato cancellato.
Con l’aumento dell’immigrazione, lo scontro dry contro wet divenne anche una guerra di religione e una sfida etnica. I cattolici, la fede che gli immigrati europei portavano con sé dal vecchio mondo, erano contrari a forme di proibizionismo legate all’alcol, ritenevano inconcepibile una battaglia sui liquori, un atteggiamento moralista e puritano da protestanti. Li appoggiavano i luterani tedeschi, che incarnavano all’inizio del Ventesimo secolo una delle etnie con più migranti nel paese, ma anche quella con più interessi da difendere, perché rappresentava tutto il mondo dei birrifici. A St. Louis, per esempio, operava già da tempo un’azienda creata da due immigrati tedeschi, Eberhard Anheuser e Adolphus Busch, che aveva conquistato un largo mercato nel paese con le proprie birre. Nel 1876 la Anheuser-Busch aveva lanciato il primo brand nazionale di birra americano, creando un prodotto ispirato a un tipo di lavorazione importato dalla cittadina boema di Budweis: si chiamava “Budweiser” e circolava già a fiumi. Un po’ come oggi sta accadendo con le guerre culturali contemporanee, prima di arrivare a Washington anche il tema della lotta all’alcol fu per lungo tempo una questione dei singoli stati. Nove di essi nel primo decennio del Ventesimo secolo dichiararono il divieto di produrre e consumare alcolici, seguendo l’esempio del Kansas. Ma nessuno all’epoca pensò che il divieto potesse diventare nazionale, per un motivo molto pragmatico e molto americano: il governo di Washington dipendeva in maniera rilevante dai soldi che arrivavano dalla tassazione degli alcolici.
Due circostanze cambiarono però radicalmente la storia. La prima aveva a che fare ancora una volta con la Costituzione e i suoi emendamenti. Nel 1913 fu approvato il sedicesimo emendamento alla carta costituzionale, che introduceva la possibilità per il governo di imporre tasse sul reddito degli americani. Per le casse federali esisteva adesso un’alternativa al flusso di denaro che arrivava dai liquori. Washington non rischiava più la bancarotta nel caso di una svolta dry. Un nuovo scenario che galvanizzò i protagonisti del movimento contro l’alcol. Il 10 dicembre 1913 la capitale fu invasa da una manifestazione di migliaia di attivisti proibizionisti, che sfilarono sul Mall, il luogo dell’identità del paese, chiedendo per la prima volta un divieto costituzionale per l’alcol. La seconda svolta arrivò nel 1917 con l’entrata degli Stati Uniti nel blocco delle nazioni impegnate a combattersi nella Prima guerra mondiale. D’un tratto i tedeschi divennero il nemico e l’intera comunità tedesca nel paese si trovò emarginata e discriminata. Il loro prodotto principale, la birra, subì le ire patriottiche di un paese in assetto bellico. Malto fermentato e luppolo vennero visti come strumenti degli “unni” – come li chiamava la propaganda bellica – che gli Usa stavano combattendo in Europa.
Fu sulla scia di questi nuovi fenomeni che in Congresso si fece strada una maggioranza che proponeva un diciottesimo emendamento alla Costituzione: quello che introduceva il divieto di produrre, commerciare e consumare alcolici. E come in tutte le guerre culturali americane, il paese si divise per gruppi di interesse. Non solo stati dry contro stati wet, non solo città contro campagne, non solo democratici contro repubblicani (i due partiti avevano al loro interno fazioni a favore e contro il proibizionismo), ma qualcosa di più complesso. Grandi industriali come Andrew Carnegie e Henry Ford – i Jeff Bezos ed Elon Musk dell’epoca – appoggiavano il divieto di alcolici, perché temevano gli operai che bevevano, ritenendoli più difficili da controllare. I sindacati socialisti a loro volta sposavano il proibizionismo, perché i liquori per loro erano uno strumento del capitalismo per dominare la classe operaia. Booker T. Washington, uno dei maggiori intellettuali neri dell’epoca, voleva vietare l’alcol pensando che impedisse agli afroamericani di sollevarsi dallo stato di sottomissione. E gran parte dei bianchi del sud volevano il proibizionismo, all’opposto, perché avevano paura dei neri con l’alcol: li ritenevano più pericolosi e li preferivano sobri.
Quando il diciottesimo emendamento fu approvato in Congresso, l’America wet pensò che sarebbe stato comunque impossibile vederlo ratificare da 36 stati come prevede la Costituzione. Il tempo massimo per la ratifica fu fissato in sette anni, dopo i quali l’emendamento sarebbe decaduto. Sembrava un arco di tempo sicuro per i politici wet. Invece il voto in 36 stati arrivò in soli tredici mesi. Il 17 gennaio 1920 un drink alcolico divenne una sostanza illegale in tutta America, con l’entrata in vigore del Volstead Act, la legge che dettò le regole introdotte dal nuovo emendamento alla Costituzione. A New York e a Chicago a festeggiare furono la mafia e i gangster come Al Capone, che avevano trovato un modo rapido per diventare ricchi con l’alcol di contrabbando e gli “speakeasy”, i bar clandestini. L’America continuò a bere di nascosto (neanche troppo: tutti sapevano dove trovare whisky e rum e le autorità chiudevano un occhio) ma la grande novità introdotta dal Proibizionismo fu il fatto che una larga parte del paese, apparentemente maggioritaria, aveva voluto imporre a tutti non solo e non tanto una legge, quanto una modifica alla Costituzione.
Il paese poi cambiò idea nel 1933. Fu introdotto il ventunesimo emendamento che, per la prima volta nella storia della Costituzione, ne cancellava uno precedente. A quel punto l’America era nel pieno della Grande Depressione, l’alcol non veniva più percepito come un nemico, il governo aveva bisogno di soldi e non poteva lasciare i profitti del commercio dei liquori alle organizzazioni criminali. Ma il Proibizionismo aveva aperto la strada alle future guerre culturali. E sull’alcol rimase in piedi un compromesso puritano: quello di lasciare gli stati liberi di decidere l’età minima per il consumo legale degli alcolici. E’ significativo che quando, nel 1984, venne introdotta una legge che prevedeva contributi federali agli stati che ponevano il divieto a 21 anni, tutti e cinquanta fissarono quell’età come soglia per poter bere legalmente una birra. Un divieto che resiste ancora oggi.