L'intervento
Per un'Europa nel futuro. Il discorso di Mario Draghi a Cambridge
Le alternative per gli europei oggi sono: paralisi, uscita o integrazione. I costi per stare più uniti e perseguire i nostri obiettivi condivisi sono molto più bassi che in passato. Il potenziale inutilizzato, le occasioni e le sfide. Le parole dell'ex premier al National Bureau of Economic Research
Signore e signori, è un grande onore tenere la lecture Martin Feldstein di quest’anno. Sono profondamente grato a Jim Poterba e al National Bureau of Economic Research (Nber) per l’invito. Il Nber è un pilastro del pensiero economico mondiale. Avete orientato il lavoro dei policymaker e avete contribuito a rendere il mondo un posto migliore. Sono personalmente molto grato per le ricerche che avete prodotto durante il periodo in cui ho lavorato per il governo e per le banche centrali.
Vorrei anche rendere omaggio a Martin Feldstein. Per tutta la mia carriera è stata una figura dominante, e di fatto è stato grazie a un suo invito che ho partecipato al primo Summer Institute nel 1978. Il suo lavoro nelle politiche fiscali, nell’economia pubblica e nei comportamenti dei risparmiatori ha trasformato il modo in cui pensiamo a intere aree di ricerca. Le ricerche di Marty hanno sempre unito idee perspicaci con solide prove empiriche e rilevanza politica. In quanto capo consigliere economico del presidente Ronald Reagan, ha guidato un cambio di paradigma nella relazione tra i governi e i mercati, e non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. E ha fatto tutto questo continuando ad avere cura degli studenti e dei dottorandi, facendo da mentore a diverse generazioni di economisti.
La mia lecture di oggi si concentrerà su un argomento che stava molto a cuore a Marty: la creazione dell’Unione monetaria europea e il suo futuro, sulla quale Marty era estremamente scettico. La sfida macroeconomica fondamentale della formazione di un’unione monetaria è stata delineata nel 1961 da Robert Mundell ed era incentrata sulla gestione degli choc asimmetrici. Dato che la politica monetaria e le politica sul tasso di cambio venivano allora attribuite alla gestione degli choc comuni, sarebbero stati necessari altri meccanismi di aggiustamento per affrontare gli choc asimmetrici e impedire loro di innescare crolli regionali prolungati. Mundell ha identificato quei meccanismi di aggiustamento nei trasferimenti fiscali e nella mobilità del lavoro e dei capitali, che potevano stabilizzare la domanda ex post nelle aree depresse. Nella letteratura successiva è stato anche riconosciuto il ruolo cruciale della condivisione del rischio attraverso l’integrazione del mercato dei capitali, che limiterebbe l’entità degli choc locali ex ante.
L’euro, tuttavia, è andato avanti con poche di queste condizioni in opera. I trasferimenti fiscali tra gli stati membri sotto forma di assunzione dei debiti reciproci sono stati messi fuori legge nel Trattato di Maastricht, riflettendo quella filosofia per la quale i paesi dovrebbero “mantenere in ordine casa propria” e non fare affidamento sulla magnanimità degli altri. L’adeguamento regionale attraverso la mobilità del lavoro era poco sviluppato, con studi dell’epoca che rilevavano che la maggior parte degli choc occupazionali veniva assorbita attraverso i cambiamenti nel tasso di partecipazione piuttosto che attraverso la migrazione. E non c’è stato alcun tentativo serio di integrare i mercati finanziari europei, al di là di un morbido allineamento normativo. Allora perché l’hanno fatto? Viste da questo lato dell’Atlantico, le ragioni erano spesso incomprensibili. Molti economisti ci avvertirono che l’unione monetaria europea fosse destinata a fallire, che le élite avevano imbrogliato il popolo e – come ci fece presente Marty Feldstein in un famoso articolo del 1997 su Foreign Affairs – che le conseguenze sarebbero state gravi, condannando l’Ue sia come strumento economico sia come progetto politico. Ma c’era sempre un’altra prospettiva, cioè che l’euro fosse la conseguenza di decenni di integrazione passata – in particolare l’evoluzione del Mercato unico europeo – e che fosse solo un passo ulteriore nella lunga strada verso un’unione politica.
Da questo punto di vista, la domanda chiave non era se l’Eurozona fosse un’area valutaria ottimale fin dall’inizio – evidentemente non lo era – ma se i paesi europei fossero disposti nel tempo a farla convergere in quella direzione. Le conseguenze immediate della creazione dell’euro, tuttavia, hanno accresciuto i dubbi degli scettici. Ed è facile capire perché molti non considerassero credibile questa narrazione politica, soprattutto una volta che fu lanciato l’euro e le fasi successive dell’unione politica hanno cominciato a prendere vita.
Quando hanno avuto la possibilità di dimostrare il loro impegno verso un’unione politica sotto forma di una costituzione europea, gli europei l’hanno respinta. E l’Ue a metà degli anni 2000 ha scelto di allargarsi all’Europa orientale senza riformare le sue regole decisionali, probabilmente indebolendo invece che rafforzando la sua natura politica. Ma avendo preso parte ai negoziati per l’unione monetaria nei primi anni Novanta, quando ero a capo del Tesoro italiano, posso attestare che questa motivazione politica fosse reale. L’obiettivo di costruire un’Unione europea sempre più unita era profondo, nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, tramandato da generazioni di leader politici e concepito soprattutto per evitare conflitti in Europa. E la moneta unica è stata vista come un passo fondamentale verso quell’obiettivo, e per preservare le conquiste del mercato unico. La priorità è stata quindi quella di cogliere il momento storico e non attendere che si verificassero tutte le condizioni necessarie. E c’era la convinzione genuina che l’impegno fondamentale per l’unità europea avrebbe creato la volontà politica per affrontare eventuali difetti di progettazione che sarebbero stati scoperti lungo il percorso. Quindi, siamo andati avanti, aggirando le nostre contraddizioni ma nella ferma convinzione che si sarebbero risolte nel tempo.
Nel frattempo, il successo sarebbe dipeso dal verificarsi di tre condizioni. Per prima cosa gli stabilizzatori fiscali nazionali dovevano essere in grado di operare liberamente, il che, data la dimensione dei bilanci nazionali in Europa, avrebbe potuto in condizioni normali fornire una sostanziale stabilizzazione degli choc locali. Le stime dell’epoca suggerivano che i bilanci nazionali avrebbero potuto fornire una stabilizzazione degli choc asimmetrici pari a quella del bilancio federale degli Stati Uniti. In secondo luogo, l’impegno politico nei confronti dell’euro avrebbe dovuto creare trasferimenti impliciti al posto di quelli espliciti, attraverso i paesi fiscalmente più deboli che “prendono in prestito” la credibilità di quelli fiscalmente più forti e beneficiano di minori costi di finanziamento. Ciò avrebbe consentito ai governi di attuare politiche di stabilizzazione senza minacciare il loro accesso al mercato. In terzo luogo, le regole fiscali avrebbero dovuto essere concepite e applicate in modo tale da ancorare la fiducia nella solidità a medio termine delle finanze pubbliche, in modo che le espansioni anticicliche non generassero problemi fondamentali di solvibilità. In tal modo, le promesse che sono alla base di quei trasferimenti impliciti non si sarebbero mai verificate.
Per il primo decennio dell’euro, le prime due di queste condizioni sono state ampiamente soddisfatte. I mercati hanno visto gli emittenti sovrani dell’Eurozona come sostanzialmente intercambiabili, con lo spread sulle obbligazioni italiane che si avvicinava, entro pochi punti base, a quello tedesco. E gli stabilizzatori fiscali nazionali sono stati in grado di operare in modo relativamente libero di fronte a choc economici moderati, come dopo l’11 settembre e dopo il crollo della bolla delle dotcom. Ma la terza condizione non si è realizzata. Le regole di bilancio europee erano state costruite attorno a limiti di disavanzo – con un tetto del 3 per cento del pil – che hanno creato una prociclicità intrinseca. Ogni volta che un paese cresceva rapidamente avrebbe visto entrate inaspettate che avrebbero fatto sembrare allentato il tetto del deficit, portando a sua volta a impegni di spesa crescenti e deficit strutturali più elevati. Ma se il ciclo avesse avuto un cambio brusco, quelle entrate sarebbero svanite mentre gli impegni strutturali sarebbero rimasti, riducendo rapidamente lo spazio fiscale. Di conseguenza, di fronte a uno choc molto grande dopo il fallimento della Lehman, i deficit sono aumentati a dismisura. E temendo diffusi default, anche i creditori privati sono stati salvati dai governi, spingendo i debiti pubblici più vicino a livelli che non potevano essere sostenuti dai soli trasferimenti impliciti. L’ambiguità costruttiva dell’impegno comune per l’euro doveva essere colmata da piani dettagliati di ciò che sarebbe accaduto in extremis.
Inizialmente i governi hanno risposto ampliando il quadro politico dell’Eurozona per consentire trasferimenti limitati sotto forma di assistenza finanziaria nello stile del Fondo monetario internazionale. E l’hanno fatto con successo, lanciando il primo salvataggio della Grecia e un meccanismo comune di finanziamento europeo. Ma poi i leader dell’Ue hanno annunciato alla fine del 2010 che i futuri salvataggi sarebbero stati soggetti alla ristrutturazione del debito sovrano: il cosiddetto “accordo di Deauville”. In un istante, questo ha interrotto i trasferimenti impliciti e ha iniettato il rischio di credito in tutti i bond sovrani europei. Questo ci ha lasciato di fronte a due scelte nette. La prima è stata quella di accettare diffusi fallimenti sovrani al fine di fare un “reset” dell’unione a livelli di debito inferiori, preservando così il principio che gli stati fiscalmente più forti non dovessero pagare per quelli più deboli. Ma proprio perché i livelli di indebitamento iniziale erano così elevati e le disponibilità di titoli sovrani era concentrata all’interno del sistema bancario dell’Eurozona, i default non potevano essere contenuti se non in casi molto limitati. Temendo perdite di capitale e, nel peggiore dei casi, la ridenominazione in valute di valore inferiore, gli investitori hanno svenduto il debito pubblico di qualsiasi paese percepito come vulnerabile, innescando un circolo vizioso di bilanci bancari in peggioramento, di inasprimento delle condizioni del credito e crescita in caduta e, in ultima analisi, di profonde frammentazioni finanziarie. Entro il 2012, gli spread rispetto ai titoli di stato decennali tedeschi hanno raggiunto i 500 punti base in Italia e i 600 punti base in Spagna, con spread ancora più ampi in Grecia, Portogallo e Irlanda. Dato che queste economie rappresentavano un terzo del pil dell’Eurozona, era impensabile che il resto dell’Unione non venisse trascinato, senza operare un cambio di rotta.
La seconda opzione era quindi quella di rendere i trasferimenti più espliciti, che è ciò che l’Europa ha fatto alla fine, anche se in modo non ottimale. Ha ampliato il suo meccanismo di finanziamento comune, che ha aumentato la condivisione del rischio attraverso prestiti transfrontalieri all’interno dell’Unione. La letteratura recente rileva che prima della crisi del debito sovrano veniva assorbito nell’Eurozona soltanto il 40 per cento circa degli choc specifici per paese, come misurato dalla deviazione tra consumi e produzione. Una volta istituita questa assistenza ufficiale circa il 60 per cento degli choc è stato attenuato. Questo prestito a sua volta ha facilitato una forma di trasferimento fiscale, poiché i creditori pubblici hanno esteso i loro prestiti per decenni a seguire a tassi di interesse fissi molto bassi, che porteranno nel tempo a grandi trasferimenti intertemporali ai paesi che hanno ricevuto assistenza finanziaria. Questa risposta ha avvicinato gradualmente l’Eurozona a un’area valutaria ottimale. Ma i trasferimenti erano ancora in qualche modo inferiori al modello che Mundell aveva immaginato. Il problema principale era il loro effetto stabilizzante, che veniva minato nei paesi riceventi dai rigidi termini dei programmi di aggiustamento che li accompagnavano. Allo stesso tempo, le regole fiscali procicliche dell’Europa hanno aggravato la debolezza della domanda portando una contrazione fiscale aggregata a uno choc recessivo. Dato che i paesi si sono sforzati di rimanere al di fuori dei limiti del disavanzo, l’orientamento fiscale dell’Eurozona dal 2011 al 2013 si è inasprito di circa 4 punti percentuali del pil potenziale, anche nei paesi che disponevano di un ampio margine di bilancio e non hanno subìto pressioni di mercato, riducendo così la domanda per le esportazioni da paesi senza spazio fiscale. E circa due terzi del risanamento fiscale complessivo è avvenuto attraverso aumenti delle tasse piuttosto che dai tagli alla spesa, riducendo così ulteriormente il reddito disponibile e il consumo.
Il difficile cammino verso la costruzione di un’unione monetaria ottimale è stato illustrato dalle risposte divergenti in Europa a questi sviluppi. In Grecia e in altri paesi, anni di austerità hanno alimentato il crescente populismo. Ma in Germania, anche l’euroscetticismo è cresciuto quando sono comparsi nuovi partiti che si opponevano ai salvataggi e tenevano a bordo i paesi più deboli. Nonostante tutti questi problemi, tuttavia, l’euro è sopravvissuto. La Banca centrale europea ha annunciato nel 2012 che nel suo mandato c’era la volontà di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, una decisione sancita dalla Corte di giustizia europea tre anni dopo. Gli investitori hanno smesso di scommettere contro la dissoluzione della moneta comune poiché sapevano che i decisori europei non avrebbero mai permesso che accadesse. E i governi di tutti i colori e di tutti i paesi hanno continuato a sostenere il progetto, preferendo aiutare anche gli stati membri più deboli a rimanere parte dell’unione. Ancora oggi nell’Eurozona non c’è accordo su un bilancio centrale a fini di stabilizzazione o sui trasferimenti fiscali transfrontalieri.
Questo pone la questione se l’area valutaria potrà mai essere veramente stabile senza un’ulteriore integrazione in questo settore. Non c’è dubbio che sarebbe un obiettivo finale auspicabile disporre di una capacità di bilancio centrale ai fini della stabilizzazione, poiché le regioni saranno sempre esposte a choc asimmetrici. Ma tre fattori suggeriscono che potrebbe non essere più una condizione sine qua non. In primo luogo, nel corso del tempo, l’Eurozona si è gradualmente avvicinata alle altre condizioni ideali indicate da Mundell, mitigando in qualche modo la necessità di trasferimenti fiscali. Venticinque anni di unione economica e monetaria hanno portato a catene di approvvigionamento più integrate e a cicli economici più sincronizzati, e l’euro spiega almeno la metà dell’aumento complessivo. Allo stesso tempo, mentre la mobilità del lavoro nell’Eurozona rimane al di sotto dei livelli statunitensi, gli studi hanno riscontrato una graduale convergenza che riflette sia un calo della migrazione interstatale negli Stati Uniti sia un aumento del ruolo della migrazione in Europa.
E i canali di condivisione del rischio sono ulteriormente migliorati. Per esempio, sullo sfondo dell’integrazione del settore bancario – la cosiddetta Unione bancaria – e della generosa assistenza ufficiale, i prestiti transfrontalieri sono stati notevolmente più resilienti durante la pandemia rispetto a quanto si era visto durante i precedenti grandi choc. Quanto più l’Europa può avanzare su questa strada, soprattutto in termini di integrazione dei suoi mercati dei capitali, tanto minore sarà la necessità di trasferimenti fiscali permanenti. In secondo luogo, la capacità delle politiche fiscali nazionali di stabilizzare il ciclo è stata rafforzata dal cambiamento della funzione di reazione della Banca centrale. Dal 2012 la Bce ha identificato gli aumenti ingiustificati degli spread sovrani come un ostacolo fondamentale alla trasmissione regolare della politica monetaria e ha costantemente sviluppato una serie di strumenti politici per affrontare tali minacce. Questa funzione di reazione ha posto un limite minimo efficace nei mercati dei bond sovrani nei casi in cui gli spread non siano motivati dalle basi, un limite minimo che si è dimostrato efficace anche quando la posizione della politica monetaria e fiscale non è stata allineata. Per esempio, lo scorso inverno i governi dell’Eurozona sono stati in grado di portare avanti un consistente stimolo fiscale per compensare gli effetti della crisi energetica, anche se i tassi ufficiali stavano aumentando vertiginosamente e l’economia era in fase di stallo, con l’Eurozona che ha trasferito più di 200 miliardi di euro al resto del mondo sotto forma di imposta sugli scambi. Questo sarebbe probabilmente stato impossibile un decennio prima, quando anche piccoli aumenti dei tassi si sono rivelati destabilizzanti. E questo ci dice che qualcosa è radicalmente cambiato nel modo in cui gli investitori vedono l’Eurozona e il margine di manovra che sono disposti a fornire.
In terzo luogo, la natura degli choc che stiamo affrontando sta cambiando. Con la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina, ci troviamo sempre più di fronte a choc comuni e importati rispetto che a choc asimmetrici, creati internamente. Questo sposta il problema dal sostenere gli stati in difficoltà all’affrontare sfide condivise, creando così un diverso allineamento delle preferenze politiche. Come illustrato dall’episodio che ho descritto in precedenza, la condivisione del rischio ciclico è difficile da attuare in Europa perché le preferenze politiche sono gravemente disallineate. Ma per obiettivi condivisi come la salute, la difesa e la transizione climatica, le preferenze politiche si sovrappongono e la necessità di maggiori impegni di spesa è incontrovertibile. La risposta europea alla pandemia ha riconosciuto questa nuova realtà. Ha costretto l’Europa a centralizzare importanti aree della politica sanitaria, poiché la Commissione si è dimostrata un acquirente di vaccini più efficace di quanto potevano essere i singoli stati. Le restrizioni necessarie per rallentare la diffusione del virus hanno portato anche alla creazione di un fondo comune per sostenere i mercati del lavoro in tutta l’eurozona (Sure).
Infine, l’Europa ha concordato la creazione di un fondo da 750 miliardi di euro (Next GenerationEU) per sostenere i paesi nell’affrontare le transizioni verdi e digitali, che richiedono investimenti molto maggiori di quanto i singoli paesi possano permettersi da soli. E quindi, se il grado di convergenza all’interno dell’Eurozona è più alto, la frequenza degli choc asimmetrici è minore e il finanziamento comune di obiettivi condivisi aumenta, più rari diventeranno i casi in cui sarà davvero necessaria una capacità di bilancio. La domanda chiave ora è se l’Europa può aprire una strada diversa verso l’unione fiscale. La storia ci insegna che i bilanci comuni sono stati raramente creati in aggiunta all’integrazione monetaria, ma piuttosto per raggiungere obiettivi specifici nell’interesse pubblico. Negli Stati Uniti è stata la Guerra di indipendenza che ha prodotto il “momento hamiltoniano” dell’assunzione del debito da parte del governo federale. In Canada e in Germania furono create le prime imposte federali dirette – a parte i dazi doganali – per generare nuove entrate per finanziare la Prima guerra mondiale. Fu la necessità di superare la Grande Depressione che portò all’espansione del bilancio federale degli Stati Uniti negli anni Trenta.
Allo stesso modo, l’Europa non ha mai affrontato – fino a oggi – così tanti obiettivi sovranazionali condivisi –intendo obiettivi che non possono essere gestiti da paesi che agiscono da soli. Stiamo attraversando una serie di grandi transizioni che richiederanno ingenti investimenti comuni. La Commissione europea stima il fabbisogno di investimenti per la transizione green a oltre 600 miliardi di euro l’anno fino al 2030, e tra un quarto e un quinto di questi dovrà essere finanziato dal settore pubblico. Stiamo anche affrontando una transizione geopolitica, guidata dal disaccoppiamento America-Cina, in cui non possiamo più fare affidamento su paesi ostili per forniture critiche. Ciò richiederà un sostanziale riorientamento degli investimenti verso un rafforzamento delle disponibilità, in patria o con i partner. E mai nella storia dell’Ue i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà sono stati messi in discussione tanto quanto dalla guerra in Ucraina. Una conseguenza immediata è che dobbiamo compiere una transizione verso una Difesa comune europea molto più forte se vogliamo, come minimo, raggiungere l’obiettivo di spesa militare della Nato del 2 per cento del pil. Ma allo stato attuale, il costrutto istituzionale dell’Europa non è adatto a realizzare queste transizioni, come rivela un confronto con gli Stati Uniti. Stiamo assistendo a una nuova attenzione sulla cosiddetta “statecraft”, in cui la spesa federale, i cambiamenti normativi e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici degli Stati Uniti. L’Inflation Reduction Act, per esempio, accelererà contemporaneamente la spesa per il green, attirerà investimenti stranieri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America. Ma l’Europa non dispone di una strategia equivalente per integrare la spesa a livello dell’Ue, le norme sugli aiuti di stato e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del cambiamento climatico. Una volta scaduto il NextGenerationEU, non vi è alcuna proposta di uno strumento federale che lo sostituisca per effettuare la necessaria spesa legata al clima. Le norme dell’Ue in materia di aiuti di stato limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale green. E non abbiamo spazi nelle nostre regole fiscali per consentire sufficienti investimenti a lungo termine. Senza azione, c’è un serio rischio che non si raggiungano i nostri obiettivi climatici e che si perda la nostra base industriale a favore invece di regioni che si impongono meno vincoli.
Questo ci lascia due opzioni. In primo luogo, possiamo alleggerire le norme sugli aiuti di stato e allentare le norme fiscali, consentendo agli stati membri di assumersi integralmente l’onere della spesa per gli investimenti. Ma nel processo si creerebbe una frammentazione dato che, anche con il maggiore margine di manovra che i mercati stanno concedendo oggi all’Eurozona i paesi con più spazio fiscale avranno molto più spazio per spendere rispetto ad altri. Come abbiamo appreso dall’accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando c’è un obiettivo sovranazionale che i paesi non possono raggiungere da soli. Proprio come l’euro non può essere stabile se gran parte dell’unione monetaria sta fallendo, il cambiamento climatico non può essere risolto da un paese che riduce le sue emissioni di carbonio più velocemente di un altro.
Quindi questo significa che l’unica opzione che ci consente di raggiungere i nostri obiettivi è la seconda: cogliere questa opportunità per ridefinire l’Ue, il suo quadro fiscale e – con l’ulteriore allargamento sul tavolo – il suo processo decisionale, e renderlo commisurato alle sfide che dobbiamo affrontare.
E si dà il caso che le regole fiscali siano attualmente in discussione. La sfida principale per l’Eurozona è che ci affidiamo alle regole di bilancio a livello nazionale per raggiungere molteplici obiettivi diversi. Dato il ruolo cruciale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regole che consentano alla politica anti ciclica di rispondere agli choc locali. Abbiamo anche bisogno di regole che facilitino le massicce esigenze di investimento di cui abbiamo bisogno. E dobbiamo garantire la credibilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto di livelli di debito post pandemia molto elevati. Ma esiste un compromesso intrinseco tra questi obiettivi. Per garantire la credibilità fiscale è necessario che le regole siano più automatiche e contengano meno discrezionalità. Ma poiché nessuna regola può essere adattata a tutte le contingenze future, una maggiore automaticità limiterà sempre la capacità dei governi di reagire a choc imprevisti. Allo stesso modo, regole credibili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Ma il tipo di investimenti di cui abbiamo bisogno oggi implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali si estenderanno oltre la vita dei governi che li stanno facendo.
La Commissione europea ha tentato di risolvere questi compromessi proponendo di concentrarsi su regole di spesa collegate alla traiettoria del debito a medio termine di un paese. Questo rappresenterebbe sicuramente un miglioramento rispetto ai precedenti massimali del disavanzo, in quanto le regole di spesa sarebbero invarianti rispetto alle entrate straordinarie durante le fasi di ripresa, consentendo così il ruolo anti ciclico e stabilizzante della politica fiscale quando il ciclo gira. Il percorso della spesa può anche essere aggiustato per i paesi che intraprendono investimenti allungando il periodo fino a quando la traiettoria del debito deve iniziare a diminuire. Ma tutto ciò avverrà inevitabilmente al prezzo dell’automaticità e, forse, dell’applicabilità.
Quindi, se guardiamo più avanti, dobbiamo riconoscere che regole fiscali veramente credibili non possono funzionare senza un equivalente ripensamento di dove dovrebbero risiedere i poteri fiscali. Poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro. Questo è in linea di massima ciò che vediamo negli Stati Uniti, dove la devoluzione dei poteri al governo federale rende possibili regole fiscali sostanzialmente inflessibili per gli stati. I bilanci in pareggio a livello statale sono credibili proprio grazie ai trasferimenti fiscali e alla spesa federale per progetti comuni, che possono far fronte a choc imprevisti e finanziare obiettivi condivisi. L’Eurozona probabilmente non replicherà mai per intero questa struttura, data la dimensione molto maggiore dei bilanci nazionali rispetto a quelli degli stati americani. Ma ci sono buone ragioni per cui avrebbe senso importare alcuni elementi. In primo luogo, se dovessimo federalizzare parte della spesa per investimenti necessari per obiettivi condivisi, utilizzeremmo il nostro spazio fiscale in modo più efficiente. Lo spazio fiscale asimmetrico dell'Europa – con alcuni in grado di spendere molto più di altri – è fondamentalmente uno spreco quando si tratta di obiettivi condivisi come il clima e la difesa. Se alcuni paesi possono spendere liberamente per questi obiettivi ma altri no, allora l’impatto di tutta la spesa è inferiore, poiché nessuno è in grado di raggiungere la sicurezza climatica o militare.
In secondo luogo, l’emissione di più debito comune per finanziare questo investimento amplierebbe potenzialmente lo spazio fiscale collettivo che abbiamo a disposizione. Gli oneri finanziari dell’Ue sono inferiori alla media ponderata degli oneri finanziari dei suoi stati membri e sono quasi identici a quelli del meccanismo di finanziamento istituito durante la crisi, il Mes, nonostante quest’ultimo abbia a disposizione così tanto capitale versato che potrebbe riacquistare il 70 per cento delle sue obbligazioni al valore nominale. Ciò suggerisce che gli investitori ripongono molta fiducia nella capacità dell’Ue di estrarre da ciascun paese partecipante il futuro flusso di entrate necessario per riparare il debito preesistente. E ciò a sua volta implica un potenziale inutilizzato per l’Ue di ridurre i costi di prestito aggregati nell’Unione. Ma elevare più compiti a livello federale richiederebbe fiducia tra gli stati membri nella capacità e nell’integrità di far spendere fondi congiunti dalle autorità nazionali, poiché gran parte dell’attuazione avverrebbe ancora a livello nazionale. E richiederebbe un cambiamento proporzionato nelle nostre regole fiscali in direzione di una minore flessibilità.
Emettere più debito dell’Ue ridurrebbe, a parità di condizioni, la capacità di bilancio per riparare il debito nazionale. Ciò significa che, come minimo, dovremmo garantire che gli stati membri con un debito elevato utilizzino lo spazio fiscale creato dalla spesa comune per migliorare le loro prospettive fiscali, una parte del quale dovrebbe derivare da effetti di crescita positivi. Per ora, ci sono limiti a quanto possiamo spingerci in questa direzione, anche perché il costo del prestito dell’Unione è ancora superiore a quello dei suoi membri più forti, il che significa che un prestito più comune può essere visto come una forma di trasferimento fiscale non autorizzato. E quindi una possibilità è quella di procedere – come abbiamo fatto finora – con l’integrazione tecnocratica, apportando cambiamenti apparentemente tecnici e sperando che ne seguano di politici. Questo approccio alla fine ha avuto successo con l’euro e alla fine ha reso l’Ue più forte. Ma i costi sono stati alti e i progressi sono stati lenti.
L’altra possibilità è quella di procedere con un vero processo politico, in cui l’obiettivo finale sia esplicito fin dall’inizio e approvato dagli elettori sotto forma di una modifica del Trattato europeo. Questo percorso è fallito a metà degli anni 2000 e da allora i politici l’hanno evitato, ma credo che ora ci siano più speranze di movimento. Man mano che l’Ue si allarga ulteriormente per includere i Balcani e l’Ucraina, sarà essenziale riaprire i trattati per garantire che non si ripetano gli errori del passato, allargando la nostra periferia senza rafforzare il centro. E questo dovrebbe produrre un allineamento naturale tra i nostri obiettivi condivisi, il processo decisionale collettivo e le regole fiscali.
Il punto di partenza di qualsiasi futura modifica del Trattato deve essere il riconoscimento del numero crescente di obiettivi condivisi e della necessità di finanziarli insieme, il che a sua volta richiede una diversa forma di rappresentanza e un processo decisionale centralizzato. Quindi, un passaggio a regole più automatiche diventerebbe più realistico. Credo che gli europei siano più pronti rispetto a vent’anni fa a intraprendere questa strada, perché oggi hanno davvero solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione. I sondaggi dicono chiaramente che i cittadini avvertono un crescente senso di minaccia esterna, anche dopo l’invasione russa, che rende la paralisi sempre più inaccettabile. La possibilità di uscire dall’Ue è passata dalla teoria alla realtà con la Brexit e, mentre i vantaggi dell’uscita dall’Ue appaiono altamente incerti, i costi sono fin troppo visibili. E così con la paralisi e l’uscita che sembrano poco attraenti, i costi relativi di un’ulteriore integrazione sono ora inferiori. In questo momento storico, non possiamo stare fermi o, come la bicicletta di Jean Monnet, cadremo. Le strategie che in passato avevano assicurato la nostra prosperità e sicurezza – affidarsi agli Stati Uniti per la sicurezza, alla Cina per le esportazioni e alla Russia per l’energia – oggi sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che aumentare il senso di urgenza per migliorare la capacità di azione dell’Europa. Non saremo in grado di sviluppare tale capacità senza rivedere il quadro fiscale europeo e ho cercato di delineare le direzioni che questo cambiamento potrebbe prendere. Ma alla fine la guerra in Ucraina ha ridefinito più profondamente la nostra Unione – non solo nei suoi membri, e non solo nei suoi obiettivi condivisi, ma anche nella consapevolezza che ha creato che il nostro futuro è interamente nelle nostre mani – e nella nostra unità.
L’ex premier italiano Mario Draghi ha tenuto questo discorso martedì a Cambridge, negli Stati Uniti, al National Bureau of Economic Research.
(traduzione di Giulio Silvano)