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Tra la Nato e l'Ucraina l'unione è di fatto

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Racconto di un summit a Vilnius, in Lituania, che ha visto litigi, battutacce, riappacificazioni, offese e colpi di scena. E ha svelato che in trentatré la Nato funziona meglio. Il patto con Zelensky, il punto di Biden e l’Italia. Un viaggio

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha portato a Vilnius due volti. Quello della delusione e quello della fiducia. Si sono avvicendati, prima l’uno, poi l’altro. Con il primo è sceso dall’aereo, ha percorso le strade di Vilnius accompagnato dalla sicurezza per arrivare fino a un palco nel centro della capitale della Lituania tutto blu e giallo e sovrastato dalla scritta Ukraine Nato 33. Quel numero, 33, è un auspicio e un desiderio, e a partire da  questo summit è anche una promessa che i membri dell’Alleanza atlantica hanno fatto all’Ucraina. La promessa rimane vaga, perché non ci sono calendari o road map, ma ci sono le intenzioni che fanno sì che il summit di Vilnius non verrà ricordato come una Bucarest 2.0. A Bucarest, nel 2008, i paesi della Nato, guidati dallo scetticismo e dalla prudenza di Germania e Francia, spensero le ambizioni atlantiche di Georgia e Ucraina, relegando alla parola futuro la loro adesione. Le conclusioni della giornata di martedì, il disappunto di Zelensky, le parole di Jens Stoltenberg avevano fatto sì che il nome Bucarest rincorresse Vilnius. Ma Vilnius non ha alcuna intenzione di essere Bucarest, questa capitale blu e gialla non accetta  di essere il teatro di una delusione ucraina e di una speranza di Vladimir Putin.

 

Così, il secondo giorno del summit è servito per i  chiarimenti. Di mattina Zelensky era arrivato senza sorriso, stringendo i denti. A pugni chiusi era salito sul palco della prima conferenza stampa al fianco di un molto diplomatico e anche preoccupato Jens Stoltenberg, aveva detto che per gli ucraini sarebbe stato importante ricevere un invito, un segnale forte, un po’ come quello ottenuto dall’Unione europea con lo status di paese candidato. Ha detto che Kyiv è già Nato, che le garanzie di sicurezza vanno bene, ma non possono sostituire il percorso verso l’Alleanza atlantica. E’ sembrato sciogliersi, rilassarsi, quando Stoltenberg ha iniziato a elencare cosa cambierà da oggi in poi per l’Ucraina: le decisioni del G7, il pacchetto di aiuti, il Consiglio Nato-Ucraina, gli addestramenti, le armi, la decisione della Nato di assistere gli ucraini fino a quando sarà necessario, fino alla vittoria. Per Stoltenberg bisogna pensare per gradi, per Zelensky bisogna affrettarsi a prevedere il futuro, a prevenire la Russia. La dichiarazione conclusiva  sulle garanzie di sicurezza ha fatto la differenza e uno Zelensky convinto e con la necessità di essere convincente ha radunato una seconda conferenza stampa in cui ha detto la frase più importante del vertice, quella che Vilnius blu e gialla sperava di sentire e di accogliere. Ha detto: “Credo che questo summit porti la vittoria più vicina all’Ucraina”. Come? Con la promessa di armi, con il rafforzamento della difesa aerea, con la prospettiva di un percorso da affrontare assieme agli alleati occidentali che renderà l’Ucraina sempre più connessa, militarmente e diplomaticamente. Non non si è sentito tradito, non si è sentito abbandonato, sa che deve andare più veloce del tempo, che i suoi alleati a volte vanno spinti.  A volte però capita che siano loro a spingere per un cammino giusto, anche se non del tutto condiviso. “Non mi sono rimaste altre ambizioni, se non la vittoria”, ha detto Zelensky.  E Joe Biden il cauto, Joe Biden che sembrava aver frenato l’ambizione ucraina, ha rassicurato Zelensky in un incontro “significativo e potente”, come lo ha definito il presidente ucraino, e poi all’Università di Vilnius vestita dei colori lituani, ucraini, americani ha ribadito che “quella di Putin continua a essere una scommessa sbagliata”.

Abbiamo ripercorso da Vilnius le due giornate  frastagliate che tra denti stretti, sorrisi, insoddisfazioni, sorprese, cene, incontri nei corridoi, battutacce e riappacificazioni, ha sancito l’unione di fatto tra l’Ucraina e la Nato.
  
  

Il tempo. L’Ucraina parla la lingua della Nato, delle armi dell’Alleanza atlantica, ne conosce le strategie, gli arsenali e ne condivide le priorità, perché in un momento in cui la Nato riafferma che la Russia è la sua principale minaccia, chi conosce meglio di Kyiv le minacce  e gli attacchi? “E’ questione di tempo”, continuano a ripetere al vertice di Vilnius, convinti che quando la guerra sarà finita, allora l’invito prima e l’adesione poi saranno rapide, rapidissime, perché l’Ucraina ha dimostrato di saper fare le riforme mentre combatte e quindi arriverà pronta all’appuntamento con la Nato. Arriverà in anticipo, anzi. Gli osservatori ucraini che sono presenti al summit dicono che non si sarebbero aspettati niente di più, che fa arrabbiare sentir parlare di riforme mentre a Kyiv si contano le vite, ma la posizione della Nato è ragionevole, non è un’esclusione. Poi i messaggi arrivano chiari e forti, i leader si dividono tra chi dice che “il futuro dell’Ucraina è nella Nato” e chi dice che “l’Ucraina è già Nato”. Questa distinzione non serve a dividere gli amici dai nemici, ma tranquillizza, ci dicono. Il presidente Zelensky non deve pensare soltanto al campo di battaglia, deve pensare anche all’umore degli ucraini e un segnale più forte sarebbe stato importante per dare speranza a Kyiv e un segnale a Mosca. “Il presidente è un romantico, all’inizio si è arrabbiato, ma sapeva bene cosa avrebbe trovato sul tavolo della Nato. Ciò non toglie che noi ucraini di questo romanticismo abbiamo un bisogno profondo per andare avanti”, ci ha detto un giornalista ucraino in sala stampa. Di fatto Zelensky ha detto che l’Ucraina ha bisogno della Nato quanto la Nato dell’Ucraina e questa guerra ha cambiato molte cose, rendendo un paese che dell’Alleanza non faceva parte quello che in qualche mese con l’Alleanza ha raggiunto un livello di integrazione operativa veloce e intenso. Il punto adesso è portarlo a un livello superiore, farlo passare dalla necessità alla prassi.


Consiglio Nato-Ucraina. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a fine vertice era distrutto. Ma ha recuperato le forze per ripetere quanto fossero  importanti  i risultati raggiunti. “Storico” è l’aggettivo che ha ripetuto più spesso, perché se martedì è stata la giornata delle incomprensioni, mercoledì è stata quella dei chiarimenti, coronata dalla prima riunione nella storia del Consiglio Nato-Ucraina, un organo in cui gli alleati dell’Alleanza e Kyiv lavorano da pari. La creazione di questo consiglio è importante, è un meccanismo di consultazione e decisionale che consente di conoscersi meglio, imparare a lavorare insieme e decidere insieme. La storia sa essere pungente, e ieri quando i leader si radunavano attorno al tavolo rotondo per prendere parte al primo Consiglio Nato-Ucraina della storia, mentre Zelensky aggiustava la sua sedia accanto a quella di Recep Tayyip Erdogan e Rishi Sunak, con i quali aveva già avuto un bilaterale qualche ora prima, mentre scivolava via dal suo volto l’espressione insoddisfatta, arrabbiata e ferita e si faceva largo un sorriso composto, la memoria di molti andava al 2002, quando venne creato un Consiglio Nato-Russia per aprire un periodo di cooperazione militare e  industriale, di non proliferazione di armi e di lotta al terrorismo. Sappiamo com’è andata, ogni cooperazione è stata sospesa dopo l’annessione illegittima della Crimea nel 2014, ma l’ultimo incontro si tenne nel gennaio del 2022. Quel posto attorno al tavolo della Nato è importante, l’immagine di Zelensky lì seduto è potente, e il Cremlino l’ha vista. Ha anche sentito le parole di Stoltberg che ha scandito: l’Ucraina non è mai stata così vicina alla Nato e a quel tavolo rotondo, Kyiv e i membri dell’Alleanza parlano da uguali, da pari, praticamente da alleati.


Le garanzie di sicurezza. Partecipando al Consiglio e ottenendo la rimozione del Map, il Piano d’azione per l’adesione, l’Ucraina avrà un futuro accesso più veloce, ha assicurato Stoltenberg. Su questo aspetto, Mosca ha fatto pochi commenti, è stata invece la formula “garanzie di sicurezza” a mandare in tilt i comunicati del Cremlino che si sono moltiplicati in una serie ripetitiva di “reagiremo, reagiremo, reagiremo”. Non sarà l’Alleanza atlantica a dare queste garanzie ma il G7, quindi anche l’Italia. La dichiarazione finale che tutti e sette i paesi più l’Ucraina hanno presentato  contiene la creazione di un quadro internazionale che deve garantire un piano di sicurezza a lungo termine per rafforzare Kyiv e dissuadere Mosca da future aggressioni. Nella dichiarazione si parla di  fornitura di attrezzature militari avanzate, addestramento, condivisione di informazioni e difesa informatica. Ma andiamo più nel dettaglio. Il G7 si impegna a fornire “equipaggiamento militare moderno”  con una particolare attenzione per la difesa aerea. I paesi si impegnano anche ad assicurare l’addestramento continuo dei soldati ucraini, a seconda delle necessità. Oltre alla dichiarazione finale, ogni paese siglerà una serie di accordi bilaterali con l’Ucraina. Il club è aperto a tutti i paesi che vorranno aggiungersi. Nel testo si legge: “Altri paesi che desiderano contribuire a questo sforzo per garantire un’Ucraina libera, forte, indipendente e sovrana possono aderire alla presente dichiarazione in qualsiasi momento”. Da parte sua, Kyiv ha presentato ai suoi alleati la lista di armi di cui ha bisogno e le richieste hanno suscitato la risposta piccata  di un alleato di ferro di Kyiv, il ministro della Difesa britannico Ben Wallace, che forse deve ancora mandare giù il rifiuto americano alla sua candidatura a diventare il prossimo segretario generale della Nato. Con la nomina, ovviamente l’Ucraina non c’entra nulla, ma tornando alle richieste di Kyiv, Wallace ha risposto: non siamo mica Amazon!.    

 

La posizione dell’Italia. Al G7 di qualche settimana fa, Rishi Sunak aveva rimproverato un giornalista britannico che gli chiedeva conto di qualche bega domestica mentre lì si prendevano decisioni rilevanti per, letteralmente, il futuro del mondo: ti sembra opportuno?, gli aveva detto il premier britannico. Giorgia Meloni a Vilnius non ha fatto rimbrotti, ha risposto meticolosa alle domande sulla politica interna, e alle questioni internazionali ha riservato soltanto alcune parole: chiarissime, come sempre, sull’allineamento totale dell’Italia all’asse occidentale e pro ucraino (“Senza l’unità dell’Alleanza atlantica nessun paese è al sicuro”) e a favore dell’addestramento delle forze ucraine; un po’ più vaghe per quel che riguarda la richiesta italiana di rafforzare il fianco sud della Nato, che implica una interlocuzione diretta con la Turchia, che però Meloni non vuole assecondare nella sua richiesta di ingresso nell’Unione europea; di sollievo quando ha annunciato che Joe Biden ha rinnovato l’invito alla Casa Bianca e ha fissato la data dell’appuntamento: il 27 luglio. 

 
La Nato a 32. Con l’ingresso della Svezia nella Nato – che non avverrà prima di ottobre – si completa il processo di allargamento deciso un anno fa: il veto posto dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan a Stoccolma era destinato prima o poi a cadere, ma il fatto che sia caduto proprio a Vilnius ha un significato rilevante. Erdogan ha traccheggiato a lungo cercando di ottenere da questo suo veto il massimo vantaggio, ma questa sua decisione cambia anche e soprattutto il rapporto del presidente turco con Mosca. Non lo stravolge naturalmente, perché i rapporti continuano a essere solidi e di collaborazione in particolare in medio oriente, e perché Erdogan ha avuto l’astuzia, in vent’anni di potere, di restare un interlocutore imprescindibile per l’Alleanza atlantica e allo stesso tempo della Russia. Ma di fronte a una neutralità impossibile, Erdogan ha infine scelto gli alleati atlantici, e lo ha fatto nel momento in cui mostrare unità e compattezza era decisivo per l’occidente. Alcuni giornalisti turchi ci hanno raccontato che il fatto che l’economia turca sia in condizioni disastrose è stato l’impulso decisivo e infatti, a ben guardare il nuovo governo turco e la nuova governatrice della Banca centrale turca, si capisce che questa della restaurazione della credibilità economica e finanziaria della Turchia è una priorità per Erdogan. Joe Biden ci ha messo un contributo importante, con un lavorìo equilibrista non indifferente, attivando oltre alla leva economica anche quella militare, dando il via libera alla commessa da 20 miliardi di F-16. C’è poi la questione europea, che è da un lato la mossa più beffarda di Erdogan verso gli occidentali e quella più spiacevole per Putin, che a ritrovarsi con la Turchia pure nell’Ue non è preparato. Stiamo parlando di uno scenario ancora remoto, perché per entrare nell’Ue vanno rispettati criteri che questa Turchia è molto lontana dal  soddisfare, ma Erdogan va al sodo, dell’Europa gli piace poco ma la liberalizzazione dei visti e l’ammodernamento dell’Unione doganale gli interessano alquanto. Molti analisti parlano della svolta occidentale del presidente turco come se fosse una cosa fatta: andiamo prudenti, ma da quando la Russia ha invaso l’Ucraina la Turchia non era mai stata tanto vicina all’alleanza occidentale. (Una menzione a parte ma comunque tra parentesi, perché questo è il suo posto, merita Viktor Orbán, che si è messo in scia della Turchia e che ha detto che avrebbe fatto cadere il veto ungherese all’ingresso della Svezia quando lo avrebbe deciso Erdogan, in una massima espressione di europeismo e sovranismo insieme. Lo ricorderemo, Orbán, a questo vertice soltanto per la sua camminata ciondolante con una mano in tasca dietro a Mark Rutte che parla con i giornalisti, ha evitato le telecamere o forse il contrario, poi ha ribadito in un video da solo che le armi all’Ucraina non servono).

 

Con l’allargamento, s’è raddoppiato il confine tra Nato e Russia e si è si è potenziata la difesa marina dell’Alleanza. Il Mar Baltico è diventato “il lago della Nato”, dicono molti, presidiato dalle forze sottomarine della Svezia che sono le più sofisticate dell’Alleanza e che sono già completamente integrate nella Nato. Prima che fosse il Mar Baltico, questo tratto di mare era chiamato il Mare svedese, ed era un mare pacifico, ma quando la corona di Svezia perse alcune province che andarono a Pietro il Grande – era il 1721 – la strategia per quel pezzo di mare cambiò drasticamente. La Svezia voleva tenerlo aperto, “libero” diceva, mentre per la Russia quello era un mare militarizzato, accessibile solo alle navi da guerra. La Svezia non abbandonò mai la sua determinazione a mantenere il “mare liberum”, invitò navi inglesi, francesi e più tardi americane a navigarlo, e quando incominciò la Guerra fredda quest’area di quasi 400 chilometri quadrati divenne un punto di conflitto tra la Nato e l’Unione sovietica, che lo definiva “il mare della pace” intendendo che non potevano esserci navi straniere, soltanto le sue da guerra. Forse dovremmo ricordarci oggi che accezione dà la Russia al termine pace – lo stesso di allora: conquista e imposizione di conquista – e festeggiare che grazie all’allargamento questo è di nuovo un mare libero.