Nuove elezioni, nuove discordie
L'Europa è sotto assedio. Ecco chi vuole rapirla e rapinarla
Attaccata dalla Russia, insidiata dalla Cina, sfidata dall’America, ma alla fine vittima di se stessa. La Nuova Restaurazione colpisce la società aperta: al centro delle sue ondate c’è l’Italia
Verso l’alba Europa, dormendo nella sua stanza aveva avuto un sogno strano: si trovava tra due donne, una era l’Asia, l’altra era la terra che le sta di fronte e non ha un nome. Le due donne si battevano, con violenza, per lei. Ciascuna la voleva per sé. L’Asia sembrava a Europa una donna del suo paese; l’altra era per lei una totale straniera. E la straniera, alla fine, con mani possenti, la trascinava via. Per volere di Zeus diceva: Europa sarebbe stata una fanciulla asiatica rapita da una straniera”. Il mito originario ha generato i suoi figli, come Eurasia, che a millenni di distanza attraversa i cicli del tempo e si trasforma oggi in una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla. O come l’eurocentrismo, una colpa che non distingue vittima e carnefice, un’onta dalla quale questo piccolo ma superbo continente non riuscirà mai a liberarsi. Nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” Roberto Calasso riprende il filo principale, quello a noi più noto, che ruota pur sempre attorno a un rapimento e a uno stupro. Giove nelle vesti di un toro biondo, punto da Eros sotto forma di tafano, “le si inginocchiò davanti, offrendole la groppa. E, come lei fu montata, balzò verso il mare…”. E lo scrittore si chiede: “Ma com’era cominciato il tutto? Se si vuole, è storia della discordia. E la discordia nasce dal ratto di una fanciulla, o dal sacrificio di una fanciulla. E l’uno trapassa continuamente nell’altro”. Ecco il punto di partenza, ma anche il punto d’arrivo.
L’abbiamo presa alla lontana, davvero troppo alla lontana? Forse, ma Europa non è oggi di nuovo rapita? Attaccata dalla Russia, insidiata dalla Cina, sfidata dall’America, ma alla fin fine vittima di se stessa, dalla propria debolezza, dai propri fantasmi, dai propri calcoli egoistici. S’avvicina il moderno rito della discordia, non meno lacerante di quello mitico: il rito elettorale. Si vota tra un anno per il parlamento dell’Unione, ma tutti stanno già prendendo posizione al fine di occupare il terreno giudicato più propizio. Spagna, Olanda e Polonia consumeranno molto prima le loro ordalie nazionali. In Francia la discordia è già seminata a man bassa, e si comincia a capire chi ne raccoglierà le messi. Immigrazione, wokismo, ecologia, è il trittico comune che definisce ormai lo spartiacque tra nazional-populisti ed europeisti. “Le destre d’Europa tentate dall’estrema destra” titola il Monde: i moderati, insidiati, cedono come in Svezia, in Finlandia o ancor prima in Danimarca e nella stessa Olanda. Il voto sul ripristino della natura mercoledì 12 voleva essere la prova generale dell’alleanza tra centristi e conservatori sostenuta da Manfred Weber, il bavarese presidente del Partito popolare. La sua sconfitta, sia pur per un pugno di voti, ha fatto gioire “l’alleanza Ursula”: in questo parlamento non ci sono i numeri, ma nel prossimo?
A Madrid l’asse tra popolari e Vox è un progetto politico. In Spagna le urne si aprono il 23 di questo mese. Il voto locale a marzo è stato catastrofico per il governo guidato dal socialista Pedro Sánchez. Il Partito popolare (Pp) ha trionfato e con oltre il 31 per cento dei consensi ha distaccato il Partito socialista (Psoe) che con il 28 per cento ha perso quasi 400.000 voti rispetto a quattro anni prima. E questa volta l’economia non c’entra. Il prodotto lordo spagnolo cresce più della media Ue (+1,9 la stima per il 2023, contro l’1 per cento) e la disoccupazione è ai minimi dal 2008. Inoltre, scollegando il prezzo del gas da quello dell’elettricità, Madrid ha limitato i costi della crisi energetica. L’inflazione è scesa al 2,9 per cento, il dato più basso dell’Eurolandia. La sinistra radicale di Podemos si è dimostrata una palla al piede per i socialisti, ma anche i popolari hanno la loro insidia estremista: le sorti del Pp dipenderanno infatti da quanti voti conquisterà Vox. La donna forte della destra spagnola, Isabel Dìaz Ayuso, esponente di spicco dei popolari, destinata secondo alcuni sondaggi a prendere la guida del nuovo governo, è stata esplicita: “Senza la maggioranza dovremo fare un accordo con Vox”. “Noi stiamo con Vox” ha dichiarato Giorgia Meloni e quelli di Vox non hanno mai dimenticato la performance dell’ottobre 2021 diventata un tormentone popolare (“Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana: no me la puede quitar”).
Nei Paesi Bassi anche Mark Rutte è insidiato da una donna che vuole incarnare le forze profonde della Terra madre. Caroline van der Plas, leader del Movimento civico-contadino, noto con l’acronimo olandese BBB (BoerBurgerBeweging) giornalista e agit prop di professione, nella sua vita ha usato la penna più che la vanga, ma adesso guida il partito degli agricoltori diventato la forza più rilevante nelle elezioni provinciali di marzo che hanno determinano la composizione del Senato. Sta cavalcando l’insoddisfazione per le politiche ambientali del governo Rutte, in particolare il piano che mira a ridurre drasticamente l’inquinamento da azoto nelle fattorie entro il 2030. E attacca il governo sull’immigrazione. La legge presentata ha scontentato tutti per ragioni opposte e Rutte, 56 anni, leader del partito popolare conservatore per la libertà e la democrazia (VVD), il premier più longevo dei Paesi Bassi, in carica da 13 anni, ha gettato la spugna, si è dimesso e lascerà la politica dopo le elezioni generali del prossimo autunno. La coalizione che sosteneva il suo quarto governo era formata dai popolari, dai liberali di D66, dall’Appello cristiano democratico (Cda) e dai calvinisti dell’Unione Cristiana (Cu). Di fronte alla proposta governativa per limitare il numero dei richiedenti asilo e in particolare i ricongiungimenti familiari, si è spaccata in due: da un lato Vvd e Cda, dall’altro su posizioni più permissive liberali e calvinisti. L’incerto equilibrio che aveva tenuto in piedi Rutte non esiste più.
In autunno anche la Polonia va alle urne. Destra Unita (ZP-PIS) è la coalizione dominata da Diritto e Giustizia (PiS) e rappresenta il governo uscente, ne fanno parte anche alcuni partiti minori come Porozumienie (Accordo), Polonia Sovrana, Kukiz’ 15. I sondaggi la danno al 33,7 per cento in media, anche se alcuni arrivano fino al 34,9 per cento. Alle precedenti elezioni aveva raccolto il 43,6 per cento dei consensi. E’ sfidata da Coalizione Civica (KO) un gruppo centrista, liberale, europeista, composto da Piattaforma Civica (PO), guidata da Donald Tusk, primo ministro dal 2007 al 2014, prima di diventare presidente del Consiglio europeo e, successivamente, leader del Partito popolare europeo. Ci sono poi i liberali di Modern, i social-liberali di Iniziativa Polacca, e i Verdi. In crescita è Konfederacja nata nel 2019 dall’unione di KORWiN, acronimo che ricalca il nome del suo fondatore, Janus Korwin-Mikke, e il Movimento Nazionale (Ruch Narodowy). Si tratta di un partito euroscettico, omofobo e xenofobo, antifemminista, contrario all’aborto e all’immigrazione. In calo la sinistra Lewica (Sinistra), Lewica Demokratyczna (Sinistra democratica) e partiti minori. La coalizione progressista aveva raccolto l’11,2 per cento, ma i sondaggi la proiettano appena al 7,3 per cento. Scende anche Terza Via, un’alleanza social-liberale tra quattro partiti, il Partito del Popolo (PSL); Polonia 2050, ambientalista, liberale e cristiano democratico; il Centro per la Polonia (CdP) formato da conservatori fuoriusciti da Piattaforma Civica; e Unione democratica europea (UED). Se si votasse oggi, il centro-sinistra (Coalizione Civica, Sinistra e Terza via) otterrebbe 216 seggi contro i 195 della Destra Unita. Nessuno avrebbe la maggioranza per governare e sarebbero fondamentali i 48 seggi di Konfederacja.
Storie diverse, ma fili politici comuni. Non sono tanto gli interessi a segnare la demarcazione, ma i valori: il contrasto alla società aperta, il conflitto contro “il liberismo” e la globalizzazione, quella battaglia che a cavallo tra i due secoli aveva mobilitato l’estrema sinistra, oggi è il collante della Nuova Restaurazione. L’Italia è il bacino in cui s’incontrano queste onde le quali, pur muovendosi per conto proprio, formano la grande onda che segna questo momento storico. Sembra andare contro corrente il Regno Unito dove sia i conservatori sia i laburisti cercano qualcuno tanto coraggioso da fare un passo indietro: c’è desiderio di Europa, ma ci vorrebbe davvero un eroe elisabettiano per dire abbiamo sbagliato, ricominciamo da capo. Intanto, i confini europei s’allargano altrove.
Il vertice del Patto Atlantico a Vilnius ha suonato la sveglia per questo Vecchio Continente che rimira se stesso e cerca il proprio ombelico senza trovarlo. Ha colpito i media l’ardita mossa del “Sultano” Erdogan il quale ha dato via libera all’ingresso della Svezia chiedendo in cambio della promessa che prima o poi sarebbe entrato nella Ue. Si è scritto molto sulla delusione di Volodymyr Zelensky il quale ha giocato subito la carta dell’adesione alla Nato, cercando di ottenere almeno una data certa. E’ apparso meno evidente, invece, l’altro allargamento. L’Alleanza Atlantica è diventata già Alleanza del Pacifico e punta a essere l’Alleanza del Mediterraneo perché il molle fianco sud s’è trasformato in una sponda strategica. E’ questa la vera sfida americana non solo e non tanto quella degli aiuti statali alla transizione industriale (digitale, ambientale, energetica). Julianne Smith, rappresentante permanente Usa presso il Consiglio atlantico, l’organo politico della Nato, ha espresso chiaramente la nuova dimensione strategica: “A Vilnius hanno partecipato i leader di Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone. il nostro obiettivo non è l’eventuale adesione di questi paesi, ma di lavorare insieme su grandi questioni globali. Oltre all’Indo-Pacifico, inoltre, l’Alleanza ha obiettivi chiari anche per il fianco meridionale. Ormai più di quaranta paesi sono partner in tutto il mondo, molti di loro si trovano proprio nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente”. I confini, insomma, non sono più quelli di un tempo e cambieranno anche per l’Unione europea, l’adesione della Turchia non si farà domani, ma è all’ordine del giorno. Si sente già il grido di dolore degli orfani di Lepanto, mentre si rivoltano nella tomba Giovanni Sobieski ed Eugenio di Savoia, gli eroi che salvarono Vienna da Kara Mustafa Pascià. Il limes si scioglie al sole dei Dardanelli, là dove viene issato il ponte levatoio per bloccare il nuovo zar di tutte le Russie, di nuovo, come nella guerra di Crimea scoppiata in realtà 170 anni fa nel luglio del 1853 quando Nicola I Romanov invase la Moldavia e la Valacchia. La storia si accavalla mentre nulla sarà più come prima.
Il conflitto in Ucraina ha trasformato l’Europa più profondamente di qualsiasi altro evento dalla fine della Guerra Fredda nel 1989. “Un continente che viaggiava con il pilota automatico, cullato dall’amnesia, è stato infiammato dall’immenso sforzo di salvare la libertà in Ucraina, una libertà vista come la propria”, ha scritto Roger Cohen sul New York Times. Persino dopo l’annessione della Crimea nel 2014 gli europei non avevano abbandonato la speranza di trattare con Vladimir Putin quasi come se nulla fosse. “Che la Russia fosse diventata aggressiva, imperialista, revanscista e brutale, così come impermeabile alle politiche di pace europee, era quasi impossibile da digerire a Parigi o a Berlino”, prosegue Cohen. Possiamo aggiungere che anche Roma aveva coltivato la stessa illusione. Mentre la Gran Bretagna, la più dura contro Putin, era ipnotizzata dalla campagna populista per la Brexit: sembrava che la forma di un cetriolo o la lunghezza di un’aringa fossero i simboli della libertà e della sovranità nazionale. Tutto questo è stato spazzato via, il dibattito verte oggi sulle armi offensive, sui cacciabombardieri F-16, su come armare e sostenere Kyiv senza dichiarare guerra aperta a Mosca. La Germania, dal secondo dopoguerra il paese occidentale più pacifista, riconosce che è arrivato il tempo di riamarsi e di difendersi senza più lasciare l’intero compito agli Stati Uniti. “Zeitenwende”, svolta epocale, è il termine usato dal cancelliere Olaf Scholz un anno fa in un discorso con il quale annunciava un investimento da 100 milioni di euro per le forze armate. “Quel che accade in Ucraina riporta l’Europa alle questioni fondamentali della pace, della guerra, dei nostri valori: chi siamo e cosa vogliamo noi europei?”, ha scritto François Delattre, l’ambasciatore francese a Berlino. Davvero tutti i paesi sono uniti sotto una sola bandiera?
Sostenere l’Ucraina è la parola d’ordine dell’Unione europea, ma fino a quando e fino a dove arrivare? Gli Stati Uniti hanno armato e finanziato Kyiv sorpassando enormemente il contributo europeo. Senza gli americani l’eroico popolo e il suo presidente non avrebbero potuto resistere all’invasione russa. E’ un amaro riconoscimento per la Ue. Anche se la sua risposta è andata al di là di molte scettiche aspettative, il lavoro che l’Europa (non solo l’Unione) deve compiere per diventare un potere militare è ancora enorme. Il divario non può essere colmato in tempi brevi, ma l’Ue deve prendere decisioni ben più gravi e pesanti economicamente di quelle attuali, non solo spendere di più per la difesa, ma capire come usare le sue armi. Non è solo questione di eserciti. L’Unione deve gestire le tensioni al proprio interno, tra la Germania e la Francia inclini a trovare un compromesso con la Russia, l’avanguardismo britannico, la linea dura dei baltici e della Polonia al cui interno si manifestano tuttavia timori e interrogativi in vista delle elezioni. Mentre l’avvicinarsi della sfida per la Casa Bianca solleva dubbi sulla tenuta americana: è la stessa amministrazione Biden a cercare una via d’uscita da una guerra di posizione che s’annuncia lunga e incerta, mentre nessuno capisce che cosa accadrebbe se Donald Trump vincesse il 5 novembre del prossimo anno. La ritrovata prudenza del presidente che ha rinviato l’adesione di Kyiv alla Nato a quando lo scontro armato sarà finito non è solo tattica pre-elettorale. Karsten Friis dell’Istituto norvegese degli affari internazionali, che non è certo tenero con i russi, ha parlato apertamente di un indebolirsi dell’atteggiamento occidentale verso l’Ucraina: “Se l’offensiva fallisce, sarebbe problematico sia militarmente che politicamente. Ci sarebbe il pericolo che l’Occidente la considerasse un’occasione sprecata e di conseguenza il sostegno diventerebbe più tenue. Gli Usa e l’Europa hanno dato tanto e non c’è più rimasto molto”. La confusa rivolta della Wagner ha fatto correre un brivido tra gli alleati della Nato: Putin deve cadere, ma la seconda potenza nucleare può passare nelle mani dei signori della guerra?
L’Europa non ha una politica comune nemmeno nei confronti della Cina. Per la Germania Pechino resta il maggior partner commerciale e gli investimenti tedeschi in Cina sono arrivati a 114 miliardi di euro. I principali gruppi automobilistici, Volkswagen, BMW e Mercedes Benz intendono difendere la loro posizione nonostante le pressioni per ridurre la loro presenza. E non solo loro: il colosso chimico BASF, la Siemens, ma anche il Mittelstand il tessuto di medie imprese che rappresenta il cuore della manifattura tedesca è strettamente intrecciato con l’economia cinese. Per il capo della Mercedes è impossibile separare l’industria tedesca dalla fabbrica mondiale: “La Germania non può tagliare i ponti”, ha dichiarato Ola Källenius. Il cancelliere Scholz ha definito la sua politica “liberale, ma non stupida”. Non il solo. Emmanuel Macron si è recato in visita ufficiale di tre giorni in Cina nello scorso aprile e ha venduto più che comprato: sono stati firmato ben 18 accordi di cooperazione (energia verde, nucleare, finanza). In Italia, prima della pandemia le aziende partecipate da capitali cinesi erano arrivate a 760 facenti capo a ben 405 gruppi con poco meno di 44 mila dipendenti e un giro d’affari di oltre 25 miliardi di euro. Al primo posto energia e infrastrutture, con partecipazioni di circa il 2 per cento in Enel e Eni. Più consistente l’ingresso nella holding Cdp Reti che controlla Terna, Italgas e Snam, della quale State Grid International detiene un cospicuo 35 per cento pagato 2,1 miliardi. Per controllare la Pirelli, Chem China ha speso ben sette miliardi di euro. Il governo Meloni è intervenuto per impedire che i cinesi prendessero in mano la governance della Pirelli, lasciandola in carico all’azionista di minoranza italiano. La questione più controversa riguarda il memorandum of understanding sulla nuova via della seta che ha una chiara implicazione politica; scade l’anno prossimo, ma deve essere disdetto o confermato entro il 31 dicembre. Una scelta che divide anche qui il mondo degli affari e i partiti. Gli stessi Stati Uniti mostrano una chiara ambiguità. L’anno scorso l’interscambio con la Cina ha raggiunto il record assoluto di di 690 miliardi di dollari. Greg Hayes, il capo della Raytheon, il colosso americano di radar e missili (Tomahawk e Patriot i più noti) ha ammesso che “se dovessimo lasciare la Cina ci vorrebbero molti molti anni per ristabilire la nostra capacità produttiva”. Elon Musk si è recato a Pechino il 30 maggio e ha dichiarato di voler crescere nel suo maggior mercato per Tesla, senza dimenticare la grande gigafactory a Shanghai. Bill Gates ha incontrato Xi Jinping che lo ha chiamato “un vecchio amico”. Alla sfilata pechinese s’aggiungono la General Motors, la Goldman Sachs, la JP Morgan, Intel, mentre gli smart phone Apple vengono assemblati in Cina. Le missioni del segretario di Stato Antony Blinken e del segretario al Tesoro Janet Yellen hanno mostrato la volontà di separare il più possibile interessi economici e sicurezza politico-militare, in contraddizione con la stessa dottrina americana in politica estera.
Nessuno è senza peccato in questo nuovo disordine mondiale, tuttavia l’Unione europea non possiede gli strumenti, non solo tecnico-istituzionali, ma politici, per soddisfare le sue grandi ambizioni. La risposta alla pandemia con il Next Generation Eu sembrava aver inaugurato una nuova èra di convergenza, ma quando si è voluto riproporla per affrontare la transizione ambientale e la sfida americana, l’Unione s’è bloccata. Gli obiettivi del Green Deal sembrano eccessivi e i tempi per raggiungerli troppo brevi non solo alle forze euroscettiche che stanno cavalcando lo scontento, ma a quegli stessi europeisti che non hanno perso il senso della realtà. L’Europa si è costruita per piccoli passi nel secondo dopoguerra e anche il balzo più ardito, l’introduzione della moneta unica, è stato preparato per un decennio. Adesso si fissa un traguardo ben più ravvicinato per la più colossale delle riconversioni economiche, tale da cambiare non solo il modo di produrre, ma di consumare, di viaggiare, di vivere. La pressione del complesso militar-industriale affinché si tiri il freno a mano è enorme. E’ partito un treno che nessuno potrà fermare, ma non è detto che debba viaggiare sempre e ovunque ad alta velocità. Il partito popolare è spaccato, come si è visto; i socialisti sono divisi tra la preoccupata cautela dei sindacati e l’avventurismo ecologista ; i liberali non sfuggono alle sirene del big business. Ma il vero pericolo che supera le beghe quotidiane, s’annida nell’arida statistica: il Vecchio continente è già troppo vecchio. La stagnazione secolare evocata da Larry Summers l’economista improvvisatosi profeta, sembra ritagliata perfettamente non per l’America, ma per l’Europa. Hai voglia a sbandierare la “sostituzione etnica” quando la città dei morti dominerà la città dei vivi e immense necropoli come quelle etrusche segneranno le vie d’Europa, dal Manzanarre al Reno, da Capo Nord a Capo Passero.