Una manifestazione contro la guerra di Putin a Vilnius (Ap) 

reportage

Viaggio a Vilnius, dove l'opposizione al Cremlino fa le prove per una nuova Russia

Micol Flammini

La capitale della Lituania è un laboratorio delle opposizioni, dove tutto è scelta e tutto è politica. Tra intellettuali e oppositori del regime di Mosca che nei teatri, nei bar, nei musei, per le strade della capitale lituana preparano il grande cambiamento a est

A Vilnius non  si arriva per caso. A Vilnius si va sempre con uno scopo preciso e intenzioni decise, che spesso hanno a che fare con la politica. La capitale della Lituania è un laboratorio dove si studia, si fabbrica, si discute e si agisce. E’ un crocevia multilingue in cui si lavora per sostenere l’Ucraina e si pensa già a come rifare da zero i due vicini pericolosi, la Russia e la Bielorussia, che anche quando la guerra sarà finita, anche se perderanno, non si sposteranno, rimarranno lì, confinanti, puntati, imprevedibili. Per assicurare la sicurezza e la pace durature, bisogna che arrivi il cambiamento, crollino i regimi, e si impari la democrazia e qui, in Lituania, si inizia a immaginare il futuro. A Vilnius tutto ha un peso, neppure bere una birra è cosa da poco, neppure prendere un autobus, andare al supermercato, passeggiare lo sono: in questa città tutto è una scelta. Perché mentre fai la spesa puoi decidere se comprare le patatine normali o quelle per sostenere Kyiv; mentre aspetti un autobus puoi scegliere se inquadrare il qr code e fare una donazione in favore dell’Ucraina o se aspettare e basta; perché puoi optare se andare in giro vestito con colori a caso o se accostare una maglia blu a una gonna gialla. Puoi scegliere se bere una birra in un locale qualsiasi – comunque tappezzato di scritte “Slava Ukraini” – oppure se scendere le scale che portano in un seminterrato dalla luce rossa soffusa e ritrovarti al Bar Pahonia, il locale dell’opposizione bielorussa.

  

Le bandiere dentro al Bar Pahonia, il locale dell’opposizione bielorussa a Vilnius (foto di Micol Flammini) 
  

La bandiera ucraina c’è anche qui, perché quella di Kyiv è la madre di tutte le battaglie, è il motore che romba resistenza e dolore e che definirà tutti i cambiamenti a est. Anche quelli a Minsk. Al Bar Pahonia dominano il bianco e il rosso, i colori della Bielorussia libera che si sta costruendo anche nei laboratori di Vilnius. E la Pahonia è un simbolo che unisce i bielorussi e i lituani perché il cavaliere con lo scudo d’argento sul cavallo bianco è lo stemma della Lituania, è stato il simbolo del Granducato e lo è stato anche della Bielorussia nei pochi anni di indipendenza e libertà: fu Lukashenka a volerlo toglierlo e l’opposizione lo vuole ripristinare. Intanto che a Minsk c’è il dittatore, la Pahonia è un simbolo clandestino di resistenza. Andare su internet nel bar è una presa di coscienza, perché la password del wifi è “freepeople”. Le persone libere sedute ai tavoli o al bancone sono bielorussi, lituani, russi, ucraini, tutti consapevoli che essere lì non è come essere in un bar qualsiasi, è una scelta, ed è politica. 

  
Vilnius è irrequieta e decisa e tra i suoi locali, nelle sue scuole, nelle piazze, nei teatri si studia un modello di nuova convivenza tra vicini e spesso si fa in russo, la lingua ancora comune dell’aggressore di sempre. Ma è un russo diverso da quello che si parla a Mosca, San Pietroburgo, Saratov, Voronež, Tula o in qualsiasi altro posto in Russia: non ha censura, non ha veti, ha un vocabolario ampio e colorato che ammette e ripete puntuale anche e soprattutto la parola “guerra, guerra, guerra”, “vajnà, vajnà, vajnà”. 

   
Anastasia Shevchenko è bellissima, ha gli occhi limpidi, il sorriso frequente e sereno di chi sembra non aver conosciuto nessun dolore. Ma quando il coraggio incontra la dolcezza crea alchimie ingannevoli: Anastasia Shevchenko ha sofferto e soffre ancora, la sua è una storia di attivismo e opposizione al regime di Vladimir Putin che dura almeno dal 2008. E’ arrivata a Vilnius circa un anno fa, guidando ininterrottamente per ventiquattro ore da Rostov sul Don fino alla Lituania.

   

“Avevo paura – dice al Foglio – paura di essere fermata, arrestata. Paura che mi portassero via i miei figli e che li mettessero in orfanotrofio, così guidavo senza fermarmi. Le autorità russe usano i figli come arma di ricatto, è un regime terrorista, per fermare gli attivisti provano di tutto”. Anastasia e i suoi due figli in macchina hanno attraversato il confine con la Bielorussia, “non ci hanno chiesto nulla, all’epoca bastava mostrare il passaporto russo”, poi è arrivata in Lituania, “abbiamo fatto dodici ore di fila, alla frontiera non mi hanno chiesto molto, sono  stati meticolosi soltanto con i documenti del mio cane”. E dopo la fuga, è iniziata la vita a Vilnius.

 

“Quando Putin ha attaccato l’Ucraina, ho sentito che non potevo rimanere, la Russia non era il paese in cui vivere, per vivere. Sembra semplice abituarsi a qualcosa di bello, come abitare in una nazione democratica, ma ci sono tante cose che devi imparare: a essere libero prima di tutto. Sei abituato a così tante limitazioni autoimposte, a paure; ti restano addosso i riflessi condizionati, le precauzioni che sei abituato ad adottare per sopravvivere. Come non dire ‘pace’, non dire ‘guerra’, stare attento alle parole, alle persone”.

      

I piani dell’opposizione russa. Tra i dissidenti  c’è chi sostiene che contro un regime che capisce soltanto la violenza bisogna essere imprevedibili. Lo ha dimostrato la marcia di Prigozhin: Putin non sa come reagire

  

Ti devi abituare a non sobbalzare quando senti suonare alla porta: “I miei figli sono ancora terrorizzati, soprattutto quando bussano al mattino, pensano che sia la polizia. Qui no, se qualcuno arriva è un amico, un vicino, il postino”. Rimangono addosso le ossessioni, le ansie, le costrizioni e la libertà va appresa. “I primi tempi tutto mi stupiva. Sono andata a iscrivere mio figlio alla scuola in russo e mentre ero lì mi sono resa conto che mancavano dei documenti. Ero scoraggiata. La signora che seguiva l’iscrizione mi ha tranquillizzata, mi ha detto che tutto sarebbe andato bene, che ero una brava madre e la soluzione si sarebbe trovata. Per me era una novità questa gentilezza, era inusuale trovare una persona calma e cortese in un ufficio pubblico. Eppure ero arrivata pronta a tutto. Nella televisione di stato del regime di Putin si sentono talmente tante cose sui baltici, sul loro odio per i russi”.

   

A Vilnius, Anastasia Shevchenko ha trovato collaborazione, suo figlio si è iscritto alla scuola in russo che si trova nella via intitolata al poeta ucraino Taras Shevchenko e studia assieme a ragazzi russi, lituani, ucraini e bielorussi. Una volta, racconta l’attivista, l’insegnante ha chiesto loro di disegnare la bandiera del paese di origine, suo figlio era agitato all’idea di dover mostrare la bandiera russa e quando è arrivato a scuola con il compito fatto, davanti ai suoi compagni ucraini che esibivano il vessillo blu e giallo, si è vergognato e ha abbassato il suo tricolore. Ha detto di non aver sentito il giudizio degli altri, è stato istinto.

  

“Chiedo perdono a ogni ucraino che incontro – dice Anastasia – ho dei parenti che vivevano a Kharkiv, la sorella di mia mamma si sposò con un ucraino, adesso ci raggiungeranno qui, a Vilnius, vivremo tutti insieme. All'inizio della guerra erano più preoccupati per me che per loro, mi ripetevano che sarei dovuta scappare perché presto in Russia sarebbe mancato tutto. Quando chiedo scusa, mi dicono che ognuno è responsabile per quello che fa personalmente, e soltanto chi ha attaccato l’Ucraina deve sentirsi responsabile, mi dicono: smettila di parlare di colpa e pensa a come sconfiggere il regime. Capisco il ragionamento, ma questa volta non sono d’accordo, tutti noi russi dobbiamo portare il nostro fardello di colpa, assumerci le nostre responsabilità perché è proprio questo uno dei problemi del nostro popolo: l’irresponsabilità. Siamo una nazione immatura, abituata a pensare ancora in modo sovietico, che tutto sia pianificato, che lo stato prenderà decisioni per te. Non abbiamo mai visto un politico prendersi delle responsabilità, viviamo nell’attesa che qualcun altro faccia qualcosa per noi. Anche l’opposizione è immatura, rimane a domandarsi cosa fare e poi non agisce. Credo sia inutile dividere i russi, in questo momento, tra conniventi e no, tra buoni e cattivi: ora dobbiamo prenderci tutti le nostre responsabilità, altrimenti ci sarà sempre chi si siederà dalla parte dei buoni perché ritiene di non aver avuto nessun ruolo nella guerra, rimarrà irresponsabile, immaturo e non cambieremo. La Russia deve perdere e noi dobbiamo imparare questa lezione dalla storia”.

   

Anastasia Shevchenko distingue tra colpa e responsabilità, insiste sulle necessità di far sentire il fallimento e la sconfitta a un popolo rimasto indietro rispetto agli altri, agli stessi lituani e ucraini che hanno condiviso una storia comune. Sentire i propri compiti, ragionare sulla storia serve a cambiare per sempre. Alla colpa penserà la giustizia internazionale, al cambiamento dei russi devono pensarci i russi stessi.
 

Tomas Venclova è il più grande intellettuale della Lituania, è stato un dissidente, ha frequentato i più grandi scrittori del secolo scorso, russi, polacchi, lituani, americani. E’ nato a Klaipeda, affacciata sul Mar Baltico, che tra le sue dune conserva i ricordi di occupazioni e dominazioni straniere e altrettanti nomi: è stata Memel in tedesco, Klajpeda in polacco, Rubiške in russo. Venclova conserva in se stesso questa essenza multilingue e multiculturale, che è tra i segreti e la forza della Lituania. Ha studiato a Mosca, dove ha conosciuto Anna Achmatova e Iosif Brodskij, ha insegnato a Yale e Berkeley, ha vissuto in Polonia, dove ha conosciuto Czeslaw Milosz, Wislawa Szymborska, e Adam Michnik, il fondatore della Gazeta Wyborcza e suo grande amico: Venclova sorride al sentir pronunciare il suo nome. E’ stato il testimone e il protagonista di un mondo in cambiamento, di aperture e di chiusure, ha visto la Lituania diventare democratica e la Russia non riuscirci. Anche Venclova crede che il cambiamento di Mosca debba passare attraverso la sconfitta: “Mosca deve perdere – dice al Foglio nel suo appartamento luminoso pieno di fotografie di incontri di una storia fa – gli aggressori devono essere puniti, perché se non c’è punizione si incoraggiano nuovi crimini. Non credo che ci siano paesi nazionalisti, imperialisti, fascisti in modo irreversibile. La Germania è cambiata, il Giappone è cambiato. Anche l’Italia è cambiata. E non credo che la Russia sia peggio della Germania nazista, può stravolgersi e succederà con la sconfitta, con un processo lungo e faticoso: è stato faticoso ovunque”. Lo abbiamo dimenticato, ma anche in Germania è stato gravoso, per Mosca potrebbe esserlo ancora di più, perché quella che Venclova chiama “ideologia tossica” che ha influenzato Vladimir Putin e il governo si è stratificata negli anni, non risale soltanto all’Urss, ma a secoli prima e ha generato “un pensiero pericoloso e diabolico per il mondo intero”. Quando la Russia ha attaccato l’Ucraina, Venclova ricorda di aver pensato “che la guerra si sarebbe sviluppata come l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, nel 1968. O come l’invasione dell’Afghanistan. Nei due casi i sovietici presero subito le capitali, cambiarono i governi, gli inizi furono semplici ma poi persero. Dopo qualche giorno dall’inizio dall’invasione, i russi non erano arrivati a Kyiv e ho pensato che forse la guerra poteva essere più simile all’invasione nazista della Polonia nel 1939. Quando i tedeschi presero Varsavia in 17 giorni e la Polonia perse in un mese. Ma in 17 giorni l’Ucraina ha continuato a difendersi. Così ho pensato che potesse essere come la guerra sovietica contro la Finlandia nel 1940 che è durata tre mesi, la Finlandia rimase indipendente e democratica ma perse alcuni territori. Ora sono passati più di 500 giorni di guerra, l’Ucraina sta liberando le regioni occupate, sta vincendo, e così ho tentato di comparare la situazione alla guerra russo-giapponese del 1904: la Russia perse, il Giappone vinse. Io sono cresciuto come un pacifista, sono contrario alla guerra, trovo sia inammissibile nel Ventunesimo secolo, sono contro l’aggressione di Putin, contro il suo potere, e gli auguro di essere sconfitto”. Venclova depura la parola pacifismo dagli inganni in cui spesso la avvolge la politica italiana. Pacifismo, in questa guerra, vuol dire restaurazione della pace che è sinonimo di libertà dell’Ucraina e sconfitta della Russia. Questo è il sentimento che in Lituania, lituani, ucraini, russi, bielorussi condividono e da cui partire per cambiare la storia dell’est dell’Europa. Venclova distingue tra il governo russo, i russi e la cultura russa. Ritiene che il sentimento di rifiuto nei confronti della cultura russa sia normale, ma la cancellazione è sempre un danno. “Ovviamente l’atteggiamento nei confronti dell’arte di Mosca è cambiato da quando è iniziata la guerra e si può paragonare alla reazione che si ebbe nella Seconda guerra mondiale con la cultura tedesca. Ogni paese ha i suoi scrittori, musicisti, pittori che sostengono le tendenze nazionalistiche, ma se Wagner lo faceva, non si poteva dire lo stesso di Goethe o Schiller o Lessing. L’eredità culturale è sempre complicata, prendiamo due compositori sovietici come Šostakovich o Prokof’ev: erano indubbiamente sovietici, ma non credo dovrebbero sparire, essere cancellati, o non ascoltati”.

  

Per Anastasia Shevchenko ogni russo deve assumersi la  responsabilità della guerra in Ucraina: i russi sono un popolo immaturo. Tomas Venclova  dice  che la colpa collettiva non esiste, perché la colpa è sempre individuale e questo è uno dei più importanti valori occidentali

   

All’eredità del suo amico Brodskij è successo di peggio: la propaganda del Cremlino si è impossessata delle sue opere e ne ha fatto un aedo della guerra contro l’Ucraina. “Iosif Brodskij aveva scritto alcuni versi a mio avviso molto stupidi contro Kyiv, gli consigliai di non pubblicarli, ma divennero pubblici. Così, come ha detto Michnik, non sappiamo chi vincerà la guerra, ma sappiamo già chi ha perso: Brodskij. Lo conoscevo bene, se ora fosse vivo sarebbe  contrario al regime di Putin”, il suo ricordo è amichevole, caldo, preoccupato per l’eredità dell’amico e della cultura. Venclova riflette anche sul futuro della lingua russa: “In Lituania abbiamo una parte di popolazione che parla russo, circa il 6 o il 7 per cento, è una lingua usata nelle strade, nelle famiglie, i lituani lo parlano. Proviamo dei sentimenti molto negativi per il governo di Mosca, ma non abbiamo una forma di rifiuto nei confronti del russo o della cultura”.

  
A Vilnius c’è un teatro in cui si recita in russo, è un edificio elegante, antico, i corridoi che conducono ai loggioni sono ricoperti di tappeti rossi, gli specchi accompagnano gli spettatori restituendo loro un’immagine sbiadita dal tempo, mentre sentono scricchiolare le assi del pavimento sotto i piedi. E’ un teatro vissuto, e lo scorso anno ha cambiato nome, da Teatro drammatico russo è stato ribattezzato Vecchio teatro di Vilnius. Gli attori, spesso bielorussi, eseguono in russo opere di tutto il mondo. Olga Polevikova è la direttrice di questo centro che racconta molto della forza culturale di Vilnius. “Il nostro teatro è un simbolo di democrazia che rispetta l’anima multiculturale della città – dice al Foglio – nello stesso tempo il teatro è un'arte che cambia con la società, molto velocemente. Prima la pandemia ci ha fatto mettere in discussione il nostro futuro, poi è arrivata la guerra e il nostro teatro doveva adattarsi”. L’idea di cambiare il nome era stata discussa già prima dell’invasione, dopo la guerra la proposta è arrivata da un piccolo gruppo di persone del mondo della cultura e così  anche le istituzioni hanno aperto un dialogo sulla possibilità di ribattezzare il teatro: “Era la cosa giusta da fare, perché la realtà era cambiata. Posso chiamarmi Elisabetta o Olga, se mi chiamo Elisabetta non per questo diventerò la regina di Inghilterra, rimarrò io, lo stesso vale per il nostro teatro che  con il nuovo nome è rimasto autentico, aperto, accogliente, con lo stesso pubblico. Un luogo in cui parliamo di valori, diritti, arte”. L’aggettivo “russo” nel nome rafforzava il cliché che fosse un posto per soli russi, con solo opere russe, l’aggettivo “vecchio” riflette invece la storia di questo edificio comparso nel Diciannovesimo secolo. “Il nostro teatro riflette  la storia di una città che è sempre stata un crocevia di culture”. E il richiamo plurilingue, multiculturale è antico, la direttrice fa riferimento a Gediminas, il granduca di Lituania che costruì Vilnius e invitò a viverci persone da tutta l’Europa orientale, “così è il teatro, così è la città”. 

  
Anche per questo Vilnius è il posto ideale, il laboratorio di eccellenza delle opposizioni. Racconta l’attivista Anastasia Shevchenko che gli oppositori russi che scelgono la capitale lituana, lo fanno per essere pronti a tornare in Russia in qualsiasi momento, è il posto giusto da cui agire e in cui ispirarsi. “Se vai troppo lontano, puoi essere pervaso dai più forti sentimenti di opposizione, ma non tornerai. Se sei qui, sei pronto a tornare anche perché quando immagino la Russia senza Putin io la immagino come la Lituania: è così che saremmo dovuti diventare anche noi”. Invece la Russia è rimasta imbrigliata nella propaganda, è rimasta indietro, involuta, impoverita. “Ci crescono con il mito della grande nazione che ha sconfitto i nazisti come se avessimo fatto tutto da soli, senza gli americani o gli europei. Come se l’Armata rossa fosse costituita soltanto da russi e il contributo degli ucraini, georgiani o armeni non sia mai esistito. Come spieghi poi alla popolazione che siamo una grande nazione che non ha neppure i bagni in casa? Ci sono villaggi senza ospedali, senza internet, ma in cui ogni casa ha la televisione. Come si concilia questo con la grandezza? Non puoi, a meno che non educhi anche al vittimismo, al mito della sofferenza, che è nella letteratura russa, ma soprattutto oggi è nei programmi tv, in modo particolare nelle serie dedicate a un pubblico femminile, in cui viene esaltata la donna che tollera, che sopporta, che obbedisce. I russi si crogiolano nel vittimismo, per questo detesto la parola vittima, ho sempre chiesto ai giornalisti di non definirmi ‘vittima del regime’. Il nostro compito è diventare ‘attori del cambiamento’”. 

  
L’opposizione russa è un universo composito, che spesso fatica ad accordarsi, “non è sempre facile – dice Anastasia – ma ripeto che il primo obiettivo è buttare giù il regime, le nostre differenze le appianeremo in Parlamento, così si fa in democrazia. Ora è il momento di agire contro Putin, di provocare un cambiamento. Faccio riunioni ogni giorno, gli ucraini per me sono una grande fonte di ispirazione, hanno lottato per la democrazia prima e ora combattono per la libertà, vinceranno la guerra, ma noi dobbiamo pensare a sconfiggere Putin in casa: questo è il nostro compito, non possono farlo altri al nostro posto. A volte noi oppositori discutiamo se sia il caso di usare le armi e mi rendo conto che la lotta per la democrazia a volte ne ha bisogno, soprattutto quando il potere conosce soltanto il linguaggio della violenza. Senza armi ci abbiamo provato, una protesta di massa in Russia è impossibile perché la polizia segue e arresta i manifestanti prima che possano partecipare. Ma se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla marcia della Wagner è che il regime non ha un piano e noi per buttarlo giù dobbiamo essere imprevedibili”. Per Anastasia, l’opposizione ha perso una grande occasione con la ribellione di Evgeni Prigozhin che ha mostrato anche le crepe dentro l’esercito, che ha fatto poco per fermare gli ammutinati. “E’ stato un segnale chiaro, i russi sono pronti a sostenere chiunque contro Putin, non c’è un supporto ideologico, c’è solo il controllo su una popolazione che in ventitré anni di presidenza è stata resa ignorante, stupida, quindi controllabile. Ho visto la scuola dei miei figli peggiorare, io studiavo fisica, astronomia, loro avevano ore di indottrinamento.

 

Nelle università ci sono gli uffici dei servizi segreti che identificano gli studenti contrari al regime. La letteratura neppure si studia più, qualsiasi forma di talento, è soffocata”. Tomas Venclova, che ha conosciuto da vicino la cultura sovietica e quella che nasceva quando l’Urss si disgregava è forse uno dei più grandi testimoni del fatto che “la cultura russa è stata affascinante e attiva anche durante l’Unione sovietica, la sua distruzione è iniziata con Putin che ha fatto regredire la società, quindi anche la cultura. Mosca continua ad andare indietro, è un paese reazionario, con una cultura in pessima forma”. Un regno dell’ignoranza in cui è più facile esercitare il potere, che ha reso il paese asfittico, così diverso dai suoi vicini iperattivi e in costante crescita. Quando la Russia sarà senza Putin bisognerà rimettere in piedi le sue istituzioni culturali e soprattutto liberarle del nazionalismo, “i popoli si possono curare dal nazionalismo – dice Venclova con i suoi occhi blu, attenti e fiduciosi – Si curano attraverso l’educazione e anche con la cooperazione con grandi potenze straniere, come accaduto in Germania o in Giappone con l’arrivo degli americani”.

 
Ricostruire da zero, diventare responsabili, maturi, collaborativi e dimostrare di essere cambiati: "Per la Russia futura non credo che vada bene avere un presidente, dice Anastasia Shevchenko, una repubblica parlamentare ci aiuterebbe a evitare di ripetere gli stessi errori”. L’attivismo di Anastasia era iniziato in un settore molto preciso: “Sono la madre di una bambina disabile e mi rendevo conto che lo stato non assicurava nessun diritto. Poi ho lavorato in un comitato elettorale e mi sono accorta di come venivano condotte le elezioni. Ho iniziato a protestare sempre di più, sono stata multata, fermata, arrestata, sono stata agli arresti domiciliari. L’uccisione di Boris Nemcov nel 2015 è stato il punto di non ritorno. Tutti noi oppositori abbiamo sacrificato molto, Vladimir Kara-Murza e Alexei Navalny la libertà, qualcuno ha sacrificato la vita, qualcuno ha perso la famiglia. Io ho perso mia figlia”. Anastasia Shevchenko aveva tre figli, nel 2019 mentre era ai domiciliari, “mia figlia disabile è stata portata in ospedale per una bronchite. Aveva bisogno di assistenza continua, di essere mossa, cambiata, aveva bisogno di essere imboccata con cibo liquido, che in ospedale non avevano. Chiedevo di poter andare da lei, di poterla assistere e non me lo hanno permesso. Un giorno è entrato un poliziotto e mi ha detto: ‘Puoi andare’. Sono arrivata in ospedale e lei non respirava già più. Le autorità volevano che il caso di un’attivista per i diritti dei disabili che perde una figlia fosse paradigmatico, un ammonimento a non protestare e quando il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov parlò di me, di quello che era successo, disse che erano tutti dispiaciuti, ma che una madre anziché protestare e fare cose pericolose dovrebbe rimanersene a casa. Con la morte di mia figlia, Vladimir Putin non era più soltanto un nemico della Russia, era diventato un mio nemico personale”. 
 

La Russia riparte da Vilnius, la comunità mista di questa capitale battagliera, decisa, libera accoglie e controlla. Chiunque qui racconta di avere un nonno russo, una mamma ucraina, uno zio bielorusso, un padre polacco. A Vilnius tutto si incontra e tutto si chiarisce. Il cognome di Anastasia, Shevchenko, è di origine ucraina, l’attivista dice di aver fatto il test del Dna, le avrebbe fatto piacere trovare delle tracce ucraine nella sua famiglia, invece il risultato le ha fornito un quadro composito, un po’ baltico, un po’ georgiano, un po’ russo, ma non ucraino. “Vedendo il cognome però in molti pensano che lo sia, una volta un tassista mi ha detto: ‘Lasci che la abbracci, vincerete!’. Oh no, ho pensato. Ma non ho avuto il coraggio di dirgli nulla”. Vilnius però è anche inflessibile, perché la ricostruzione in Russia questa volta dovrà essere vera, non di facciata, non sarà più ammissibile un nuovo Putin che si avvicina alla politica parlando di democrazia e instaura un nuovo regime; quindi la capitale lituana manda messaggi chiari. Non lontano dal palazzo del Parlamento, si trova una vecchia prigione del Kgb, è un edificio in mattoni, con ancora il filo spinato che rievoca ricordi terribili in molte famiglie. Oggi è un museo e vengono organizzati eventi in cui si parla di valori, diritti, si trasmettono film, ci si ritrova. Una sala di quella prigione è dedicata ai crimini di guerra che i russi hanno compiuto in Ucraina dal 24 febbraio del 2022. C’è un filmato che viene trasmesso ininterrottamente con le immagini di distruzione e sofferenza e in sottofondo si sentono le voci dei soldati russi che si vantano della violenze compiute durante l’invasione. Sono quasi bisbigli, si sentono risate, racconti osceni, lasciano addosso un brivido e portano a chiedersi se davvero, dopo tanta violenza, tanto male, tanti ghigni, soprusi, dolori, malvagità e idiozia sarà possibile ricucire con un paese che ha generato tutto questo, che si estende enorme e vorace lungo il confine orientale dell’Europa e che si è trasformato in un covo di risentimenti, vittimismo, falsi miti sulla debolezza della democrazia, razzismo, oppressione, che ha abituato a tal punto i suoi cittadini alla sopraffazione da averla resa naturale, irrimediabile.

 

Per Tomas Venclova bisogna iniziare dalla colpa, che però, dice l’intellettuale, “è sempre individuale. Ci possono essere organizzazioni colpevoli, come lo sono stati il Partito nazista, la Gestapo, le SS. Ma la colpa non si può estendere a tutti. Neppure a tutti i soldati, vanno giudicati e puniti i soldati che hanno stuprato, sparato sui civili, giustiziato, rubato, non un soldato in trincea. La colpa collettiva non esiste – ripete l’intellettuale lituano – è sempre individuale e questo è uno dei più importanti valori occidentali e non possiamo dimenticarlo mai”. Anche se sembra che i russi sostengano la guerra: “All’inizio di ogni conflitto, le persone credono al potere, poi l’atteggiamento cambia. Ora la maggioranza dei russi sostiene Putin, attivamente o passivamente, è presto per ogni previsione, ma se ci fosse un cambiamento, la gente lo seguirebbe. Già ci sono russi che lottano contro il regime e contro la guerra, dobbiamo ricordarcelo, io ho contatti con loro, alcuni sono in Russia e sapere che ci sono, mi dà speranza”. 

   
La responsabilità della ricostruzione e della restaurazione del futuro è molto grande, a Vilnius, la città laboratorio si cercano le idee, si esamina la convivenza, si studia il metro con cui stabilire nuovi rapporti con Mosca o con Minsk, e, senza sosta, si aiuta Kyiv. Per le strade di Vilnius si vedono i ritratti dei dissidenti lituani che hanno combattuto contro il regime sovietico, vengono esposte le foto della guerra di oggi e delle persecuzioni di ieri. Ogni immagine è importante, la decisione di guardarla o meno è una scelta, è politica. Poi c’è una foto di cui tutti parlano e che racconta quanto i lituani si stiano portando avanti nel disegnare il futuro: nella cella di una prigione di Vilnius c’è un ritratto. E’ la foto di Vladimir Putin. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)