Il successo dell'Aja
Niente Sudafrica per Putin. Tarfusser ci spiega come funziona la Corte penale internazionale
Il sostituto procuratore generale della Corte d'appello di Milano che ha chiesto la revisione del processo sulla strage di Erba, dal 2009 al 2019 alla corte penale internazionale, spiega perché Putin non andrà al summit dei Brics
“Sin da quando è stata avanzata l’ipotesi di un viaggio di Putin a Johannesburg ho sostenuto che difficilmente si sarebbe realizzato”. A parlare è il sessantanovenne altoatesino Cuno Jakob Tarfusser, giudice della Corte penale internazionale (Cpi) dal 2009 al 2019 e oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano. In una conversazione con il Foglio illustra le ragioni per le quali il presidente russo ha deciso di non recarsi al summit dei paesi Brics in programma in Sudafrica a fine agosto. Su Putin pende, infatti, un mandato di arresto per crimini internazionali legati all’invasione dell’Ucraina, spiccato il 17 marzo proprio dalla Cpi. Pretoria aveva chiesto al Cremlino che il presidente rinunciasse alla visita, pena la cattura. Il Sudafrica è uno dei 123 stati aderenti allo Statuto di Roma e su di esso grava l’obbligo di collaborare con la Corte nelle proprie azioni giudiziarie; in particolare, la Cpi, che ha sede all’Aja, può presentare a uno stato parte, nel cui territorio si trovi la persona ricercata, una richiesta di arresto e consegna.
Di qui il tentativo del Sudafrica di dissuadere il Cremlino che sulle prime, era parso irremovibile. Alla fine, dinanzi alle insistenze di Pretoria che, pure, per il tramite del suo presidente, Cyril Ramaphosa, aveva ventilato l’ipotesi di una speciale esenzione della Corte onde evitare una “dichiarazione di guerra” (sic) da parte di Mosca, Putin ha optato per l’invio del ministro degli Esteri Sergej Lavrov.
Si tratta di un significativo successo della Cpi, nella settimana del 25esimo anniversario dalla sua istituzione. Che l’esito non potesse che essere questo Tarfusser lo aveva previsto già qualche giorno fa. “Determinante è il precedente di al-Bashir”, aveva spiegato il magistrato. Nel 2015, quando ancora pendeva un mandato di arresto per i crimini in Darfur, il presidente del Sudan ʿOmar al-Bashir si era, infatti, recato a Johannesburg per una riunione dell’Unione africana e, nonostante la richiesta di arrestarlo, il Sudafrica aveva temporeggiato, senza ostacolarne il rientro in patria. Due anni più tardi, la Cpi accertò la violazione sudafricana dell’obbligo di cooperazione nell’esecuzione del mandato di arresto. Dinanzi al peso del precedente, a sua volta rafforzato da analoghe pronunce contro altri stati che si erano rifiutati di catturare al-Bashir, Pretoria ha scelto di non ignorarlo. La questione riguarda l’immunità di un Capo di stato, una norma internazionale consuetudinaria che dovrebbe impedire di processarlo davanti a tribunali stranieri.
La giurisprudenza della Corte ha affrontato il problema della sua applicabilità in modo asistematico, visto che le argomentazioni in base alle quali l’immunità è stata ritenuta irrilevante sono diverse: talora la Corte ha ritenuto che l’ istituzione stessa di un tribunale che giudica su crimini internazionali escludesse che un Capo di stato potesse invocare l’immunità, talora ha stabilito che fosse la consuetudine a prevedere un’eccezione all’immunità qualora un Capo di stato fosse accusato di tali crimini; altrove, infine, come proprio nel caso del Sudafrica su cui si espresse Tarfusser, presidente di quel collegio, ha riconosciuto che secondo lo Statuto l’immunità non si applica nel rapporto tra la Corte e uno stato parte o nel rapporto tra due stati parte. Invece, la Corte non può pretendere da uno stato parte l’arresto del Capo di uno stato non parte, pena spingere il primo a violare i propri obblighi internazionali nei confronti del secondo. Nel caso di Sudafrica e Sudan, pur non essendo quest’ultimo uno stato aderente allo Statuto, la Corte ritenne che la risoluzione con la quale il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva incaricato il procuratore della Cpi di indagare sui crimini in Darfur, costituisse un implicito riconoscimento della sussistenza dell’obbligo di cooperare, a prescindere che il ricercato fosse Capo di uno stato non parte.
Nel caso odierno, riguardante Putin, manca un’analoga risoluzione, più volte bloccata dal veto della Federazione russa, che non aderisce allo Statuto, sicché a Pretoria non sarebbe forse stato impossibile argomentare l’assenza di un obbligo di cooperazione. Ma Tarfusser non ne è convinto: “Nel 2017 decidemmo di fondare l’obbligo di cooperazione sulla risoluzione perché era necessario trovare una maggioranza nel collegio – spiega –. Io, da rude penalista e a differenza di molti internazionalisti, rimango convinto che esso derivi direttamente dallo Statuto e che l’immunità non abbia alcun rilievo, sicché, se avessi potuto, avrei anche evitato un riferimento alla risoluzione”. Del resto, nelle pronunce riguardanti gli altri stati che hanno violato l’obbligo di cooperazione, la risoluzione del Consiglio di sicurezza non ha avuto valore assorbente: “Lo Statuto di Roma richiede di essere ben interpretato e, se non lo si vuole privare del tutto di senso, è evidente che l’immunità di un qualsiasi Capo di stato non possa ostacolare uno stato parte nell’assolvimento dei propri obblighi. La giurisprudenza della Corte sarà stata ondivaga – conclude Tarfusser – ma mi sembra abbia indicato l’interpretazione corretta e la decisione del Sudafrica di oggi è lì a dimostrarlo”.
Cosa c'è in gioco