La Conferenza internazionale di Roma

Meloni porta a Roma l'Europa e il Mediterraneo del sud. Le ragioni di una conferenza internazionale in Italia

Luca Gambardella

Dal blocco navale al dialogo con il Nordafrica e il Golfo, ecco a cosa punta la presidente del Consiglio che diventa il pivot del multilateralismo mediterraneo

Il discorso di Meloni in apertura della Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni alla Farnesina è partito da tre assunti principali, alcuni facilmente scardinabili sulla base delle evidenze del fenomeno migratorio accumulate negli anni e della sua gestione da parte dell’Italia in particolare. 

A contare non sono soltanto le parole ma anche gli interlocutori cui il premier si è rivolta.

Alla Conferenza hanno preso parte i leader di quasi tutti gli stati della sponda sud del Mediterraneo allargato, del medio oriente e del Golfo, gli stati europei di primo approdo e alcuni partner del Sahel e del Corno d'Africa, i vertici delle Istituzioni europee e delle istituzioni finanziarie internazionali. Sono presenti cinque capi di stato (Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Mauritania, Libia, Cipro), otto primi ministri(Libia, Etiopia, Egitto, Malta, Giordania, Nigeria, Algeria, Libano), e otto ministri (Arabia Saudita, Marocco, Oman, Kuwait, Turchia, Grecia, Qatar, Bahrein). Come ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, Roma è il centro del dialogo sui migranti e questa conferenza si colloca in continuità con quel che Meloni ha chiesto al vertice della Nato a Vilnius - più attenzione al Mediterraneo - e naturalmente alle iniziative in corso con la Tunisia, in continuità e collaborazione con Bruxelles, come ha confermato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, a Roma. 

Gli interlocutori contano molto, così come l’approccio con cui Meloni ha aperto i lavori.


Il primo punto è sorprendente, ed è quello che verte sulla semplice idea che “prima vengono le persone e poi gli stati”. Un principio del tutto condivisibile, ovviamente, ma stavolta a enunciarlo è stata chi fino a pochi anni fa invitava la polizia a sparare ai gommoni dei migranti. Scelte politiche come il finanziamento della Guardia costiera libica, il dirottamento delle ong lontano dal Mediterraneo centrale, la conduzione di operazioni di salvataggio dando priorità all’aspetto di polizia piuttosto che a quello del salvataggio sembrerebbero in contraddizione con questo assunto. Ma d’altra parte una dichiarazione del genere, che da destra non esiterebbero a bollare come “umanitarista”, rientra nel lento e inesorabile processo di normalizzazione di Meloni, da leader sovranista e amica di Orban a pivot del multilateralismo nel Mediterraneo.


Il secondo punto notevole è l’appello rivolto al sentimento nazionalista africano. Il “dialogo fra pari” a cui ha fatto riferimento Meloni è una captatio benevolentiae a cui nessuno leader occidentale che oggi intenda trattare con Africa o mondo arabo può più fare a meno. I francesi non sono riusciti a scrollarsi di dosso il peso di un passato colonialista che ne ha affossato il ruolo e l’influenza e ora l’Italia ha interesse a prenderne il posto. “Abbiamo gli stessi interessi”, ha aggiunto Meloni, ed è lo spirito che in meno di un anno di governo l’ha vista spesso in Tunisia, in Algeria, in Libia come interlocutore aperto al mondo dei nuovi “non allineati”. Il non detto è che nessuno si illude di vedere questi paesi come veri “alleati” dell’Italia e men che meno, in Africa, vedono in Roma un alleato. Vogliono potere parlare con tutti: America, Europa, Russia e Cina. Si tratta di cooperazioni mirate, su progetti particolari. Si è partner in affari di cui non ci si può fidare fino in fondo. 


Il terzo punto è l’inevitabile mole di contraddizioni su cui si è scontrata la premier nel suo discorso. Quando afferma che “l’immigrazione illegale danneggia tutti, escluse le organizzazioni criminali che usano la loro forza anche contro gli stati”, Meloni in realtà non può ignorare che le organizzazioni criminali e gli stati sono spesso la stessa persona. Basta guardare alla Libia, dove istituzioni e reti di trafficanti combaciano alla perfezione, sia in Tripolitania sia in Cirenaica. Se si pensa al grande naufragio al largo della Grecia, solo per fare l’esempio più eclatante, i responsabili di quel viaggio mortale, una delle più grandi tragedie del mediterraneo, erano direttamente legati al clan di Haftar. Stessa cosa avviene a ovest, dove i vari Bija e altri trafficanti sono stati accolti in Italia per incontri di livello ministeriale in questi anni pur essendo loro i primi a decidere quando e come aprire i rubinetti dei migranti. Allo stesso modo in Tunisia, un presidente dittatore decide in piena autonomia come gestire la pressione migratoria, alimentando un odio interetnico con grande presa nell’opinione pubblica del paese, stremata dal disastro economico in cui è finito. Le reti criminali che trafficano esseri umani sono gli stessi stati con cui trattiamo. Pensare che siano due elementi distaccati è una visione che non può portare a ottenere risultati concreti. Infine, Meloni ha riconosciuto per la prima volta che “lo scafista è spesso l’ultimo anello di una catena”. Ed è esattamente così, perché spesso chi guida i gommoni è costretto con la forza dai veri trafficanti a mettersi alla guida della barca alla partenza. Bene quindi, perché fino a oggi sembrava invece che tutti gli sforzi del governo fossero invece orientati tutti sulla “caccia allo scafista”. 

Ma il “processo di Roma” è anche un innegabile successo diplomatico per la premier italiana. La foto del meeting con molti dei principali leader del Mediterraneo riuniti a Roma su invito di Meloni certifica che quello che per la premier potrebbe essere l’embrione del tanto annunciato “Piano Mattei”. Fra i capi di stato, di governo e i ministri di molti stati mediorientali e africani spicca Mohammed bon Zayed. Se persino il presidente degli Emirati Arabi Uniti, deus ex machina dei cambiamenti politici in atto in molti paesi africani e mediorientali, decide di accogliere l’invito dell’Italia significa che l’Italia ha trovato un nuovo, influente interlocutore sul fronte economico e della gestione del fenomeno migratorio.

 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.