Lo stallo elettorale
Nella Spagna del pareggio serve “un po' di buon senso all'italiana”
"Bisogna che qualcuno spieghi con franchezza a questo paese che il bipartitismo non c’è più. Serve scendere a compromessi e negoziare", ci dice Iñigo Domínguez, ex corrispondente da Roma ed editorialista del País. Le possibilità di un governo Sánchez II e il ruolo di Puigdemont
Valencia. E’ dal 2015 che ogni elezione spagnola restituisce più o meno lo stesso risultato: ingovernabilità. Anche oggi è così, con il “pareggio tecnico” tra popolari e socialisti. Tutti sono d’accordo su un’unica cosa, la sconfitta di Vox, per il resto c’è chi vede il pareggio come una resistencia della sinistra, chi come la vittoria della destra (il partito popolare guadagna 47 seggi): a dividere i socialisti dai popolari ci sono 330.870 voti. Le parole profetiche di Felipe González sono le più citate nei corridoi de Las Cortes: “Avremo un Parlamento all’italiana, ma senza italiani capaci di gestirlo”. L’ex premier socialista (che, durante le elezioni, ha preferito rifugiarsi a Menorca piuttosto che sostenere il partito) pensava alla nostra Prima repubblica, quella dei pentapartito, delle convergenze parallele, dei compromessi storici, ma anche alla Seconda, fatta di larghe (o larghissime) intese, di transfughi, ribaltoni e controribaltoni, correnti e sottocorrenti, odi e passioni e volubilità politiche. Agli spagnoli manca la pratica: dopo l’euforia barricadera contro Santiago Abascal al grido del “no pasarán”, il premier socialista Pedro Sánchez ha ordinato ai suoi di cedere l’iniziativa al leader del Partito popolare, Alberto Núñez Feijóo, affinché si faccia fotografare da solo con Vox. E vedere che cosa sa fare. Frattanto bisogna far sedimentare i risultati, aspettare che ogni formazione valuti da che parte stare, e posticipare a settembre le negoziazioni formali per formare il governo.
“Temporeggiare, si dice così?”, dice Iñigo Domínguez, giornalista ed editorialista del País: “In Italia conoscete bene questa parola, per noi è più complicato”, spiega l’analista politico, che ha vissuto per più di un decennio a Roma come corrispondente per il quotidiano basco El Correo. “Per gli spagnoli scendere a patti, trovare accordi, è qualcosa di terrificante. O si è rossi o si è neri”, sintetizza. Eppure, in questi ultimi anni, qualcosa sembra stia cambiando. “Per un militante di sinistra, fare per esempio accordi con EH Bildu (il partito basco, ndr) è sempre stato un punto delicato. Adesso Sánchez sembra non voler nascondere più la testa sotto la sabbia, né vergognarsi. Bisogna che qualcuno spieghi con franchezza a questo paese che il bipartitismo non c’è più. Serve scendere a compromessi e negoziare. Ci vuole un po’ di buon senso all’italiana, insomma. Quello positivo, intendo. La Spagna è una democrazia giovane, ha ancora molto da imparare”, dice Domínguez.
Al netto del fatto che i popolari non avranno i numeri per governare, la possibilità di un Sánchez II, secondo Domínguez, non è poi così remota. Bisogna essere pragmatici, “anche e a maggior ragione con gli indipendentisti”. Per i socialisti, l’astensione del partito di Carles Puigdemont (JxCAT) sarà essenziale per continuare a guidare la Moncloa. Nella riunione dell’esecutivo di lunedì, lo stesso presidente ha negato lo scenario di un blocco e si dice “sicuro” che “questa democrazia troverà la formula per la governabilità”. Non ha dato altri indizi. Per Puigdemont negoziare con il Psoe conviene di più. “Se è intelligente, potrebbe approfittare della situazione, avrebbe quattro anni per giocare le sue carte e ottenere qualcosa. Con Feijóo, invece, non ci sarebbe nulla da fare”, spiega Domínguez. Ma si sa, Puigdemont, che dopo l’affaire catalano è stato ribattezzato “l’uomo di Waterloo”, “vive da tempo in un mondo parallelo”, sorride il giornalista del País: “A lui interessa alimentare il caos e rafforzare le tensioni che negli ultimi tempi, in realtà, si erano mitigate. L’indipendentismo è sceso dal 47 al 27 per cento. Oggi a Barcellona il partito più votato è quello socialista. Con Puigdemont, però, tutto può accadere”. Sarebbe pure ora di “tendere la mano all’avversario”, altrimenti si dovrà tornare alle urne, e per l’ennesima volta, lo stesso (o quasi) risultato.
L'editoriale dell'elefantino