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Mosca si veste da Barbie. I Russi vanno pazzi per il film di Greta Gerwig

Micol Flammini

Ma quale Terza Roma. Putin impone il grigio, ma i russi scelgono il rosa. Cercano la pellicola di contrabbando, volano fino ad Astana e in patria riproducono la loro Barbie Land 

La Russia ha una voglia pazza di rosa e brillantini, bionditudine accesa e occidente. Quando i russi abbracciano il modello occidentale, spesso ne esaltano le caratteristiche, prendono le sue  forme più pacchiane e marcate, così la mania per il film “Barbie” di Greta Gerwig in Russia è diventata un’ossessione che si esprime con feste a tema, glitter, un rosa ubiquo che inebria gli occhi. Mosca è Barbie Land che cerca di scacciare i tormenti, fra locali agghindati come case dei sogni che si alternano ai cartelloni che invitano i russi ad andare a combattere contro l’Ucraina. Laddove   domina il rosa si prova a vivere nel migliore dei mondi possibili, in cui ogni giorno è perfetto come era perfetto il precedente, ma sul domani rimane l’incognita perché per  le strade si susseguono i giorni terribili di una Russia incattivita dalla guerra. E pensare che molti russi non vedranno neppure il film, perché la Warner Bros. ha sospeso le uscite in Russia: per alcuni Barbie rimane da immaginare, un cartellone pubblicitario variopinto, come una Margot Robbie immobilizzata in un sorriso da bambola. Per altri Barbie è un obiettivo.  

 

Vladimir Shushvalov è un ragazzo moscovita di ventuno anni che ha raccontato al Moscow Times di aver pagato 30 mila rubli, più di trecento euro, per andare ad Astana, in Kazakistan, e vedere la prima del film. Ha detto che  a incuriosirlo è stato il trailer così luminoso e colorato e poi la decisione di raccontare la bambola in un modo “non convenzionale”. Così, quattro giorni prima dell’uscita del film, Vladimir ha comprato il biglietto per Astana e quando è arrivato nella capitale kazaka, è stato accolto dallo stupore dei tassisti che non potevano capire come un film potesse valere un viaggio così costoso. I motivi sono la luminosità, il colore, il sapore di un mondo da osservare in lontananza e che sa di alternativa. La stampa russa racconta di una Mosca agghindata di rosa, di feste a tema Barbie, della pellicola smerciata di contrabbando nella sua versione originale o in georgiano, di ragazzi che si rinchiudono in scatole di bambole, di codici d’abbigliamento chiamati “Barbiecore”, di influencer che cantano “I’m a Barbie girl” degli Aqua, di un’invasione di colore che si staglia sulle mimetiche di guerra. 

 

Portando avanti un’involuzione nel campo dei diritti, iniziata ben prima dell’invasione dell’Ucraina, in questo anno Vladimir Putin ha ridotto le libertà dei russi nel nome di quelli che ama chiamare “valori tradizionali”, con i quali dipinge il mito di una Mosca come di una Terza Roma, regno, tempio e custode della sacralità. La capitale russa però vuole essere altro, Putin le impone il grigio e lei sceglie il rosa. 

 

Quando Mosca si innamora dell’occidente si innamora del suo eccesso, di Barbie, delle limousine, di una possibilità di scelta talmente ampia che crea imbarazzo. Il film di Greta Gerwig è un blockbuster di contrabbando per i russi, e proprio come accadeva con i prodotti occidentali durante l’Unione sovietica, viene smerciato e passato sottobanco, divulgato tra una chat di Telegram e l’altra. Difficile che un ragazzo che  entra in una scatola da bambola acconciato da Ken e cosparso di glitter accetterà di buon grado di andare in guerra quando la Russia, che ha alzato l’età massima per la leva obbligatoria a trent’anni, annuncerà una mobilitazione totale. Difficile che il Ken russo, che nel suo mondo ideale vive senza armi, troverà delle ragioni per combattere se non il sopravvivere. Difficile che, al di là di essere un numero in più, uno dei tanti, uno dei sacrificabili, farà la differenza sul campo di battaglia. 
L’Unione sovietica impazziva per i jeans, per il rock, la Russia di Putin va matta per Barbie. La lezione è una: Mosca perde la testa  per i colori, per gli eccessi. Se le propini il grigio, cerca il rosa. E non un rosa pallido, antico. Cerca il fucsia. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)